Molto
mi ha colpito il recentissimo pamphlet scritto da Elena Löwenthal ed
esplicitamente intitolato “Contro il Giorno della Memoria” in cui –
riassumo rozzamente – l’autrice afferma che desidererebbe veder nascere
un Giorno dell’Oblio per poter dimenticare finalmente gli orrori che il
nazismo ha perpetrato contro il suo popolo e per cancellare dalla sua
mente i ricorrenti incubi che proprio nella memoria dei racconti da lei
sentiti si annidano. A prima vista potrebbe sembrare che questo
desiderio c’entri ben poco con il tema su cui stiamo riflettendo oggi,
ma in realtà, invece, mi sembra utilissimo per avvicinarvisi.
La
Löwenthal può esprimere questo concetto – che nella bocca di un altro
apparirebbe blasfemo – perché è ebrea, è giovane ed è donna. Ma per gli
stessi tre motivi – è ebrea, è giovane ed è donna – non può permettersi
di essere seriamente contro il Giorno della Memoria; di desiderare
davvero di cancellarlo.
In
teoria gli ebrei potrebbero anche avere il diritto di dimenticare, ma
devono essere coscienti che gli altri questo diritto non possono averlo,
almeno fino a quando i germi del razzismo e delle intolleranze
religiose, linguistiche e politiche – di cui anche Israele è in parte
portatore – non saranno del tutto scomparsi dalla faccia della terra.
Perché, tra l’altro, la memoria non deve riguardare soltanto i crimini
commessi dagli altri, dai cattivi conclamati, da coloro che ci sono
lontani nello spazio e nel tempo, ma anche quelli commessi da noi, come
popolo, in certi periodi della nostra storia: per l’Italia ricordo
soltanto le leggi razziali e il colonialismo condito da bombardamenti,
gas mortali, repressioni e stragi in Libia e nella cosiddetta Africa
Orientale, ma anche i Lager nostrani, quelli di Gonars e di Varmo, dove
hanno trovato la morte centinaia di persone di lingua slovena o croata,
o, ancora, le direttive di repressione della popolazione jugoslava
durante la quale il generale Mario Roatta disponeva la «deportazione
totalitaria» di civili che non avrebbero dovuto più «parlare e nemmeno
pensare nella loro lingua», mentre il generale Mario Robotti si
lamentava per iscritto che le truppe italiane ammazzavano troppo pochi
abitanti dei villaggi sloveni.
Anche
i giovani potrebbero non avere voglia di sentire storie del secolo
scorso perché si sentono estranei a quegli anni e non colpevoli delle
atrocità avvenute. Ma pure per loro la memoria è un obbligo, morale e
pratico. Ha scritto Tzvetan Todorov: «Se in seguito al morbo di
Alzheimer un individuo è privato della memoria, cessa di essere se
stesso. Allo stesso modo un popolo non può esistere senza una memoria
comune». È un richiamo alla necessità di non dimenticare mai il proprio
passato, di non far finta che le cose più orribili non siano mai
accadute, ma, anzi, di indagarle con spietatezza e di mantenerle vive
per poi utilizzare, ogni volta in cui serve, l’armadio dei brutti
ricordi, quel posto buio e pauroso dove, però, è obbligatorio guardare
ogni tanto per tenere bene a mente gli orrori e gli errori che non si
devono fare più.
Per
le donne, poi, il problema della saturazione della memoria non dovrebbe
neppure porsi in quanto, anzi, si è ancora molto indietro nella
ricostruzione di quello che l’universo della deportazione, della
prigionia e dello sterminio ha voluto dire per loro. E, in questo senso,
il recupero della coscienza di quello che è accaduto è importante non
tanto per ricordare le vittime, che comunque sarebbero oggetto della
pietas di tutti e rimarrebbero sempre presenti nelle menti di parenti e
amici per i vincoli di affetto traumaticamente spezzati, quanto perché
la cosa fondamentale – per quanto paradossale possa sembrare – è
ricordare i carnefici, l’aberrazione dello sterminio e del razzismo, e,
così facendo, tenere sempre in primo piano quella generalizzazione che
tutti noi, quotidianamente, anche inconsciamente, siamo portato a fare. I
meridionali, gli islamici, i drogati, i gay, i rom, gli handicappati, i
disoccupati, i mendicanti, gli extracomunitari, i tedeschi, i
giapponesi, le donne, appunto, come se queste immense categorie non
avessero in se milioni di diversità; come se queste generalizzazioni non
fossero fatte di ignoranza e non portassero alla cancellazione
dell’individualità, e, quindi, a una massificazione che racchiude in sé i
germi del razzismo, della xenofobia, dell’aterofobia.
Generalizzare
è comodo, perché ci evita la fatica di dover conoscere, di pensare,
ragionare e scegliere, ma finisce per togliere agli “altri” la vita
reale, riducendoli ad astrazioni, e finendo per ammassare tutti in
grandi, ipotetiche e improbabili, categorie di popoli, etnie, religioni,
gruppi linguistici, dimenticando, o facendo finta di non sapere, che
anche la categoria in cui ci si vede incasellati è sicuramente vista con
disprezzo da qualcun altro e che l’unica specie a cui si deve fare
riferimento è sempre soltanto quella umana. È la cultura, insomma, pur
tanto bistrattata, che deve sforzarsi a tenere gli “altri” vivi e a
ricordare che l’umanità è così preziosa proprio perché è una sommatoria
di individualità. È la cultura che deve ricordare a tutti che le parole
“xenofobia” e “aterofobia” non sono meno gravi di “razzismo”: ne sono
soltanto l’orrenda anticamera.
In
questa stessa sala, qualche anno fa, in un appuntamento dedicato al
cosiddetto “omocausto”, allo sterminio nazista degli omosessuali, ho
manifestato un mio disagio di fondo in quanto sento che c’è qualcosa di
sbagliato nel ricordare separatamente le categorie delle vittime della
sadica e lucida follia nazista; quasi che, così facendo, vengano
perpetuate le divisioni volute dai carnefici di Hitler, che erano
visivamente illustrate con forme e colori diversi. La stella gialla a
sei punte per gli ebrei, e tutta una serie di triangoli: rosa per gli
omosessuali, marrone per i rom, viola per i testimoni di Geova, nero per
gli asociali, rosso per i politici, verde per i prigionieri comuni. E
nulla per gli handicappati mentali e fisici perché loro neppure
arrivavano ai campi di sterminio: erano affidati a un fai da te omicida
nelle cosiddette case di cura dove solerti medici e infermieri e
fantasiosi sperimentatori provvedevano a eliminarli, come ha
magnificamente raccontato Marco Paolini nel suo “Ausmerzen, vite indegne
di essere vissute”.
E
nessun segno particolare era previsto anche per le donne. Si potrebbe
pensare che una scelta simile fosse naturale perché comunque erano
immediatamente distinguibili. E invece no, perché erano rapate a zero e
perché i loro corpi, ingoffiti dalle divise della prigionia erano
praticamente indistinguibili. Si potrebbe pensare che una scelta simile
fosse inutile perché le donne erano confinate in aree, o in campi
diversi da quelli destinati ai maschi. Ma anche questa tesi mostra i
suoi limiti, perché tra i maschi comunque le divisioni visive erano
mantenute pur nei Lager – diciamo così – “specializzati”. La realtà è
che le donne erano considerate alla stregua degli “Untermenschen”, i
sottouomini, o, meglio, in questo caso, gli esseri inferiori.
Se
non erano destinate a portare in grembo futuri soldati al Reich – ed
evidentemente le donne finite nei Lager non avevano i requisiti
necessari della cosiddetta purezza voluta da Hitler – e se non erano
destinate per avvenenza a dare piacere ai soldati del Reich, erano
considerate poco più che bestie da soma con l’aggravante, rispetto ai
maschi, che erano considerate più deboli, meno resistenti e ciclicamente
esposte a inconvenienti come le mestruazioni, oltre al rischio di
restare incinte. E così, già all’arrivo nei campi, finivano nelle camere
a gas e nei forni crematori in quantità decisamente superiori a quelle
dei maschi. E poi erano usate come cavie da esperimenti di
sterilizzazione o di un inutile e fantasiosamente sadico artigianato
genetico (chiamarlo ingegneria sarebbe assurdo) nel campo della
sterilizzazione o della manipolazione in grembo dei nascituri. O erano
destinate a lavori leggeri con pasti terribilmente inconsistenti, se non
appositamente avariati, che le portavano in breve alla morte, o,
ancora, come Kapo, o più esattamente come Blokove, con funzioni di
comando delegato e di controllo sulle altre deportate. Comunque per le
donne l’interesse degli aguzzini era mediamente inferiore e, quindi, la
loro aspettativa di vita era ulteriormente ridotta.
Già
in questo si può vedere che una delle maggiori difficoltà nel riuscire a
valutare quello che accadeva nei Lager è data, fortunatamente per noi,
dalla nostra incapacità di entrare negli stessi circuiti mentali degli
aguzzini perché nel nazismo, e in situazioni paragonabili a quelle della
dittatura nazista, l’importante non è l’essenza effettiva degli esseri
umani, bensì come questi esseri umani sono visti dai carnefici.
E,
nel caso delle donne, tutte sono state collocate sul gradino inferiore
della scala anche approfittando di alcune loro debolezze non naturali,
ma indotte dalla società in cui vivevano. Perché nella prima metà del
secolo scorso – ma anche per molti anni dopo, e parzialmente ancora
adesso – le donne sono state costrette a vivere in una specie di “ghetto
diffuso” che non aveva limitazioni di luogo, ma ne aveva, e fortissime,
nei riguardi delle competenze e, quindi, della libertà.
Pensiamo
soltanto a cosa poteva voler dire per una donna, nei primi Anni
Quaranta del Novecento, essere costretta a esporre in pubblico, a
sguardi crudeli e/o lascivi, un corpo nudo che mai il pudore dell’epoca
avrebbe permesso di vedere in circostanze normali. Pensiamo a cosa
poteva voler dire sentirsi cancellare i capelli solitamente curati con
attenzione come simbolo della propria bellezza e femminilità; a cosa
comportava il vivere i periodi mestruali senza alcuno strumento per
nascondere la propria condizione. E queste erano soltanto piccole cose
perché, soprattutto, dovremmo tentare di avvicinarci alla disperata
condizione psicologica di chi si vedeva strappare a forza dalle braccia i
propri bambini per vederli condurre verso la morte, o, comunque, li
vedeva spegnersi di stenti; alla condizione di chi aveva nel ventre una
nuova vita destinata a essere tagliata non appena si apriva alla luce.
Sono
tutte cose che si aggiungevano a quelle che valevano anche per gli
uomini: non sapere se si sarebbe visto il tramonto del sole che si era
visto sorgere; patire costantemente umiliazioni, fame, malattie e
patimenti; vivere sempre nella psicosi del terrore indotto, oltre che
dalle SS, anche dai Kapo da cui temevano di essere denunciati e poi
puniti, anche senza aver fatto niente. E, in più, si subiva un processo
di nullificazione in quanto ci si sentiva privati della propria identità
e ridotti a pezzi numerati e intercambiabili tra i quali un ex
delinquente comune poteva essere trattato meglio di uno arrestato
soltanto perché aveva il naso adunco, o un nome che odorasse di Bibbia, o
perché si era trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. E
questo portava con sé danni indotti non meno importanti perché, per non
rischiare, si tendeva a isolarsi dagli altri prigionieri tanto da
ridurre al minimo, o da far addirittura scomparire, la fratellanza e
l’aiuto fisico e psicologico fra i deportati. Il tutto, poi, immersi
costantemente nello sgomento indotto dal capire che non di pazzia di
pochi si trattava, ma di freddo metodo di molti, perché sotto le
bandiere con le croci uncinate agivano non solo sadici aguzzini, ma
anche burocrati solerti e cinici: assassini da scrivania, ligi agli
ordini e sordi a ogni sussulto di coscienza – i “volonterosi carnefici
di Hitler”, come li ha definiti Daniel Goldhagen – che rendevano
effettiva una disumanizzazione assoluta perché, come ha giustamente
scritto Tito Maniacco, quella che dominava nei Lager «non è la morte
come la conosciamo, che è uno spettacolo umano; è la morte come una
negazione assoluta che viene poi espressa nella banalità tragicamente
borghese dei pedanti rendiconti stesi su fogli accurati. È la
contabilità che rende inesprimibile il Lager».
Eppure
l’indifferenza di chi non ha conosciuto i Lager si è evidenziata
soprattutto in una quasi totale assenza di interesse, anche espressivo,
per le tragedie delle donne; e questo ha portato molte deportate in un
graduale ripiegamento su se stesse, accompagnato da patologie fisiche e
mentali.
Né
– ancor peggio – si può dimenticare che, a differenza di quello che
accadeva agli uomini, le sofferenze delle deportate in moltissimi casi
non finivano con la fine della deportazione. Perché al loro rientro si
trovavano di fronte a insinuazioni che le ponevano spesso nella
necessità di giustificarsi del fatto di essere sopravvissute, quasi che
l’accusa di essersi concesse in qualche modo ai carnefici pur di
salvarsi toccasse tutte le donne sopravvissute, senza eccezione alcuna. E
anche questa è stata una discriminazione terribile, pur se non nazista,
nei confronti delle vittime di sesso femminile, oltre che una
affermazione di spregevole e vanagloriosa onnipotenza da parte di coloro
che si ergevano a giudici e a guardiani della moralità. E forse anche
per questo, per questa disumanità che è continuata anche al di fuori del
filo spinato, le donne hanno prodotto relativamente poca letteratura di
testimonianza.
Ma chi poteva e può permettersi di giudicare?
Soprattutto riferendosi a circostanze in cui il male è tanto diffuso da
diventare, come acutamente ha scritto Hannah Arendt, banale? Chi può
dimenticare che nell’analisi del male importante non è il destinatario,
ma il mittente; colui che infligge torture, tormenti e morte non per
punire colpe altrui, ma per autoincensamento proprio.
L’impossibilità,
l’illiceità del giudizio potrebbe essere già affermata con il «Nolite
iudicare, ut non iudicamini», “Non giudicate, per non essere giudicati”,
del Vangelo di Matteo, ma se questa sembra una prescrizione morale
assoluta, più vicina al volere di Dio che alla natura dell’uomo. Forse è
preferibile ricordare quello che scrive Dante, nel XIX canto del
Paradiso, quando fa parlare l’aquila che, pur formata dalle luci
splendenti dei beati, è decisamente più vicina alla fallibile e umana
natura del poeta che alla grandezza di “Colui che tutto move”. L’aquila
dice: «Or tu chi se’ che vuo’ sedere a scranna, / per giudicar di lungi
mille miglia / con la veduta corta d’una spanna?».
Come
si è potuto pensare di dare un giudizio su un’azione come se questa
fosse svincolabile dalle circostanze in cui è avvenuta? Ben più umana –
ed è tutto dire – è la regola cattolica per la quale per commettere
peccato occorrono non soltanto la materia grave e la piena avvertenza,
ma anche quel deliberato consenso che in un Lager certamente non aveva
diritto di cittadinanza. Senza contare che, prima di un giudizio, quei
poveri esseri che tornavano dall’inferno avevano bisogno di un atto di
amore, di comprensione e, se del caso, di veloce e lieve aiuto a
dimenticare.
E
poi è evidente che donne e uomini non possono essere divisi
esclusivamente in eroi ed esseri spregevoli. Oltre che non avere senso,
sarebbe anche un formidabile deterrente al miglioramento comune perché
non è difficile intuire che la salvezza di uno che non è perfetto
diventa un grande messaggio di speranza per tutti. Mentre è terribile
l’idea che soltanto gli eroi possano entrare nel regno dei cieli, o
nella memoria dell’uomo. Perché l’obbligo di un atto di eroismo può
scoraggiare chiunque, e farlo desistere anche dal rispettare quel
principio su cui si fonda l’ordine etico che, invece, sembra connaturato
ai più.
Dalle
donne, da quelle donne offese, irrise e maltrattate sono arrivate
testimonianze di atti di eroismo puro e disinteressato che addirittura
acquistano maggior valore nello stridente contrasto con la malvagità, ma
anche con l’indifferenza, quell’ostinata e cieca cura del proprio
orticello mentre si fa finta che al di là delle mura di casa il mondo
cessi di esistere. Perché se chi fa il male con le sue mani è colpevole
del peccato di opere, gli indifferenti si macchiano scientemente di
quello di omissione. E quando nel Confiteor si dice «...perché ho molto
peccato in pensieri, parole, opere e omissioni» sono convinto che
l’ordine delle parole non sia stato messo lì a casaccio, ma che chi lo
ha scritto abbia realizzato scientemente un ordine crescente di gravità.
L’omissione, il restare inerti, il far finta di non vedere, è la colpa
più grave, perché è sicuramente un atteggiamento non istintivo, ma
deliberato, perché è il trionfo dell’egoismo sul bene generale, della
pigrizia sul dovere. Perché si possono permettere danni incommensurabili
per piccini desideri di tranquillità.
Un
gradino più in là c’è poi stata la connivenza. Tra i tanti orrori
mostrati dal Pianista, il film di Roman Polanski ambientato nel ghetto
di Varsavia e premiato con l’Oscar, forse quello che colpisce di più è
il disumano e brutale egoismo degli ebrei che diventano aguzzini dei
propri simili all’interno del ghetto senza rendersi conto che, così
facendo, si prenotano soltanto uno degli ultimi posti della fila nella
lugubre marcia verso le camere a gas. Eppure quella della anche tacita
connivenza con i punti di riferimento della malvagità è una storia che
si ripete e che dimostra, al di là di ogni legittimo sospetto, che il
“no” non è quel monosillabo che istintivamente viene considerato come
antipatico simbolo della negazione, ma è, invece, una parola bellissima
perché caposaldo della libertà, base fondante non soltanto di ogni vera
democrazia, ma anche dello stesso bene; perché permette il rifiuto di
ragione e di coscienza, perché rende ridicoli quegli alibi che troppe
volte nella storia del ventesimo secolo – e non soltanto a Norimberga e a
Gerusalemme durante il processo a Eichmann – abbiamo sentito dal banco
degli accusati dove c’erano persone che si difendevano rispondendo
vacuamente: «Non ho fatto altro che eseguire gli ordini». Mentre invece
non si può dire che si è travolti dalla storia, perché, come dice in
modo poetico un cantautore intelligente e sensibile come Francesco De
Gregori, «la storia siamo noi. Attenzione. Nessuno si senta escluso».
Ed
è stato proprio dalle donne che sono arrivati alcuni dei più limpidi
segnali di resistenza interna. Molto spesso le deportate non avevano
preparazione politica, erano di estrazione sociale diversa, ma avevano
in comune, come elemento di coesione, l’avversione e l’odio nei
confronti dei nazisti e dei fascisti. Eppure, con queste poche armi a
disposizione, in molte hanno trovato la forza di on lasciarsi andare, di
resistere alla disumanizzazione, di escogitare sistemi di
sopravvivenza, di aiutare le compagne di prigionia sviluppando rapporti
di grande solidarietà che tra gli uomini sembrano essere stati più
sporadici. E in molte, quando sono tornate, hanno avuto la
determinazione di dire «Non perdonerò mai», come è stato detto dalla
triestina Ida Marchetti, la cui storia è stata raccontata in un libro da
Antonella Tiburzi e Aldo Pavia.
Per
tornare al pamphlet scritto da Elena Löwenthal, è necessario continuare
a far vivere Il Giorno della Memoria, perché, se ci pensiamo, non è il
negazionismo l’aspetto più pericoloso della questione, bensì la voglia
di non parlarne. Il negazionismo è tanto abnorme, talmente lontano da
una realtà storica più che abbondantemente provata da far cadere nel
ridicolo chi lo pratica, da non attrarre nessuno che non voglia già in
partenza essere attratto. Un po’ più preoccupanti sono i tentativi di
camuffare in maniera truffaldina la storia e di riscriverla per lavare
alcuni panni sporchi. Ma decisamente pericoloso è il lasciar perdere, il
far dimenticare un po’ alla volta con il silenzio, perché – frase
abusata ma non per questo meno valida – chi non ricorda i propri errori è
condannato a ripeterli. E questo vale sia per gli uomini, sia per i
popoli.
Se
ci pensate, il negazionismo è proprio un po’ come il razzismo che nelle
sue forme più virulente è facilmente individuato e irrimediabilmente
condannato. Chi, se non è razzista, non ha provato moti di ripulsa
davanti alle divise brune o nere dei nazisti, ai cappucci del Ku Klux
Klan? Chi non ha provato orrore davanti a quanto accadeva nel Sudafrica?
Quanti non sentono vergogna di essere italiani ripensando alle
cosiddette leggi per la difesa della razza? Ma queste reazioni sono
facili, naturali. Molto più difficile è reagire davanti agli
atteggiamenti che serpeggiano quotidianamente davanti ai nostri occhi e
che possono portare a danni incommensurabili se non si fa nulla per
eliminarli, o, quantomeno, per smussarli.
Un’esagerazione?
Provate a pensare a dove nulla è stato fatto e si è lasciato che
l’andazzo procedesse tranquillamente. Pensate a quanti mattatoi nazisti
si sono reincarnati nell’ex Jugoslavia, in Afghanistan, a Timor Est, in
decine di altri paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America centrale e
meridionale. Il problema è che perché il male trionfi, basta che i
cosiddetti buoni non facciano niente per ostacolarlo. Per venire ai
tempi nostri, non è mai giusto assistere alla promulgazione di leggi che
portano a nuove discriminazioni, o ne resuscitano di antiche, senza
manifestare in maniera stentorea la propria opposizione. Non è civile
vedere manifestazioni dirette contro una parte dell’umanità senza
sentirsi nell’obbligo di protestare.
Insomma,
bisogna essere memoria, ancor prima che fare memoria. Ed essere memoria
è mettersi in relazione con quei tempi, con le vittime e con i
carnefici. In definitiva dovremmo domandarci: cosa avrei fatto io
allora? E soprattutto dovremmo risponderci sinceramente. Come
sinceramente si sono risposte molte donne durante la prigionia quando si
sentivano, per usare le parole di Primo Levi, «come una rana
d’inverno», ma anche dopo, quando sono tornate alle loro case con una
determinazione assoluta a non voler più vedere guerre e dispotismi. Una
determinazione che purtroppo a molti del mio sesso – e sovente tra i più
potenti – è spesso mancata.
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