Ci avviciniamo
al 25 aprile e sempre più fitti sono gli incontri che vogliono ricordare
la Resistenza, ma anche rinnovare l'impegno di difesa della nostra
democrazia e della Costituzione. Una delle più significative,
organizzata dal comitato udinese di Libertà e Giustizia e dalla sezione
udinese dell'ANPI, con il patrocinio del Comune, si è svolta giovedì
pomeriggio in sala Ajace e aveva come titolo "Resistere, infinito
presente" e ha visto la partecipazione, con me, di Monica Emanuelli, di
Angelo Floramo e di Adriano Virgilio. Riporto qui la mia introduzione.
A me spetta il compito di introdurre
questo incontro, “Resistere, infinito presente”, che poi vivrà
sull’intreccio dei pensieri di Monica Emmanuelli, Adriano Virgilio e
Angelo Floramo su aspetti storici della Resistenza, sull’ancora
doverosamente attuale impegno per la difesa e l’attuazione della
Costituzione e sulla necessità di impegnarsi a tener viva la memoria.
Io, però, vorrei dapprima soffermarmi brevemente sul titolo il cui
significato va ovviamente ben al di là del significato grammaticale che
illustra modo e tempo della forma verbale “resistere”. È, invece,
un’allegoria in cui è palese che “resistere” in questo caso assume il
significato di un imperativo impersonale, e che l’“infinito presente”
indica che la necessità di tenere vivo il concetto di resistenza non ha,
né avrà fine, perché mai ci si potrà illudere che la stirpe dei
prevaricatori possa sparire definitivamente dalla Terra.
Ma al di là di questa prima
spiegazione, già ben specificata nel sottotitolo, questo titolo mi ha
sollecitato qualche ulteriore riflessione. In altre occasioni ho
sottolineato che la Resistenza non è stata una rivolta, perché la sua
repentina fiammata iniziale non si è rapidamente esaurita, e nemmeno una
rivoluzione perché è scaturita quasi spontaneamente, senza lunghe
preparazioni filosofiche e politiche. È stata, però – raro esempio nel
mondo e nella storia – la sommatoria di queste due cose perché ha
chiamato subito in campo tantissima gente chiedendo anche sacrifici
estremi, e poi ha saputo allungare i suoi benefici influssi per sempre –
mi sarebbe piaciuto dire – ma in realtà per alcuni decenni, lasciando
comunque in buona parte della popolazione la voglia di resistere ancora
per difendere la propria dignità, libertà e indipendenza.
Ancora oggi sono convinto che sia
necessario tracciare una netta linea di demarcazione tra rivolte e
rivoluzioni. Perché sono diverse in termini di dimensioni, ma anche di
respiro e progettualità: se la rivolta, infatti, è localizzata, quasi
istintiva e limitata al raggiungimento di alcuni risultati pratici, la
rivoluzione non ha necessariamente bisogno della violenza perché porta
con sé grandi obbiettivi ideali e punta a cambiare profondamente la
società in cui si sviluppa, soprattutto dal punto di vista sociale e,
quindi, etico. E, proprio per questa sua capacità di puntare a grandi
mutamenti, finisce per coinvolgere persone di svariati ceti sociali e
sparse su larghe estensioni di territorio.
Esiste, quindi, una corrispondente
differenza anche tra rivoltosi e rivoluzionari. Ma, pensando al titolo
di questo incontro, mi è sembrato inevitabile fare un ulteriore passo in
avanti perché i resistenti, in realtà hanno ancora qualcosa di più
della somma delle caratteristiche di queste due categorie. E mi è
apparso evidente che la definizione più giusta con cui identificarli
esisteva già: l’avevamo davanti agli occhi da più di settant’anni.
Infatti se l’erano data loro stessi, anche se noi, pur avendola sentita
tante volte, non ci avevamo fatto soverchia attenzione. I resistenti
sono “ribelli”, come loro stessi si definiscono in “Fischia il vento” –
«Ogni contrada è patria del ribelle» – o, ancor più palesemente in
“Siamo i ribelli della montagna”.
Il fatto è che, mentre la
rivoluzione ha una connotazione necessariamente collettiva, quella del
ribelle è sempre una condizione individuale, tanto che il ribelle tende a
restare tale anche quando la spinta propulsiva della rivoluzione di cui
è stato parte attiva si è esaurita. Perché è inevitabile che, visto che
anche le rivoluzioni sono momenti dialettici della storia, nessuna
rivoluzione potrà mai riuscire, da sola, a rispondere ai problemi di un
tempo che non è più il suo; magari anche in uno spazio che non è più il
suo.
Ma, anche se la rivoluzione finisce,
il ribelle resta tale e si distingue dal rivoluzionario. Quest’ultimo,
infatti, può essere tanto indissolubilmente legato all’ideologia della
sua rivoluzione da diventarne quasi prigioniero e da estremizzarla oltre
ogni limite. A tale proposito, basterebbe ricordare il terrore
giacobino che, in pratica, oltre a decine di migliaia di francesi, ha
ucciso anche la stessa Rivoluzione francese. Il ribelle, invece, è colui
che sceglie la strada della resistenza ogniqualvolta si trova di fronte
a un potere che sente iniquo; anche se è lo stesso potere prodotto
dalla rivoluzione per la quale ha lottato. Il vero resistente, infatti,
ha un’inesauribile esigenza di sincerità e, quindi, di libertà.
D’altro canto, appare anche evidente
che un uomo deve essere già libero per poter desiderare di diventarlo.
Questa frase a prima vista può apparire paradossale, ma, in realtà, è
soltanto la constatazione che, visto che di aneliti alla libertà non c’è
traccia biochimica nel DNA di ognuno di noi, è evidente che per lottare
per la libertà ci vogliono istruzione, memoria, conoscenza ed
educazione, quasi sempre assimilate già in gioventù. In una parola,
cultura; che è cosa ben diversa dall’erudizione.
Ma facciamo ancora un passo in
avanti. Noi siamo abituati a pensare alla rivoluzione soltanto come a un
avvenimento politico; ma, in realtà, la rivoluzione politica è arrivata
ben più tardi della rivoluzione religiosa (un esempio su tutti, quella
di Lutero), e ancor più tardi rispetto a quella scientifica che può
vantare Keplero, Copernico e Galilei come antesignani e che proprio dal
loro ambito astronomico trae il suo nome. Quando Copernico scrive il “De
revolutionibus”, infatti, non soltanto vuole indicare con questo
termine gli infiniti ritorni di ogni pianeta alla sua posizione iniziale
rispetto alla stella attorno alla quale ruota, ma, pur sapendo che
avrebbe provocato una frattura distruttiva nella costellazione delle
credenze stabilite per cosiddetta “ispirazione divina”, vuole anche
presentarsi come il restauratore della purezza dell’astronomia classica,
portando con sé, quindi, una specie di ritorno alla posizione di
partenza, all’antica libertà perduta, che si sostanzia anche con
profondi cambiamenti di regole.
E anche Lutero, con le sue “95 tesi”
esposte sul portale della cattedrale di Wittenberg, pur in un campo
profondamente diverso, fa la stessa operazione in quanto si propone come
colui che vuole ritornare al cristianesimo del messaggio evangelico, in
contrapposizione alla degenerazione della Chiesa romana.
Ma in questo ritorno al passato,
almeno sotto alcuni aspetti, esiste anche il rischio di una sorta di
restaurazione? Certamente sì e la storia è prodiga di esempi calzanti.
Ma il rischio cala fortemente, fino a tendere asintoticamente verso lo
zero, se molti rivoluzionari sono anche ribelli. Perché – e anche qui
l’etimologia ci soccorre premurosamente – ribellione deriva da
“rebellare”, riprendere la guerra.
A questo punto, però, non possiamo
sottrarci dall’obbligo di chiederci quando è lecito ribellarsi? Quando
si può essere davvero certi che la propria percezione di iniquità nei
confronti del potere che ci si trova di fronte sia tale da consentirci
di resistere, da concretizzare il diritto di resistenza? Un diritto che è
addirittura statuito in alcune Costituzioni come, per esempio, in
quella tedesca che all’articolo 20 recita: «Tutti i tedeschi hanno
diritto di resistenza contro chiunque si appresti a sopprimere
l’ordinamento vigente, se non sia possibile alcun altro rimedio».
Comunque sulla liceità del resistere
è obbligatorio riflettere. È facile dare una risposta se ci si trova di
fronte a un’invasione di territori, o di diritti. Ancor più facile se
queste due invasioni coincidono negli stessi prevaricatori: l’esempio
negativo più chiaro è stato costituito dalla la Germania nazista. Più
subdolo e difficile da dirimere è il caso in cui il pugno di ferro
esercitato dal potere – che comunque tende sempre ad attribuire un
significato criminale a ogni resistenza, pur legale, o addirittura
all’opposizione, o a qualsivoglia non totale obbedienza alle sue pretese
– se il potere, dicevo, esercita un’oppressione che vuole “spiegare” in
nome della pace, della stabilità, addirittura di quella che talvolta
impudentemente tentano ancora di spacciare per democrazia.
Ed è obbligatorio pensarci
soprattutto se la resistenza – come quella dei nostri padri – impone di
impugnare le armi. Perché invariabilmente ci troviamo di fronte a due
punti di vista diametralmente opposti, in uno dei quali gli oppressori
tentano di far confondere la resistenza con il banditismo. L’“Achtung
Banditen” che decorava lugubremente tantissimi cartelli durante la
dominazione nazista e repubblichina nell’Italia settentrionale e
centrale lo dimostra in maniera palmare.
Noi siamo convintamente portati ad
aborrire la violenza, ma nel passato un uomo non certamente belluino
come John Milton, scrittore, poeta, filosofo, saggista e teologo
inglese, quello del “Paradiso perduto”, nel 1649 (lo stesso anno della
decapitazione di re Carlo I d'Inghilterra su ordine di Oliver Cromwell)
ha scritto storia e difesa del tirannicidio in un libro che la Raffaello
Cortina ha riportato nelle librerie italiane qualche anno fa con
l’esplicito titolo “Uccidere il tiranno” scelto da Giulio Giorello per
tradurre modernamente il più mimetico “I giusti poteri dei re e dei
magistrati”. E, senza parlare di uccisioni, anche l’illuminista Benjamin
Franklin propose di includere la frase «La ribellione ai tiranni è
obbedienza a Dio» nel Gran Sigillo degli Stati Uniti. Poi, del resto,
chi si sentirebbe oggi di condannare moralmente l’uomo che avesse ucciso
Hitler prima che il dittatore nazista riuscisse a iniziare la guerra e a
mettere in esecuzione la sua “soluzione finale”?
Fortunatamente oggi a noi non è
necessario porci il problema se è lecito resistere con le armi in mano,
ma questo non ci esime – anzi – dall’impegnarci nella resistenza civile
con una non violenza attiva, con la capacità della disobbedienza, del
rifiuto e del dissenso, sempre da esprimere in maniera palese perché
diventi consapevole testimonianza erga omnes. Perché il “no”, quel
monosillabo che da quasi tutti quelli che hanno in mano il potere è
indicato come antipatico e vuoto simbolo della negazione, è, invece, una
parola bellissima perché caposaldo della libertà, base fondante di ogni
vera democrazia; perché permette il rifiuto di ragione e di coscienza,
perché rende ridicoli quegli alibi che troppe volte nella storia del
ventesimo secolo abbiamo sentito dal banco degli accusati dove c’era
qualcuno che si difendeva rispondendo vacuamente: «Non ho fatto altro
che eseguire gli ordini».
Ricordate, vi prego, come Renzi e i
suoi hanno dipinto il “No” durante la campagna referendaria che ha
portato al 4 di dicembre dello scorso anno, una data che, per me, anche
se non sarà mai inserita nel calendario ufficiale, resterà sempre
l’anniversario della democrazia italiana. L’anniversario di una
Resistenza alla quale ho avuto la fortuna di partecipare di persona
anch’io e che, come la Resistenza di più di settant’anni fa, quando è
scoppiata non aveva la minima possibilità di vincere. Eppure ha vinto. E
ha dimostrato ancora una volta che, se vogliamo sperare, dobbiamo
lottare; che se vogliamo esistere dobbiamo resistere. Lotta e speranza
sono concetti che necessitano l’uno dell’altro per rafforzarsi e
arricchirsi vicendevolmente. Non può esserci, infatti, lotta senza
speranza; né speranza senza lotta.
Un ultimo paio di cose, ma molto
importanti: il diritto di resistenza deve essere possibile per ogni
cittadino perché, come per qualsiasi diritto, anche quello di resistenza
deve toccare tutti, senza eccezioni. Altrimenti diventa privilegio per
chi ce l’ha. E dobbiamo ricordare sempre che il frutto della Resistenza
si estrinseca nella nostra Costituzione, voluta da chi ha saputo
trasformare quel drammatico modo quotidiano di vivere e combattere di
settant’anni fa in pacifica pratica giornaliera difendendo libertà,
democrazia, lavoro, uguaglianza, dignità, giustizia, solidarietà, equità
sociale e pari opportunità, nel rispetto delle diversità e del
pluralismo; battendosi per i diritti umani di tutti e non soltanto di
determinati, pur vasti, gruppi razziali, religiosi, culturali o
economici; ripudiando la guerra.
Ecco, non possiamo non sottolineare
che la Resistenza che festeggiamo il 25 aprile non è di tutti. Non è e
non sarà mai di chi a questi valori – anche a uno soltanto di questi
valori – si oppone. I partigiani nella loro lotta hanno compreso
l’enorme valore del “diritto di resistenza” e ne hanno fatto tesoro
tanto da elaborarlo in “dovere di resistenza” in ogni giornata della
loro vita. Perché per un uomo ogni diritto, se è davvero tale, una volta
conquistato non può non diventare un dovere nei confronti propri e di
tutti gli altri.
Ancora un appunto. L’azione del
resistere ha in sé una connotazione quasi passiva, di attesa. Il
ribellarsi, invece, fa trasparire ben chiara la decisione di fare
qualcosa, di impegnarsi in prima persona. Per venire a noi, resistere è
stato quello che siamo riusciti a fare per raggiungere il risultato
referendario del 4 dicembre; ribellarsi sarebbe quello che dovremmo fare
per pretendere che la nostra Costituzione venga sempre più applicata,
anziché stravolta.
Non solo resistere, quindi, ma anche ribellarsi deve diventare davvero un infinito presente.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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