giovedì 30 gennaio 2014

La cultura del fare

Ve la ricordate la “cultura del fare”? Era quella che Berlusconi proclamava come caratteristica sua e dei suoi dipendenti contrapponendola alla cultura vera e propria che, a suo dire, era prerogativa della sinistra e, quindi, causa delle disgrazie italiane e mondiali. Era una specie di invito ad agire subito, senza pensare, anche perché chi pensa può diventare pericoloso in quanto magari scopre difetti nell’idea del capo, obbietta e può addirittura riuscire a convincere altri della sua idea.

Chi avesse pensato che la “cultura del fare” fosse rimasta sepolta dagli innumerevoli insuccessi berlusconiani da assieme alla pulizia delle fedina penale del suo propugnatore, deve amaramente ricredersi perché un po’ dappertutto – anche da parte di alcuni insospettabili – si sta inneggiando all’accordo elettorale Renzi-Berlusconi con l’unica motivazione che “finalmente qualcosa si è mosso”.

Sono reazioni terribili soprattutto perché dimostrano che la distruzione sociale berlusconiana ha fatto breccia un po’ deppertutto: secondo molti è importante fare qualcosa, non come lo si fa; non se quello che viene fatto porta vantaggi ai cittadini e alla democrazia, oppure se li danneggia; non se la nuova legge è ancora incostituzionale; non se tra poco scatterà un nuovo ricorso e la Consulta sarà costretta ancora una volta a intervenire.

Maurizio Menegazzi mi ha segnalato una frase agghiacciante tratta dal film “L’uomo d’acciaio” e che pare attagliarsi ottimamente all'andazzo di questi ultimi anni: «Il fatto che tu possieda un senso morale e noi no – afferma un figuro rivolgendosi al suo avversario – dà a noi un vantaggio evolutivo; e se la storia ha provato qualcosa è che l’evoluzione vince sempre». Fortunatamente non è così. Ove così fosse, la razza umana avrebbe dovuto soccombere davanti alle tigri con i denti a sciabola, ai mammut e a tutta una serie di belve feroci. Invece, fortunatamente, l’intelligenza, la cura del bene comune, una scala etica di valori hanno permesso alla nostra stirpe di sopravvivere – almeno finora – a tutte le minacce esterne. Ci si fosse affidati soltanto alla “cultura del fare”, della stirpe umana non resterebbe neppure il ricordo.

mercoledì 29 gennaio 2014

Il ricatto dell'Electrolux

Il giuslavorista Pietro Ichino afferma che il comportamento dell’azienda svedese dell’Electrolux nei confronti degli operai italiani ai quali, a parità di lavoro domanda una diminuzione di stipendio di circa il 40 per cento, se questi posti di lavoro li vogliono conservare, non è un ricatto, bensì la raffigurazione di un sistema in crisi. Il finanziere Davide Serra, dal canto suo, scrive in un tweet che la richiesta di Electrolux è «non auspicabile», ma razionale.
Si potrebbe replicare a queste due affermazioni facendo spallucce, se questi due signori fossero di destra, ma il problema è che il primo è stato il principale ispiratore economico di Renzi e il secondo è il principale sponsor economico dell’attuale segretario del PD. Molto mi colpisce il fatto che Renzi non abbia sentito il bisogno di separare la propria posizione da due persone che indubbiamente gli sono state e probabilmente gli sono ancora vicine.
Il sospetto, poi, non si dissolve ascoltando la responsabile Lavoro del PD, Marianna Madia che non apprezza la proposta dell’Electrolux, ma dice anche che «per trattenere qui il lavoro dovremo fornire alle aziende condizioni adatte». A me sarebbe piaciuto anche sentirla dire che per trattenere in questo mondo i lavoratori si dovrà fornire loro un’entrata economica adeguata al lavoro che svolgono e alle necessità della loro sopravvivenza.
Per fortuna anche tra i renziani c’è qualcuno che continua a sentire come propri i valori del centrosinistra tra i quali al primo posto non ci sono soltanto i desiderata delle industrie per far ulteriormente lievitare gli utili, ma anche le necessità dei cittadini. Debora Serracchiani, per esempio, scrive in maniera totalmente condivisibile: «No al ricatto sulla pelle degli operai e della popolazione».
È certo che, dopo il dialogo di «profonda sintonia» di Renzi con Berlusconi su una legge elettorale che dona al condannato ed espulso nuova apparente legittimità politica, questa posizione morbida davanti al ricatto dell’Electrolux fa aumentare a dismisura i nostri dubbi.
Detto in soldoni: è il partito che ha sbagliato la scelta del suo segretario? O è il segretario che ha sbagliato partito? O, ancora, siamo noi ad avere sbagliato a votare PD credendo fosse tutto un partito di centrosinistra?

lunedì 27 gennaio 2014

Sulla deportazione femminile

Molto mi ha colpito il recentissimo pamphlet scritto da Elena Löwenthal ed esplicitamente intitolato “Contro il Giorno della Memoria” in cui – riassumo rozzamente – l’autrice afferma che desidererebbe veder nascere un Giorno dell’Oblio per poter dimenticare finalmente gli orrori che il nazismo ha perpetrato contro il suo popolo e per cancellare dalla sua mente i ricorrenti incubi che proprio nella memoria dei racconti da lei sentiti si annidano. A prima vista potrebbe sembrare che questo desiderio c’entri ben poco con il tema su cui stiamo riflettendo oggi, ma in realtà, invece, mi sembra utilissimo per avvicinarvisi.
La Löwenthal può esprimere questo concetto – che nella bocca di un altro apparirebbe blasfemo – perché è ebrea, è giovane ed è donna. Ma per gli stessi tre motivi – è ebrea, è giovane ed è donna – non può permettersi di essere seriamente contro il Giorno della Memoria; di desiderare davvero di cancellarlo.
In teoria gli ebrei potrebbero anche avere il diritto di dimenticare, ma devono essere coscienti che gli altri questo diritto non possono averlo, almeno fino a quando i germi del razzismo e delle intolleranze religiose, linguistiche e politiche – di cui anche Israele è in parte portatore – non saranno del tutto scomparsi dalla faccia della terra. Perché, tra l’altro, la memoria non deve riguardare soltanto i crimini commessi dagli altri, dai cattivi conclamati, da coloro che ci sono lontani nello spazio e nel tempo, ma anche quelli commessi da noi, come popolo, in certi periodi della nostra storia: per l’Italia ricordo soltanto le leggi razziali e il colonialismo condito da bombardamenti, gas mortali, repressioni e stragi in Libia e nella cosiddetta Africa Orientale, ma anche i Lager nostrani, quelli di Gonars e di Varmo, dove hanno trovato la morte centinaia di persone di lingua slovena o croata, o, ancora, le direttive di repressione della popolazione jugoslava durante la quale il generale Mario Roatta disponeva la «deportazione totalitaria» di civili che non avrebbero dovuto più «parlare e nemmeno pensare nella loro lingua», mentre il generale Mario Robotti si lamentava per iscritto che le truppe italiane ammazzavano troppo pochi abitanti dei villaggi sloveni.
Anche i giovani potrebbero non avere voglia di sentire storie del secolo scorso perché si sentono estranei a quegli anni e non colpevoli delle atrocità avvenute. Ma pure per loro la memoria è un obbligo, morale e pratico. Ha scritto Tzvetan Todorov: «Se in seguito al morbo di Alzheimer un individuo è privato della memoria, cessa di essere se stesso. Allo stesso modo un popolo non può esistere senza una memoria comune». È un richiamo alla necessità di non dimenticare mai il proprio passato, di non far finta che le cose più orribili non siano mai accadute, ma, anzi, di indagarle con spietatezza e di mantenerle vive per poi utilizzare, ogni volta in cui serve, l’armadio dei brutti ricordi, quel posto buio e pauroso dove, però, è obbligatorio guardare ogni tanto per tenere bene a mente gli orrori e gli errori che non si devono fare più.
Per le donne, poi, il problema della saturazione della memoria non dovrebbe neppure porsi in quanto, anzi, si è ancora molto indietro nella ricostruzione di quello che l’universo della deportazione, della prigionia e dello sterminio ha voluto dire per loro. E, in questo senso, il recupero della coscienza di quello che è accaduto è importante non tanto per ricordare le vittime, che comunque sarebbero oggetto della pietas di tutti e rimarrebbero sempre presenti nelle menti di parenti e amici per i vincoli di affetto traumaticamente spezzati, quanto perché la cosa fondamentale – per quanto paradossale possa sembrare – è ricordare i carnefici, l’aberrazione dello sterminio e del razzismo, e, così facendo, tenere sempre in primo piano quella generalizzazione che tutti noi, quotidianamente, anche inconsciamente, siamo portato a fare. I meridionali, gli islamici, i drogati, i gay, i rom, gli handicappati, i disoccupati, i mendicanti, gli extracomunitari, i tedeschi, i giapponesi, le donne, appunto, come se queste immense categorie non avessero in se milioni di diversità; come se queste generalizzazioni non fossero fatte di ignoranza e non portassero alla cancellazione dell’individualità, e, quindi, a una massificazione che racchiude in sé i germi del razzismo, della xenofobia, dell’aterofobia.
Generalizzare è comodo, perché ci evita la fatica di dover conoscere, di pensare, ragionare e scegliere, ma finisce per togliere agli “altri” la vita reale, riducendoli ad astrazioni, e finendo per ammassare tutti in grandi, ipotetiche e improbabili, categorie di popoli, etnie, religioni, gruppi linguistici, dimenticando, o facendo finta di non sapere, che anche la categoria in cui ci si vede incasellati è sicuramente vista con disprezzo da qualcun altro e che l’unica specie a cui si deve fare riferimento è sempre soltanto quella umana. È la cultura, insomma, pur tanto bistrattata, che deve sforzarsi a tenere gli “altri” vivi e a ricordare che l’umanità è così preziosa proprio perché è una sommatoria di individualità. È la cultura che deve ricordare a tutti che le parole “xenofobia” e “aterofobia” non sono meno gravi di “razzismo”: ne sono soltanto l’orrenda anticamera.
In questa stessa sala, qualche anno fa, in un appuntamento dedicato al cosiddetto “omocausto”, allo sterminio nazista degli omosessuali, ho manifestato un mio disagio di fondo in quanto sento che c’è qualcosa di sbagliato nel ricordare separatamente le categorie delle vittime della sadica e lucida follia nazista; quasi che, così facendo, vengano perpetuate le divisioni volute dai carnefici di Hitler, che erano visivamente illustrate con forme e colori diversi. La stella gialla a sei punte per gli ebrei, e tutta una serie di triangoli: rosa per gli omosessuali, marrone per i rom, viola per i testimoni di Geova, nero per gli asociali, rosso per i politici, verde per i prigionieri comuni. E nulla per gli handicappati mentali e fisici perché loro neppure arrivavano ai campi di sterminio: erano affidati a un fai da te omicida nelle cosiddette case di cura dove solerti medici e infermieri e fantasiosi sperimentatori provvedevano a eliminarli, come ha magnificamente raccontato Marco Paolini nel suo “Ausmerzen, vite indegne di essere vissute”.
E nessun segno particolare era previsto anche per le donne. Si potrebbe pensare che una scelta simile fosse naturale perché comunque erano immediatamente distinguibili. E invece no, perché erano rapate a zero e perché i loro corpi, ingoffiti dalle divise della prigionia erano praticamente indistinguibili. Si potrebbe pensare che una scelta simile fosse inutile perché le donne erano confinate in aree, o in campi diversi da quelli destinati ai maschi. Ma anche questa tesi mostra i suoi limiti, perché tra i maschi comunque le divisioni visive erano mantenute pur nei Lager – diciamo così – “specializzati”. La realtà è che le donne erano considerate alla stregua degli “Untermenschen”, i sottouomini, o, meglio, in questo caso, gli esseri inferiori.
Se non erano destinate a portare in grembo futuri soldati al Reich – ed evidentemente le donne finite nei Lager non avevano i requisiti necessari della cosiddetta purezza voluta da Hitler – e se non erano destinate per avvenenza a dare piacere ai soldati del Reich, erano considerate poco più che bestie da soma con l’aggravante, rispetto ai maschi, che erano considerate più deboli, meno resistenti e ciclicamente esposte a inconvenienti come le mestruazioni, oltre al rischio di restare incinte. E così, già all’arrivo nei campi, finivano nelle camere a gas e nei forni crematori in quantità decisamente superiori a quelle dei maschi. E poi erano usate come cavie da esperimenti di sterilizzazione o di un inutile e fantasiosamente sadico artigianato genetico (chiamarlo ingegneria sarebbe assurdo) nel campo della sterilizzazione o della manipolazione in grembo dei nascituri. O erano destinate a lavori leggeri con pasti terribilmente inconsistenti, se non appositamente avariati, che le portavano in breve alla morte, o, ancora, come Kapo, o più esattamente come Blokove, con funzioni di comando delegato e di controllo sulle altre deportate. Comunque per le donne l’interesse degli aguzzini era mediamente inferiore e, quindi, la loro aspettativa di vita era ulteriormente ridotta.
Già in questo si può vedere che una delle maggiori difficoltà nel riuscire a valutare quello che accadeva nei Lager è data, fortunatamente per noi, dalla nostra incapacità di entrare negli stessi circuiti mentali degli aguzzini perché nel nazismo, e in situazioni paragonabili a quelle della dittatura nazista, l’importante non è l’essenza effettiva degli esseri umani, bensì come questi esseri umani sono visti dai carnefici.
E, nel caso delle donne, tutte sono state collocate sul gradino inferiore della scala anche approfittando di alcune loro debolezze non naturali, ma indotte dalla società in cui vivevano. Perché nella prima metà del secolo scorso – ma anche per molti anni dopo, e parzialmente ancora adesso – le donne sono state costrette a vivere in una specie di “ghetto diffuso” che non aveva limitazioni di luogo, ma ne aveva, e fortissime, nei riguardi delle competenze e, quindi, della libertà.
Pensiamo soltanto a cosa poteva voler dire per una donna, nei primi Anni Quaranta del Novecento, essere costretta a esporre in pubblico, a sguardi crudeli e/o lascivi, un corpo nudo che mai il pudore dell’epoca avrebbe permesso di vedere in circostanze normali. Pensiamo a cosa poteva voler dire sentirsi cancellare i capelli solitamente curati con attenzione come simbolo della propria bellezza e femminilità; a cosa comportava il vivere i periodi mestruali senza alcuno strumento per nascondere la propria condizione. E queste erano soltanto piccole cose perché, soprattutto, dovremmo tentare di avvicinarci alla disperata condizione psicologica di chi si vedeva strappare a forza dalle braccia i propri bambini per vederli condurre verso la morte, o, comunque, li vedeva spegnersi di stenti; alla condizione di chi aveva nel ventre una nuova vita destinata a essere tagliata non appena si apriva alla luce.
Sono tutte cose che si aggiungevano a quelle che valevano anche per gli uomini: non sapere se si sarebbe visto il tramonto del sole che si era visto sorgere; patire costantemente umiliazioni, fame, malattie e patimenti; vivere sempre nella psicosi del terrore indotto, oltre che dalle SS, anche dai Kapo da cui temevano di essere denunciati e poi puniti, anche senza aver fatto niente. E, in più, si subiva un processo di nullificazione in quanto ci si sentiva privati della propria identità e ridotti a pezzi numerati e intercambiabili tra i quali un ex delinquente comune poteva essere trattato meglio di uno arrestato soltanto perché aveva il naso adunco, o un nome che odorasse di Bibbia, o perché si era trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. E questo portava con sé danni indotti non meno importanti perché, per non rischiare, si tendeva a isolarsi dagli altri prigionieri tanto da ridurre al minimo, o da far addirittura scomparire, la fratellanza e l’aiuto fisico e psicologico fra i deportati. Il tutto, poi, immersi costantemente nello sgomento indotto dal capire che non di pazzia di pochi si trattava, ma di freddo metodo di molti, perché sotto le bandiere con le croci uncinate agivano non solo sadici aguzzini, ma anche burocrati solerti e cinici: assassini da scrivania, ligi agli ordini e sordi a ogni sussulto di coscienza – i “volonterosi carnefici di Hitler”, come li ha definiti Daniel Goldhagen – che rendevano effettiva una disumanizzazione assoluta perché, come ha giustamente scritto Tito Maniacco, quella che dominava nei Lager «non è la morte come la conosciamo, che è uno spettacolo umano; è la morte come una negazione assoluta che viene poi espressa nella banalità tragicamente borghese dei pedanti rendiconti stesi su fogli accurati. È la contabilità che rende inesprimibile il Lager».
Eppure l’indifferenza di chi non ha conosciuto i Lager si è evidenziata soprattutto in una quasi totale assenza di interesse, anche espressivo, per le tragedie delle donne; e questo ha portato molte deportate in un graduale ripiegamento su se stesse, accompagnato da patologie fisiche e mentali.
Né – ancor peggio – si può dimenticare che, a differenza di quello che accadeva agli uomini, le sofferenze delle deportate in moltissimi casi non finivano con la fine della deportazione. Perché al loro rientro si trovavano di fronte a insinuazioni che le ponevano spesso nella necessità di giustificarsi del fatto di essere sopravvissute, quasi che l’accusa di essersi concesse in qualche modo ai carnefici pur di salvarsi toccasse tutte le donne sopravvissute, senza eccezione alcuna. E anche questa è stata una discriminazione terribile, pur se non nazista, nei confronti delle vittime di sesso femminile, oltre che una affermazione di spregevole e vanagloriosa onnipotenza da parte di coloro che si ergevano a giudici e a guardiani della moralità. E forse anche per questo, per questa disumanità che è continuata anche al di fuori del filo spinato, le donne hanno prodotto relativamente poca letteratura di testimonianza.
Ma chi poteva e può permettersi di giudicare? Soprattutto riferendosi a circostanze in cui il male è tanto diffuso da diventare, come acutamente ha scritto Hannah Arendt, banale? Chi può dimenticare che nell’analisi del male importante non è il destinatario, ma il mittente; colui che infligge torture, tormenti e morte non per punire colpe altrui, ma per autoincensamento proprio.

L’impossibilità, l’illiceità del giudizio potrebbe essere già affermata con il «Nolite iudicare, ut non iudicamini», “Non giudicate, per non essere giudicati”, del Vangelo di Matteo, ma se questa sembra una prescrizione morale assoluta, più vicina al volere di Dio che alla natura dell’uomo. Forse è preferibile ricordare quello che scrive Dante, nel XIX canto del Paradiso, quando fa parlare l’aquila che, pur formata dalle luci splendenti dei beati, è decisamente più vicina alla fallibile e umana natura del poeta che alla grandezza di “Colui che tutto move”. L’aquila dice: «Or tu chi se’ che vuo’ sedere a scranna, / per giudicar di lungi mille miglia / con la veduta corta d’una spanna?».
Come si è potuto pensare di dare un giudizio su un’azione come se questa fosse svincolabile dalle circostanze in cui è avvenuta? Ben più umana – ed è tutto dire – è la regola cattolica per la quale per commettere peccato occorrono non soltanto la materia grave e la piena avvertenza, ma anche quel deliberato consenso che in un Lager certamente non aveva diritto di cittadinanza. Senza contare che, prima di un giudizio, quei poveri esseri che tornavano dall’inferno avevano bisogno di un atto di amore, di comprensione e, se del caso, di veloce e lieve aiuto a dimenticare.
E poi è evidente che donne e uomini non possono essere divisi esclusivamente in eroi ed esseri spregevoli. Oltre che non avere senso, sarebbe anche un formidabile deterrente al miglioramento comune perché non è difficile intuire che la salvezza di uno che non è perfetto diventa un grande messaggio di speranza per tutti. Mentre è terribile l’idea che soltanto gli eroi possano entrare nel regno dei cieli, o nella memoria dell’uomo. Perché l’obbligo di un atto di eroismo può scoraggiare chiunque, e farlo desistere anche dal rispettare quel principio su cui si fonda l’ordine etico che, invece, sembra connaturato ai più.
Dalle donne, da quelle donne offese, irrise e maltrattate sono arrivate testimonianze di atti di eroismo puro e disinteressato che addirittura acquistano maggior valore nello stridente contrasto con la malvagità, ma anche con l’indifferenza, quell’ostinata e cieca cura del proprio orticello mentre si fa finta che al di là delle mura di casa il mondo cessi di esistere. Perché se chi fa il male con le sue mani è colpevole del peccato di opere, gli indifferenti si macchiano scientemente di quello di omissione. E quando nel Confiteor si dice «...perché ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni» sono convinto che l’ordine delle parole non sia stato messo lì a casaccio, ma che chi lo ha scritto abbia realizzato scientemente un ordine crescente di gravità. L’omissione, il restare inerti, il far finta di non vedere, è la colpa più grave, perché è sicuramente un atteggiamento non istintivo, ma deliberato, perché è il trionfo dell’egoismo sul bene generale, della pigrizia sul dovere. Perché si possono permettere danni incommensurabili per piccini desideri di tranquillità.
Un gradino più in là c’è poi stata la connivenza. Tra i tanti orrori mostrati dal Pianista, il film di Roman Polanski ambientato nel ghetto di Varsavia e premiato con l’Oscar, forse quello che colpisce di più è il disumano e brutale egoismo degli ebrei che diventano aguzzini dei propri simili all’interno del ghetto senza rendersi conto che, così facendo, si prenotano soltanto uno degli ultimi posti della fila nella lugubre marcia verso le camere a gas. Eppure quella della anche tacita connivenza con i punti di riferimento della malvagità è una storia che si ripete e che dimostra, al di là di ogni legittimo sospetto, che il “no” non è quel monosillabo che istintivamente viene considerato come antipatico simbolo della negazione, ma è, invece, una parola bellissima perché caposaldo della libertà, base fondante non soltanto di ogni vera democrazia, ma anche dello stesso bene; perché permette il rifiuto di ragione e di coscienza, perché rende ridicoli quegli alibi che troppe volte nella storia del ventesimo secolo – e non soltanto a Norimberga e a Gerusalemme durante il processo a Eichmann – abbiamo sentito dal banco degli accusati dove c’erano persone che si difendevano rispondendo vacuamente: «Non ho fatto altro che eseguire gli ordini». Mentre invece non si può dire che si è travolti dalla storia, perché, come dice in modo poetico un cantautore intelligente e sensibile come Francesco De Gregori, «la storia siamo noi. Attenzione. Nessuno si senta escluso».
Ed è stato proprio dalle donne che sono arrivati alcuni dei più limpidi segnali di resistenza interna. Molto spesso le deportate non avevano preparazione politica, erano di estrazione sociale diversa, ma avevano in comune, come elemento di coesione, l’avversione e l’odio nei confronti dei nazisti e dei fascisti. Eppure, con queste poche armi a disposizione, in molte hanno trovato la forza di on lasciarsi andare, di resistere alla disumanizzazione, di escogitare sistemi di sopravvivenza, di aiutare le compagne di prigionia sviluppando rapporti di grande solidarietà che tra gli uomini sembrano essere stati più sporadici. E in molte, quando sono tornate, hanno avuto la determinazione di dire «Non perdonerò mai», come è stato detto dalla triestina Ida Marchetti, la cui storia è stata raccontata in un libro da Antonella Tiburzi e Aldo Pavia.
Per tornare al pamphlet scritto da Elena Löwenthal, è necessario continuare a far vivere Il Giorno della Memoria, perché, se ci pensiamo, non è il negazionismo l’aspetto più pericoloso della questione, bensì la voglia di non parlarne. Il negazionismo è tanto abnorme, talmente lontano da una realtà storica più che abbondantemente provata da far cadere nel ridicolo chi lo pratica, da non attrarre nessuno che non voglia già in partenza essere attratto. Un po’ più preoccupanti sono i tentativi di camuffare in maniera truffaldina la storia e di riscriverla per lavare alcuni panni sporchi. Ma decisamente pericoloso è il lasciar perdere, il far dimenticare un po’ alla volta con il silenzio, perché – frase abusata ma non per questo meno valida – chi non ricorda i propri errori è condannato a ripeterli. E questo vale sia per gli uomini, sia per i popoli.
Se ci pensate, il negazionismo è proprio un po’ come il razzismo che nelle sue forme più virulente è facilmente individuato e irrimediabilmente condannato. Chi, se non è razzista, non ha provato moti di ripulsa davanti alle divise brune o nere dei nazisti, ai cappucci del Ku Klux Klan? Chi non ha provato orrore davanti a quanto accadeva nel Sudafrica? Quanti non sentono vergogna di essere italiani ripensando alle cosiddette leggi per la difesa della razza? Ma queste reazioni sono facili, naturali. Molto più difficile è reagire davanti agli atteggiamenti che serpeggiano quotidianamente davanti ai nostri occhi e che possono portare a danni incommensurabili se non si fa nulla per eliminarli, o, quantomeno, per smussarli.
Un’esagerazione? Provate a pensare a dove nulla è stato fatto e si è lasciato che l’andazzo procedesse tranquillamente. Pensate a quanti mattatoi nazisti si sono reincarnati nell’ex Jugoslavia, in Afghanistan, a Timor Est, in decine di altri paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America centrale e meridionale. Il problema è che perché il male trionfi, basta che i cosiddetti buoni non facciano niente per ostacolarlo. Per venire ai tempi nostri, non è mai giusto assistere alla promulgazione di leggi che portano a nuove discriminazioni, o ne resuscitano di antiche, senza manifestare in maniera stentorea la propria opposizione. Non è civile vedere manifestazioni dirette contro una parte dell’umanità senza sentirsi nell’obbligo di protestare.
Insomma, bisogna essere memoria, ancor prima che fare memoria. Ed essere memoria è mettersi in relazione con quei tempi, con le vittime e con i carnefici. In definitiva dovremmo domandarci: cosa avrei fatto io allora? E soprattutto dovremmo risponderci sinceramente. Come sinceramente si sono risposte molte donne durante la prigionia quando si sentivano, per usare le parole di Primo Levi, «come una rana d’inverno», ma anche dopo, quando sono tornate alle loro case con una determinazione assoluta a non voler più vedere guerre e dispotismi. Una determinazione che purtroppo a molti del mio sesso – e sovente tra i più potenti – è spesso mancata.

mercoledì 22 gennaio 2014

La questione morale

Le dimissioni di Gianni Cuperlo da presidente del PD sono state non soltanto obbligate per motivi di dignità umana e politica, ma anche cercate da Renzi che rifiuta ogni critica accusando gli altri del suo stesso “peccato” e che prosegue con arroganza e strumentalizzando in maniera indecente i voti che ha ottenuto alle primarie quando sbandierava la sua assoluta lontananza da Berlusconi. Sarebbe davvero interessante sapere come sarebbero andate le primarie se lo stesso Renzi prima del voto avesse annunciato di voler parlare di argomenti istituzionali con il pregiudicato e interdetto Berlusconi e se avesse anticipato che avrebbe deciso di continuare a cancellare le preferenze.
Appare sempre più evidente – anche a coloro che desidererebbero non vederlo – che per il sindaco di Firenze il fine giustifica i mezzi, che l’etica e la legalità sono subordinate al risultato. In Renzi, insomma, manca decisamente ogni addentellato con quella questione morale che è stata messa in primo piano da Berlinguer, ma che poi non è stata solamente un ideale suo, ma di una consistente parte della sinistra.
Una volta pensavo alla DC come a un partito che non sentiva propria la questione morale. Oggi penso al PD di Renzi nella stessa maniera. Il mio problema personale di coscienza è che per la DC non ho mai votato, mentre per il PD, fino alle ultime elezioni, ho votato quasi sempre.

lunedì 20 gennaio 2014

Non si tratta solo di forma

Coloro che apprezzano la mossa di Renzi di incontrarsi con Berlusconi per fissare con lui la legge elettorale criticano che ne è schifato perché – dicono – ci si appiglia a motivi di forma e non di sostanza. È, con chiara evidenza, tutto il contrario.
Intanto la nuova legge elettorale, stando a quanto è stato annunciato, dovrebbe prevedere un consistente premio di maggioranza su un’impostazione proporzionale e l’assenza di preferenze: esattamente quello che aveva fatto dichiara e incostituzionale dalla Consulta la legge precedente.
Una domanda tipica, mutuata dalle parole di Renzi, è: meglio governare con Berlusconi o discutere con Berlusconi? E la risposta mi sembra scontata: meglio lasciare che Berlusconi sconti la sua pena. Meglio non parlare di politica e di istituzioni con un pregiudicato senza senso dello Stato. Meglio non governare che governare con gli imbroglioni. Meglio ricordarsi che Berlusconi non può essere il capo della Destra in quanto – almeno per chi crede ancora nelle istituzioni – è soltanto un pregiudicato e un interdetto.
Altra obiezione è quella che sottolinea che è ipocrita che coloro che hanno accettato di governare con Berlusconi ora non vogliano dialogare con lui per la legge elettorale. E qui ci sono almeno due risposte da dare. La prima è formale e ricorda che quella volta Berlusconi era ancora in attesa del giudizio definitivo. La seconda è sostanziale e discrimina tra coloro che hanno accettato di entrare nel governo con Berlusconi e quelli che hanno votato poco meno di un anno fa per Bersani, neppure immaginando che il Pd potesse accettare di governare con il PDL, che hanno sofferto quella scelta e l’hanno contestata e che ora non accettano che il partito per cui hanno votato, e da cui si sentono traditi, riabiliti un personaggio per il quale, vista la mancanza di pentimento e i continui attacchi alla magistratura, la grazia non è neppure pensabile.

domenica 19 gennaio 2014

«Profonda sintonia»

«Profonda sintonia». Se le parole hanno un peso, allora delle due l’una: o Renzi non le capisce e il PD meriterebbe di avere un segretario più capace di “intellegere”, o Renzi le capisce e allora il PD meriterebbe di avere un segretario che pensi alle radici di quel partito e di coloro che quel partito hanno votato e non soltanto alle proprie vittorie personali. E dico personali perché a me di veder vincere un partito che si dice di centrosinistra, ma è in «profonda sintonia» con Silvio Berlusconi e le sue idee non solo non me ne importa niente, ma mi fa orrore. E mai mi sognerò di votarlo.

Per decenni abbiamo visto la sinistra autodistruggersi con attacchi interni da sinistra, con frazionamenti dettati da piccole vanità personali più che dalla ricerca del bene degli italiani (Bertinotti e Turigliatto, solo per citarne due). Era logico attendersi un tentativo di distruzione anche dalla destra interna; e puntualmente è arrivato.
Credo di essere in compagnia di moltissimi italiani che non soltanto non hanno «profonda sintonia» con Berlusconi, ma che ritengono fortemente offensivo che un personaggio salito alla segreteria e che rappresenta il partito e i suoi elettori, possa anche soltanto immaginare di proferire una simile frase.
Con Prodi, che pure di sinistra estrema non era, tutto questo non sarebbe mai accaduto. Ora forse è più chiaro perché sia stato tradito così vergognosamente da 101 del sedicente PD.

sabato 18 gennaio 2014

Il brutto non scompare. Anzi

Non ho fiducia in Renzi, l’ho sempre detto e scritto e alle primarie non ho votato per lui. Forse anche per il fatto che sono cosciente di essere prevenuto nei suoi confronti, evito di dire subito quello che penso delle sue azioni e le lascio centellinare nella speranza che scompaia il brutto che vedo e che lasci apparire il bello che non vedo.
L’ho fatto anche questa volta e il brutto del suo incontro di oggi con Berlusconi non soltanto non è scomparso, ma è addirittura aumentato con la scelta di far tenere l’incontro nella sede del PD.
Riassumo quello che continuo a vedere: Renzi va a parlare con un pregiudicato che oggi è fuori dalla sua pena (domiciliari o servizi sociali che siano) soltanto per i tempi burocratici della magistratura; con una persona interdetta ai pubblici uffici e io, ingenuamente, ho sempre pensato che la politica sia il più alto dei pubblici uffici; si offre una legittimazione a un personaggio che, anche al di questa prima condanna definitiva avrebbe dovuto essere delegittimato agli occhi di qualsiasi politico che ritenga la sua una missione per il bene comune e non una faccenda che si esaurisce con una vittoria elettorale; si dà peso decisionale a un personaggio al quale va ascritta una parte consistente delle colpe per la situazione etica ed economica di questa nostra Italia; si accoglie in casa propria un personaggio che finora è sempre riuscito a imbrogliare (porcellum e bicamerale possono bastare?) la propria parte politica.
Si dirà che parlare con Berlusconi è la stessa cosa che parlare con uno dei suoi servitori, ma in politica anche la forma diventa sostanza perché è esempio. Ed è l’esempio a trasmettere gli insegnamenti etici e morali.
Ed è sostanza anche portare quel figuro nella sede del PD che dovrebbe avere un che di sacralità almeno per gli iscritti al PD stesso.
Ricordo che nella sua pagliacciata permessa in tv da Santoro soltanto per questioni di audience Berlusconi ha spazzolato la sedia dalla quale si era appena alzato Travaglio per lasciare il posto a lui. Cosa si potrà fare per disinfestare la sede del PD e soprattutto la memoria e la sensibilità di chi crede alla sinistra anche come parte deputata al rispetto della legalità?

mercoledì 15 gennaio 2014

Dedicato ai ragazzi del Palio

Ora, mentre tutti parlano del Palio Teatrale Studentesco che – almeno per quest’anno – ha raggiunto la certezza di essere in salvo, io desidero parlare dei ragazzi che si sono mobilitati in massa per salvarlo e che sono riusciti nel loro intento.
Alcuni di loro hanno detto “Io non faccio politica”. Sbagliato. Anzi, sbagliatissimo. Tutti loro in questa vicenda hanno fatto politica, finalmente bella politica. Anzi, di più: tutti loro hanno fatto vera democrazia, quella in cui il popolo torna ad avere importanza perché indirizza le decisioni di chi lo rappresenta e non si limita a subirle standosene passivo per tutto il periodo che intercorre tra un'elezione e un'altra.
Questa è una cosa estremamente importante perché il Palio è una bellissima cosa, ma per almeno il 90 per cento degli studenti, dopo aver concluso gli studi, rimarrà soltanto uno splendido ricordo. Tutti, invece, rimarranno cittadini per sempre e sapranno cosa vuol dire far politica e fare democrazia. Se poi se ne ricorderanno e continueranno a impegnarsi in questo senso, allora anche la politica rappresentativa dovrà cambiare e riavvicinarsi alle sue lontane ma magnifiche radici.
E un grazie va anche ad Angela Felice, a Gianni Cianchi e a tutti quelli che hanno operato in questa vicenda con i ragazzi perché, pur a capo dell'organizzazione, hanno saputo accompagnare senza comandare. Anche questa è una lezione preziosa per chi crede ancora nella democrazia.

martedì 14 gennaio 2014

Le radici della cultura

Mentre giustamente si può gioire per la praticamente certa salvezza del Palio Teatrale Studentesco, è meglio continuare a restare preoccupati e attivi per le sorti della cultura in generale. Cultura intesa come substrato necessario per qualsiasi progresso individuale e sociale.
Perché è giusto, anzi doveroso, assicurare un futuro a prosa, lirica, musica, danza, cinema, arti figurative, tutti settori nei quali e per i quali, tra l’altro, vivono e lavorano numerosi professionisti della cui opera è giusto avere rispetto identico a quello delle altre attività produttive; ma è altrettanto obbligatorio ricordare che tutte queste attività di punta altro non sono che il momento di sbocco di altre attività culturali che si basano sulla parola, detta o stampata che sia, nella sua forma più pura e semplice.
Mi riferisco a cose come la lettura, le conferenze, i dibattiti, le presentazioni e, soprattutto, alla scuola che da decenni non soltanto viene trascurata, ma è costantemente impoverita e usata come una specie di bancomat al quale attingere soldi, con i tagli, non appena servono fondi per altre attività più o meno giustificate.

Ma teniamo anche presente che per letture, conferenze, dibattiti, presentazioni, i soldi c’entrano poco o nulla: nella maggior parte dei casi basterebbe pochissimo per aiutare i circoli culturali che già assorbono i costi con il volontariato a svariati livelli; basterebbe, per esempio mettere a loro disposizione locali adatti agli incontri pubblici senza pretendere – per motivi di pubblica utilità – affitti esosi.
A me stupisce sempre che ogni volta che si parla di cultura – anche nei vari Forum – siano pochissime le voci che parlano di quelle che definirei le attività culturali di base. Eppure non dovrebbe essere difficile rendersi conto che – come ha detto anche Claudio Magis – tagliando le radici della cultura anche i suoi bei rami fronzuti prima o dopo si inaridiranno.

giovedì 9 gennaio 2014

Ma quale Forum della cultura?

Abbiamo sentito dire che fare politica vuol dire assumersi le responsabilità di operare delle scelte. Siamo perfettamente d’accordo, basta che questa frase vada intesa alla lettera e che finalmente si ritorni a dare alle parole il peso che hanno in realtà. Responsabilità della scelta, infatti, non significa soltanto avere la volontà e il potere di decidere, ma anche e soprattutto sapere che poi, se quelle scelte saranno sbagliate, si finirà inevitabilmente per pagare un prezzo in termini di fiducia e di voti. E poi, cosa più importante, rendersi conto che le conseguenze non saranno soltanto per se stessi, ma soprattutto per l’ideale che si rappresenta.
Le decisioni di non dare fondi al Teatro Club e, quindi al Palio Teatrale Studentesco, al Centro di accoglienza e di promozione culturale Ernesto Balducci, all’Aned che da più di 15 anni porta i ragazzi in visita ai campi di sterminio per metterli a contatto con quello che la natura umana può perpetrare se si dimenticano la storia e le proprie responsabilità individuali, non scontentano soltanto coloro che avranno un danno diretto da questa mancanza di fondi pubblici per la pubblica utilità, ma allontanano moltissima gente, che finora aveva resistito, sia dalla politica, sia dalla sinistra perché lo spregio nei confronti della cultura continua, forse non più nelle parole, ma sempre nei fatti; uno spregio ancora più grave perché va a colpire soprattutto quei giovani che già soffrono per una scuola che non è più capace di insegnare che la cultura non è nozionismo fine a se stesso, ma è capacità di ragionare e per una società che con la parola “giovani” si riempie la bocca, ma che poi ne lascia per strada quasi uno su due.
Cerchiamo di capirci perché è davvero importante: questa non è una protesta per una suddivisione di fondi non gradita. È un’indignazione nei confronti di una parte politica che dovrebbe tenere in palmo di mano la cultura e che, invece, la sta affossando definitivamente. E senza mettere in campo nemmeno un po’ di fantasia, di contrizione, di partecipazione, ma limitandosi a tagliare; forse senza neppure rendersi conto che ancora una volta non è chi sta meglio a soffrirne, ma chi sta peggio e, quindi, soprattutto i giovani. E, a livello nazionale, l’atteggiamento di una parte dei ministri nei confronti della scuola non è assolutamente diverso.
Non basta organizzare “Forum della cultura”: se sono soltanto operazioni di facciata, fanno arrabbiare ancora di più. Se la cultura è soltanto l’esibizione di poche eccellenze e non viene coltivata soprattutto nelle sue forme più minuscole, è destinata a morire in breve tempo.

mercoledì 8 gennaio 2014

L'insegnamento del Palio e del Balducci

Il dilagare delle iniziative e delle firme di sostegno per il Palio Studentesco che arrivano anche da località lontanissime dalla nostra regione contro il taglio dei contributi pubblici al Teatro Club di Udine e, di riflesso, al Palio Teatrale che è una delle manifestazioni scolastiche più antiche e più apprezzate in Italia, fa ragionare anche su un altro aspetto oltre a quello di cui ho già scritto in cui non ci si può non domandare se può essere davvero una espressione di sinistra quella che dice di difendere la cultura e va a colpire proprio gli ambiti e le età nei quali la cultura comincia non soltanto a formarsi, ma soprattutto a radicarsi.
Le domande alle quale molti dovrebbero rispondere sono: ma si ha una pallida idea di cosa si sta andando a toccare quando si decidono provvedimenti che non sono soltanto economici, ma vanno a incidere su attività, vita e cultura delle persone? È ovvio che un assessore regionale non possa conoscere a fondo tutto quanto accade nella regione, ma non dovrebbe avere con se alcune persone capaci, fidate e in grado di informarlo della realtà? È logico che, dopo aver toccato con mano che si è commesso un errore, anche dal punto di vista del ritorno politico, non si faccia velocemente marcia indietro dicendo un «Ho sbagliato» che non ha nulla di infamante, ma dimostra soltanto che si ha la capacità di governare e non soltanto di comandare. È accettabile che una cosa importante come la gestione della cultura e delle attività giovanili non sia considerata come un complesso unico nel quale vanno studiati con attenzione gli eventuali disequilibri?
Oggi parliamo del Palio, ma non è soltanto il destino riservato al Palio a sollevare indignazione. Prendiamo, per esempio il “Centro di accoglienza e di promozione culturale Ernesto Balducci” di Zugliano. Era scontato che per la destra berlusconiana e leghista le locuzioni “accoglienza” e “promozione culturale” fossero assimilabili a vere e proprie bestemmie e che quindi i contributi per l’attività non regolata già da leggi dello Stato fossero zero. Ma anche per il centrosinistra “accoglienza” e “promozione culturale” sono assimilabili a bestemmie visto che gli aiuti regionali sono rimasti fermi allo zero?
Sinceramente a me interessa poco che a decidere sia gente che dice di essere di centrosinistra; a me interressa che agisca come agirebbe uno di centrosinistra.

lunedì 6 gennaio 2014

I rospi da inghiottire

Lo sapevamo già, ma è sempre bene ripeterlo: è certo che per continuare a votare a sinistra (o almeno a centrosinistra) ci vuole davvero una bella testardaggine, oltre che una inesauribile capacità di sognare.
Prendiamo le ultime tre cose che mi hanno colpito profondamente due delle quali sicuramente saranno causa di ulteriori allontanamenti dal PD e non per mere questioni di forma, bensì di sostanza.
Cominciamo con quel «Fassina chi?» detto da Renzi e che giustamente (la dignità ha ancora un peso) ha portato alle dimissioni il viceministro all’economia. Ma in quale sinistra italiana, se non in quella corrotta e stravolta da altre pulsioni molto diverse (il socialismo craxiano, per esempio), si è mai irriso il collega di partito sconfitto in una consultazione elettorale? Se è vero – come ha scritto Krippendorff – che è l’insoddisfazione il carburante che muove il motore della sinistra, allora Renzi (verrebbe voglia di dire «Renzi chi?», ma sarebbe un'inaccettabile caduta di stile) ha dispensato davvero intere autobotti di carburante perché a vederlo rappresentare e guidare il PD in quella maniera ha reso ulteriormente insoddisfatte tantissime persone che quel PD hanno votato.
Continuiamo con l’aneurisma che ha colpito Pierluigi Bersani, uomo capace, rigoroso, leale, onesto e corretto, sempre dotato di quel rispetto verso colleghi di partito e avversari della cui mancanza in altri personaggi ho appena finito di lamentarmi. Quelle che per me continuano a essere importanti doti umane e politiche da altri sono state usate come manifesto d’accusa di una sconfitta fortemente voluta da altri, tra cui quei 101 vigliacchi che hanno affossato Prodi, che non hanno mai avuto il coraggio di mostrare la faccia e che oggi continuano a prosperare in un PD che non ha ancora trovato la forza di effettuare una salvifica disinfestazione.
Terzo avvenimento, apparentemente piccolo, ma importantissimo: la decisione di Gianni Torrenti – ma evidentemente avvallata dalla nostra intera giunta regionale – di tagliare completamente i fondi al Teatro Club e, di riflesso, al Palio Teatrale Studentesco che è una delle manifestazioni scolastiche più antiche e più apprezzate in Italia. Sarebbe questa la sinistra che dice di difendere la cultura e va a colpire proprio gli ambiti e le età nei quali la cultura comincia non soltanto a formarsi, ma soprattutto a radicarsi? Sarebbe questa la sinistra che, a tutti i livelli, ha sempre detto che il berlusconismo ha vinto per vent’anni grazie proprio alla mancanza di cultura? Sarebbe questa la sinistra alla quale dovremmo guardare con la speranza di cambiare finalmente strada?
Ci sarebbero da dire moltissime altre cose, ma per il momento basta ricordare che finora abbiamo dimostato di avere una grandissima capacità di inghiottire rospi, ma che questi rospi stanno diventando sempre più grossi e che prima o dopo non andranno più giù.
Idealismi, valori e ideologie finora sono riusciti a mantenere insieme i cocci dei partiti: se vengono definitivamente rimossi anche questi collanti, forse il PD vincerà, ma non sarà sicuramente più il PD. E, per quanto mi riguarda, sarò ancora insoddisfatto.

mercoledì 1 gennaio 2014

Comunque tutti insieme

Ho concluso l’anno vecchio parlando del pronome “noi” e con lo stesso pronome “noi” credo sia doveroso cominciare quello nuovo, perché la crisi ha provocato disastri economici, sociali e personali, ma ha anche fatto riaffiorare, in un plumbeo mare di cupezza, alcune piccole luci di una solidarietà che appare sempre quando il denaro, il potere e il successo cessano di anestetizzare l’umanità che continua a vivere in ognuno di noi.
Ma c’è un altro “noi” che deve andare in primo piano perché ancora non tutti hanno capito che da questa situazione o ne usciamo tutti insieme, o non ne esce nessuno. Insieme comunque, insomma, nella speranza, o nella disperazione.
Perché deve essere chiaro a tutti – e finora purtroppo così non è – che alla lunga non ci salva a spese degli altri; anzi, spesso è stato proprio con il pensare soltanto al proprio orto che si è finito per distruggerlo. Per capirci: alla maggior parte delle imprese per anni è interessato soltanto creare maggiori utili anche se per riuscirci hanno ridotto in numero e dimensione gli stipendi dei dipendenti, andando a indebolire quel mercato da cui loro stesse traevano nutrimento e guadagno. Sempre per motivi di mercato, a un commerciante non può non interessare la sorte di un’industria e viceversa. E i politici non possono pensare di imporre sacrifici agli altri senza farne anche loro di simili.
Si potrebbe andare avanti a lungo con esempi che impongono, sia eticamente, sia utilitaristicamente, di comportarsi in modo diverso perché altrimenti, alla fine, anche quelli che saranno riusciti a mantenere e ad ampliare il proprio patrimonio dovranno guardarsi da coloro che non avranno più di che vivere e che saranno sempre più facilmente preda del populista di passaggio maggiormente dotato di parlantina e di presenza scenica.
Il mio augurio per tutti per il 2014 è proprio quello di usare di nuovo in maniera cosciente e convinta il pronome “noi” lasciando perdere il “voi” e il “loro”. Altrimenti comunque alla fine lo si userà, ma soltanto per descrivere coloro che sono caduti irrimediabilmente in un precipizio.