mercoledì 16 settembre 2020

Referendum: il peccato originale

Di Maio: una menzogna determinante
Anche nel dibattito al Centro Balducci tra le ragioni del Sì e quelle del No al referendum di domenica ha trovato spazio l’apparente contraddizione tra una Camera dei deputati che vota a larga maggioranza (ma non tanto larga da evitare il referendum) per la riforma proposta dai grillini e la stessa Camera che raccoglie le firme necessarie, pure tra coloro che hanno approvato la legge, per far indire, appunto, il referendum confermativo
. Dal rappresentante dei 5stelle è stato anche messo in rilievo il forte assenteismo alla votazione finale, un assenteismo che – chissà perché? – con il taglio di 230 deputati e 115 senatori secondo loro sparirebbe.

Due le risposte. Il notevole numero di assenti al momento del voto è stata proprio la prova che l’assenso alla proposta grillina era soltanto di facciata da parte delle segreterie della maggior parte dei partiti. Il PD, infatti, temeva il ricatto di Di Maio e complici di far cadere il governo, senza avere il coraggio di andare a vedere un bluff abbastanza scoperto visto che in nuove elezioni la pattuglia della Casaleggio Associati in Parlamento si ridurrebbe sicuramente a meno della metà. Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, invece, hanno votato a favore proprio nella vana speranza di far salire in superficie l’incompatibilità tra qualsiasi tipo di sinistra e i 5stelle. Oggi, infatti, buona parte dei dem, ma anche dei forzisti, leghisti e meloniani ha dichiarato che voterà “No”.

Per quanto riguarda l’assenteismo, in questo caso non va neppure tirato in ballo perché il motivo non era dettato da pigrizia, ma da deliberata scelta politica. Gran parte degli assenti, infatti, non era neppure entrata a Montecitorio; altri erano usciti al momento del voto per non rendersi corresponsabili della prima delle nefandezze dei pentastellati contro la Costituzione (le altre due, già presentate come proposta di legge, sono la nascita del referendum propositivo e quella del vincolo di mandato), ma tentando contemporaneamente di non schierarsi apertamente contro il proprio partito.

Spesso, poi, si trascura che a questo punto non saremmo dovuti arrivare non perché il referendum non dovesse essere convocato, ma in quanto normalmente questa proposta di legge non avrebbe dovuto neppure superare i primi passi. Fondamentale in truffa politica è stato il primo slogan di Di Maio – di cui non si parla quasi più – sui presunti grandi risparmi. Lui parlava di un miliardo l’anno, mentre, poiché molte spese parlamentari sono fisse e ineliminabili, in una legislatura – dicono gli esperti – si risparmierebbero circa 285 milioni; 57 milioni l’anno. Vuol dire che, visto che gli italiani sono circa 60 milioni, per mantenere in vita l’attuale situazione basterebbe che ognuno di noi rinunciasse a meno di un caffè l’anno: un sacrificio non troppo pesante per difendere la democrazia.

Tutto questo porta anche a considerare che due sono le ipotesi: o Di Maio mentiva sapendo di mentire, o non conosceva minimamente la creatura che vuole cambiare. In entrambi i casi si può pensare che la richiesta di migliore eticità e competenza dovrebbe riguardare proprio la possibilità di non vedere più in Parlamento personaggi come lui.

Ma il punto fondamentale è un altro: non ci fosse stata questa menzogna iniziale con tutta probabilità la proposta di legge non avrebbe fatto breccia né tra gli stessi 5stelle che in quel momento stavano godendo della loro massima espansione, né tra tanti altri che comunque non vedono l’ora di castigare chi fa politica. Questo avrebbe comportato un minore sostegno alla proposta e soprattutto un minore timore da parte di tutti gli altri partiti di restare esclusi dai dividendi di un populismo che prospera soprattutto proprio sui teorici privilegi della cosiddetta “casta”. In definitiva, il referendum non ci sarebbe perché, senza quel peccato originale, il progetto sarebbe abortito subito.

In ogni caso oggi, se non vincesse il “No”, la conseguenza sarebbe una limitazione dell’ambito delle discussioni con le quali cercare le soluzioni migliori, presentando le proprie idee, confrontandole con quelle altrui, disponendosi a mediazioni e compromessi pur di avvicinarsi il più possibile al bene dei cittadini. A questo proposito, non vorrei usare un vocabolo per lui difficile come “etimologia”, ma se Di Maio e soci avessero analizzato, anche sommariamente, quello che è avvenuto tra il 1946 e il ’48, avrebbero notato che i padri costituenti si sono sempre riferiti a un “Parlamento” e mai a un “Votamento”, perché la funzione principale delle due Camere è, appunto, quella di parlamentare, di discutere i problemi analizzandone ogni sfaccettatura. Il voto è soltanto l’accessorio finale, il momento in cui ognuno decide coscientemente se approvare, o meno, il testo di una nuova legge.

Si dirà che la riduzione di compiti e poteri assembleari è già realtà a livello di comuni, provincie e regioni. In quei casi la vittoria, magari con orrendo turno unico maggioritario, convoglia tutti i poteri nelle mani del sindaco, o presidente, e delle loro giunte, mentre le minoranze non soltanto sono ridotte numericamente a simulacri di democrazia, impoveriti dai premi dati alle maggioranze, ma anche dal fatto che sindaci, o presidenti, e consiglieri di maggioranza sono legati da un doppio e vicendevole ricatto: se il primo si dimette, o i secondi non sono d’accordo, tutti devono andarsene a casa. E molto spesso, pur di non lasciare il seggio, non pochi preferiscono approvare anche qualche provvedimento con cui non sono proprio in sintonia. In quei casi un effettivo, se pur non ufficiale, vincolo di mandato funziona già. Non allarghiamolo.

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