Uno degli
espedienti recitativi più usati nel teatro italiano è stata
l’interazione, studiata e attenta, tra capocomico e spalla, che si è
rivelata quasi sempre la chiave di volta capace di reggere un intero
spettacolo comico e di portarlo al successo. E questa suddivisione di
ruoli ha portato a tali soddisfazioni che il meccanismo è stato adottato
anche dove non c’era il teatro e neppure alcuna traccia di comicità. In
politica, per esempio. E i casi non sono mancati.
Oggi, con tutto il rispetto dovuto
sia alle cariche istituzionali, sia alla tradizione teatrale, e
lasciando libero ciascuno di attribuire come preferisce i due ruoli ai
due attori, la cosa sta avvenendo di nuovo nella lunghissima
rappresentazione di quella che il Tassoni probabilmente avrebbe chiamato
“La Costituzione rapita”.
Pensateci: il piano per cambiare la
Carta fondamentale della nostra Repubblica stava andando benissimo fino a
quando la gente non ha cominciato a dare retta a coloro che già da
tempo denunciavano il pericolo di una deriva autoritaria nel “combinato
disposto” tra una legge elettorale che crea una larghissima maggioranza
assoluta che non rappresenta la realtà dei voti espressi dai cittadini, e
una riforma costituzionale che non solo non riforma, ma stravolge, la
nostra democrazia, e che, in più, è anche mal scritta, confusa e
contraddittoria.
Cosa fare, allora? Semplice: i due
padri della riforma (la madre è stata caldamente consigliata di non
esprimersi, visti i disastri che ha combinato ogni volta che ha aperto
bocca), un presidente della Repubblica emerito e un presidente del
Consiglio pro tempore, si impegnano a recitare un copione che prevede
uno scambio di battute che li aiuti reciprocamente ad arrivare al loro
scopo stando ben attenti a cambiare rotta senza dare mai ragione agli
avversari. Il sistema è semplice: basta che il secondo ammetta di aver
sbagliato inizialmente perché si è lasciato trasportare
dall’irrefrenabile desiderio di aiutare l’Italia, e non se stesso, e che
il primo, onusto di gloria, esperienza e autorevolezza, continui a
ripetere che l’idea era e continua a essere giustissima, ma che, visto
che gli altri tentano di demolirla grazie a quel piccolissimo errore
iniziale di voler tramutare un referendum in un plebiscito, questa idea
deve essere – almeno per il momento – parzialmente cambiata.
E così – secondo il copione – tutto
dovrebbe finire in gloria, magari contando sul fatto che il pubblico
plaudente è troppo distratto per ricordare che chi oggi ammette che
qualche difettuccio nell’Italicum c’è, pochi mesi fa diceva ad alta voce
che quella era la legge elettorale più bella dell’Occidente e che tutti
si sarebbero affrettati a copiarla; magari non facendo caso al fatto
che ancora adesso Renzi continua a ripetere che comunque la sera del
voto si dovrà sapere chi ha vinto e potrà governare, senza fastidiose
opposizioni, per cinque anni (e mi astengo dall’usare l’avverbio
“almeno”).
Ma il fatto è che l’Italicum è
soltanto uno dei problemi di questo dramma burlesco, non il problema: se
anche l’Italicum dovesse saltare ed essere sostituito da una legge
elettorale che non regali più la maggioranza assoluta a un solo partito,
sarebbe disinnescata soltanto la terribile mina distruttiva del
combinato disposto, ma non svanirebbe il pericolo principale e comunque
mortifero di una Costituzione che è malfatta e pasticciata, ma che
soprattutto vuole spostare l’asse dei poteri, togliendone al legislativo
e attribuendone altri all’esecutivo, pur senza mai toccare gli articoli
che si riferiscono al presidente del Consiglio.
Anzi, il fallimento evidente del
progetto dell’Italicum adesso può addirittura diventare un arma a favore
di coloro che sono sul palcoscenico, in quanto l’ammissione dell’errore
può essere usata come efficace arma di attacco agli oppositori interni.
La minoranza del PD, infatti, ha voluto legare troppo il proprio
destino a quello dell’Italicum pensando, furbescamente, di poter così
avere una scusa valida per tornare sui propri passi e per poter negare
il proprio voto al referendum dopo averlo dato sciaguratamente, invece,
in Parlamento anteponendo piccoli calcoli interni di bottega al destino
democratico di un’intera nazione.
Avessero fatto l’inverso,
probabilmente il loro partito non sarebbe più così totalmente estraneo a
loro stessi e a milioni di elettori che non lo votano più e,
soprattutto, non saremmo costretti a lottare perché il 4 dicembre non
diventi un’altra data tragica nel calendario della Repubblica.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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