Si sapeva
che era gravemente ammalato, ma la notizia della morte di Leonardo
Zanier, pur se in definitiva attesa, non ha perduto minimamente la forza
d’impatto causata non soltanto dalla perdita di un poeta di grande
livello, ma anche e soprattutto di un uomo che non ha mai perduto di
vista le necessità degli altri per privilegiare le proprie.
Non lo vedevo da un po' di anni,
ma ci sentivamo al telefono abbastanza spesso per concordare incontri,
interviste, presentazioni, ma anche, semplicemente, per salutarci, per
sapere come andava, per conoscere i rispettivi progetti. Ed era sempre
un piacere sentire il grattare della sua voce, così apparentemente
indecifrabile e pur così inconfondibilmente comprensibile in un
dialogare che non era mai soltanto professionale, ma, anzi, scivolava
regolarmente nel rapporto personale, tanto che in ogni telefonata, in
ogni mail concludeva invariabilmente con un «Salûts a tô maranzanota».
Ma, al di là del dispiacere
personale, c’è un profondo rimpianto per la perdita di un grande poeta
che, tramite la sua capacità espressiva, riusciva ad avvicinare
tantissima gente ad argomenti scomodi, che di solito appaiono repulsivi
soprattutto a coloro che preferiscono non sapere per non rattristarsi.
Fare letteratura è unire una parola
all’altra fino a creare un’espressione compiuta che sappia esprimere e
trasmettere un ragionamento, un concetto; che sia in grado di realizzare
un brano di senso compiuto capace di rendere manifesto il proprio
pensiero e il proprio sentire. La poesia è diversa, pur se
strutturalmente simile alla prosa: unendo le parole punta soprattutto a
produrre e a offrire sensazioni. In questo caso le parole, infatti,
vengono accostate l’una all’altra in maniera talvolta strana, talvolta a
prima vista incomprensibile, non necessariamente inserendole in
schematismi bloccati dalle regole della grammatica e della sintassi. E
questo aggregarsi di parole è capace di portare alla luce non i
ragionamenti, bensì i sentimenti.
In quest’ottica Leonardo Zanier
è esemplare: la sua poesia è capace di toccare il cuore altrui con il
minimo impiego di parole. Riesce a costruire un edificio che commuove,
indigna, innamora, fa pensare, usando un decimo dello sforzo che è
costretto a fare un narratore, un centesimo di quello che tocca a un
saggista.
Pensavo di rendergli omaggio
ripubblicando la mia prefazione a “Libers... di scugnî lâ” uscito nella
collana “Friuli d’autore. La biblioteca del Messaggero Veneto”, ma
preferisco farlo, invece, pubblicando la mia presentazione del suo
“Allora vi diciamo / Alla nazione” fatta al Balducci, assienme a don
Pierluigi Di Piazza, un po’ di anni fa. Eccola.
È da tantissimi anni che Leonardo Zanier ci parla di migranti e di
migrazioni ed è da altrettanto tempo che puntualmente riesce a
sollecitare in noi nuovi ragionamenti e nuove sensazioni su uno dei temi
più drammatici della vita dell’uomo. Ancora una volta ci è riuscito con
Allora vi diciamo / Alla nazione, il cui doppio titolo inizialmente ti
spiazza; non riesci a capirlo. Poi guardi il nome dell’autore e la
fotografia di copertina, di Antonio Maugeri, che blocca, in un
devastante bianco e nero, il mucchio quasi informe dei resti fracassati
di barconi di immigranti – che non si sa se poi siano riusciti a
diventare anche immigrati – a Lampedusa. E allora ti rendi conto di non
aver mai visto una copertina così esplicita, così innamorata dell’uomo,
così accusatrice nei confronti di chi continua a pensare che parte
importante della propria vita sia anche il sopraffare gli altri.
Leonardo Zanier, scrittore e poeta di Maranzanis, in Svizzera da più
di mezzo secolo, ancora una volta alza la sua voce per ricordare cos’è
in realtà l’emigrazione; che è uguale in ogni tempo e in ogni parte del
mondo come sempre uguali sono gli esuli alla ricerca di lavoro, di cibo,
di pace, di salvezza. E capisci anche che quel “Allora vi diciamo” è la
necessità, l’obbligo di raccontare questa uguaglianza tra diversi e che
quel “Alla nazione” non è una pretenziosa e presupponente imposizione
declamatoria, ma una disperata speranza che davvero tutti ascoltino, se
non le parole di questo libro, almeno i sentimenti, i fatti, le
emozioni, i ragionamenti che gli danno sostanza, e che si trovano
dappertutto, dovunque un uomo fronteggi un fatto con la capacità di
aprirsi non solo agli altri, ma soprattutto a se stesso; con il
pressante invito a tutti a ricordare sempre che, come dice Leo,
«diventare bianchi dopo essere stati i marocchini d’Europa, è l’ebbrezza
che può allontanare la ragione dalla realtà».
Questa ebbrezza potrebbe far tornare alla memoria “L’orda”, il libro
di Gian Antonio Stella, ma il lavoro di Zanier è completamente diverso
nella scelta degli assunti di partenza, anche se porta ai medesimi punti
di arrivo in quanto entrambi giungono alla conclusione che qualunque
emigrante merita rispetto innanzi tutto perché è un uomo e poi per il
carico di dolore, per le valigie di tristezza e sofferenza che porta con
sé.
Però potremmo dire che Stella arriva a questa conclusione scegliendo
di partire da un profilo basso e cioè dimostrando che per noi è un
imperativo morale quello di rispettare e aiutare coloro che cercano
rifugio e lavoro nel nostro Paese perché anche noi italiani, fino a
qualche decennio fa, eravamo come loro, accusati di una supposta
inciviltà. Zanier, invece, arriva alla medesima conclusione partendo da
un assunto più alto: dalla condanna di ragionamenti e scelte che si
basino su graduatorie di presunte civiltà, o inciviltà, mentre si deve
pensare esclusivamente a quella che chiamia-mo umanità, con i suoi
diritti e le sue sensibilità. Stella, insomma, ragiona tenendo conto
della massa di persone costrette a lasciare la loro patria; Zanier
appunta la propria attenzione su ogni individuo ribadendone la piena
dignità a prescindere da dove viva, dal lavoro che faccia, dalla sua
cultura, o dal denaro che abbia in tasca.
Zanier – e non servirebbe neppure ricordarlo – è l’autore di “Libers…
di scugnî lâ” (Liberi… di dover partire), un ma¬nifesto più che un
titolo; una frase che ha accompagnato la vita di centinaia di migliaia
di persone che vi si identificano, che sentono assolutamente loro questa
splendida sintesi di parole che racchiudono costrizione e necessità,
rabbia e rassegnazione di chi va e di chi rimane, speranza e magone. In
pratica è un mondo intero – quello dell’emigrazione – che nei primi
anni Sessanta comincia a emergere da un mare di luoghi comuni con l’uso
di quattro parole soltanto. Si passa da un’emigrazione rassegnata a
un’emigrazione arrabbiata, che vuole eliminare se stessa cancellando le
cause che la provocano e i dolori che da essa sono provocati.
E ancora oggi, a distanza di decenni, Zanier si indigna davanti ai
soprusi commessi da coloro che pretendono braccia e non vogliono uomini
ed è ben conscio che le ingiustizie possono essere cancellate soltanto
con la resistenza, non solo di coloro contro i quali i soprusi si
compiono, ma anche e soprattutto di coloro che vedono quello che succede
e che sono tenuti a far di tutto per impedirlo. Per solidarietà, ma
anche perché la distruzione della dignità altrui finisce sempre per
distruggere pure la dignità propria.
Quando un essere umano si sente obbligato a lasciare la propria casa e
andare lontano, lo fa soltanto perché costretto dalla necessità, da
fame, guerre, torture, persecuzioni, scarse possibilità di
sopravvivenza. E, facendolo, porta con sé non soltanto il fardello del
suo dolore, ma anche – e forse ancor più pesante – quello del dolore di
coloro che restano a casa: mogli, figli, genitori, amici, altri parenti.
In questa visione la mitologia del lavoro perde significato e
pregnanza, che vengono acquisiti invece dalle realtà della lontananza,
della lacerante e macerante separazione. Perché fare il minatore di
carbo¬ne a Marcinelle non era molto diverso dal fare l’estrattore di
zolfo in Sicilia. Perché andare a cavare sale sulle coste della Camargue
non era molto diverso dal fare il bracciante agricolo nei latifondi
dell’Italia meridionale. Perché soffiare il vetro in Francia non era
molto diverso da quello che ancora si fa non più nelle vetrerie, ma
ancora nelle fonderie, reggendo lunghe canne che si bruciano e
consumano mentre vengono eliminate le bolle d’aria dalla rovente pasta
di ghisa fusa. Perché attraversare su un bastimento l’oceano Atlantico
non era molto diverso dall’andare a pesca su malandati barconi nel
tempestoso canale di Sicilia, o nel non meno inquieto canale d’Otranto.
Lo stucchevole martirologio dell’emigrante portato avanti da certa
letteratura della prima parte del ventesimo secolo, insomma, non ha
senso se riferito alla differenza del lavoro. Perché il lavoro è stato
drammaticamente pesante dappertutto, specialmente negli anni della
massima diaspora italiana: era uguale in Italia e in Francia, in Marocco
e in Svizzera, negli Stati Uniti e in Argentina, in Germania e in
Belgio, in Lussemburgo e in Australia. Quello che cambiava – e che
cambia ancora oggi – è il peso che questa gente si porta nell’anima,
perché oltre a portare su di sé il fardello delle lontananze, delle
laceranti separazioni dagli affetti, della perdita delle abitudini più
rassicuranti, deve sopportare anche la non accettazione, il pregiudizio,
il sospetto.
Quello che è davvero diverso, insomma, non si colloca durante il
lavoro, ma si sostanzia alla fine del lavoro: quando si esce dalla
fabbrica, o dal campo, e non si ritorna a casa, ma si apre la porta di
una baracca; non si rientra in famiglia, ma ci si mescola a un gruppo di
colleghi altrettanto stanchi e intristiti; non si vedono le proprie
pianure, le montagne, i campi, le foreste, o i deserti, ma si guardano
paesaggi alieni che non si desidera continuare a vedere per tutta la
vita.
E c’è un cambiamento importante anche dove si viveva prima
dell’emigrazione: riguarda l’impoverimento della propria terra. Un
impoverimento importante e che non è economico, perché le rimesse
fruttano una sia pur piccola quantità di denaro che da la possibilità di
lenire certe piaghe di un’indigenza assoluta, di una povertà che si può
vedere, toccare, annusare. Parlo di un impoverimento umano, morale e
sociale, perché quando molti uomini e donne se ne devono andare, viene a
mancare la possibilità di avere da loro un apporto emozionale, etico,
solidaristico e intellettuale. Perché intellettuale non indica solo
qualcosa di molto raffinato, ma la capacità dell’intelletto di elaborare
ragionamenti e sensazioni che possono andare ad arricchire il pensiero
altrui, a fertilizzare zone di umanità che altrimenti rischierebbero di
restare sterili.
"Allora vi diciamo / Alla nazione" è un libro di prose e di poesie,
una collezione di brani e di liriche di diverse epoche che, insieme,
restituiscono l’immagine di realtà non travisate dalle parole, dalle
propagande, dalle insicurezze. Zanier dona a se stesso – e a tutti, di
qualunque nazione, pelle e lingua siano – anche le immagini di desolante
umiliazione iniziale perché ancora più forte sia la gioia di essere
arrivati dove si riesce ad arrivare. E ti racconta del suo primo viaggio
di emigrazione verso Zurigo, nel 1956, quasi una fuga dal Friuli ancora
ferito dalla guerra, senza lavoro, senza speranza, quando alla
frontiera di Chiasso la polizia svizzera lo fece scendere dal treno e
mettere «in fila, in mutande, con il passaporto in mano».
Ma Leo riesce a donare dignità a tutti i poveri vaganti con la
domanda: «Quanti Ulisse ci saranno e ci sono stati nel mondo?». Eppure
Ulisse non era uno straccione, ma un re. Eppure non cercava lavoro, ma
conoscenza. Allora cosa unisce l’Ulisse di Itaca ai diseredati che
vediamo respinti, obbligati in lunghe file, imprigionati? Li unisce la
speranza e la disperazione, il rifiuto e la testardaggine, lo
sfruttamento e l’anelito al riscatto. A prima vista si tratta di un
Ulisse più omerico che dantesco perché obbligato più che curioso. Ma a
ben guardare ci si accorge che entrambi sono emblemi dell’orgoglio umano
che rifiuta la sottomissione a qualsiasi cosa, anche al fato, anche
agli dei, pur di salvare le due uniche ricchezze che davvero possediamo:
la nostra dignità di esseri umani e l’amore per i nostri cari. E la
coscienza che, com’è scritto nel libro, «Domani / non è una parola /
domani è la speranza / non abbiamo che lei / usiamola / facciamola
diventare / mani / occhi / rabbia / e vinceremo la paura».
E Zanier – grande coniatore di parole, ruvide come la sua voce,
precise come il suo pensiero – attacca ancora certi concetti come quello
di “identità” cui aveva già dedicato una caustica poesia. Sottolinea
che nell’attraversare le frontiere non devono importare la lontananza,
le lingue diverse, le culture che non si assomigliano; non devono
importare perché non esistono società ideali ed esemplari da imitare
senza porre domande e instillare dubbi; perché in realtà sono gli uomini
a fare la storia e a comporre queste società in continuo divenire,
mescolando identità in apparenza inconciliabili, amalgamandole
perfettamente anche se sembrano soltanto emulsionabili, come succede per
l’olio e l’acqua che, loro sì, resteranno sempre distinguibili tra
loro.
Perché identità è una parola che può tranquillizzare, ma anche
spaventare e che, nella sostanza, è totalmente vuota e ben disposta a
farsi sostanziare da chi la brandisce a proprio comodo, quasi sempre
quando serve a innalzare un falso muro utile per dividere uomini e donne
con un razzismo che, pur se non esplicito, è spesso sotterraneo. E, per
dimostrarlo, Zanier ricorda il nonno di un amico nato a Cjauret che è
poi Caporetto, ma anche Kobarid, ma anche Karfreit: «un nome in quattro
lingue». Nonno che nasce austriaco e si ritrova italiano pur avendo
combattuto nell’esercito austro-ungarico, ma nel 1946 la sua carta
d’identità è jugoslava anche se si è trovato in armi contro la
Jugoslavia nell’esercito italiano. Muore prima di diventare sloveno
senza essersi mai allontanato nella casa dove la storia lo aveva sempre
raggiunto.
Personalmente credo molto all’intangibilità delle ricchezze cultuali e
non credo affatto all’intangibilità delle identità culturali. Non ci
credo dal punto di vista spaziale, perché normalmente l’identità viene
identificata con una porzione geografica di spazio e questa divisione
funziona poco perché accoglie altre cosiddette identità ed esporta
proprie identità vivendo fortunatamente, quindi, in una feconda
contaminazione perenne, indotta o subita che sia. Né mi convince dal
punto di vista temporale: basta soffermarci per un momento sugli aspetti
esteriori della religiosità e pensare come quella delle nostre vecchie
di qualche decennio fa assomigli in maniera fortissima a quella
dell’islam non integralista di oggi.
Credo profondamente, invece, a due identità, queste davvero
contrapposte: quella dei cittadini e quella dei sudditi. Sono le uniche
identità che sopravvivono in qualunque condizione e che mi sembrano
immutabili con il passare degli anni e anche con il passare dei
chilometri.
E un discorso simile riguarda anche quelle lingue che rivestono un
ruolo di patria per profughi e emigranti e che quindi vanno sostenute e
rispettate, ma non sacralizzate con l’intangibilità perché altrimenti le
parole vengono congelate, mentre devono continuamente arricchirsi e
modificarsi fino a dare vita a lingue nuove fatte di vocaboli rapiti a
decine di lingue diverse e poi mescolate, smussate, unite e cambiate
fino a creare una delle tante lingue creole esistenti al mondo. Perché, a
ben guardare, tutte le lingue sono creole, sono nate così; un po’ per
invenzione e un po’ per caso. E noi che viviamo in zone di confine
dovremmo saperlo meglio di altri perché le tracce lasciate da questi
meticciamenti sono tante e profonde nei vocabolari che usiamo, anche se
quasi mai appaiono nelle regole sintattiche che queste parole uniscono
per dare forma comprensibile ai nostri pensieri.
E allora appare evidente che, pur nella lontananza, non sono
importanti le lingue diverse, le culture che poco si assomigliano; non
importano perché – checché ne dica qualche tronfio politico e agitatore
di popoli – non esistono società esemplari da imitare senza critiche e
correzioni. Ma per fortuna esistono altri uomini che apparentemente
hanno meno potere, ma sono quelli che fanno la storia, intesa come
progresso dell’umanità.
Le parole di Zanier sottolineano che nella vita di chi emigra
cambiano lingue, religioni, dialetti, cibo, convenzioni sociali. Ma i
ricordi restano. Come resta, anche se spesso inespressa, la domanda
«Parcè a mi Signor?», perché proprio a me, mio Signore, che lo scrittore
pone sulla bocca una donna abbandonata dal marito emigrato, ma che può
toccare ogni disperato.
E inopinatamente tornano anche altri ricordi dimenticati. A Leo
questo succede perché le polizie in tutto il mondo diffidano di coloro
che sanno dire «No. Non sono d’accordo». E che cercano di far crescere
una simile coscienza anche negli altri, di far ritrovare la dignità ai
rassegnati. E allora le polizie controllano e spiano nel nome della
sicurezza nazionale. Non succede soltanto agli emigrati all’estero, ma
anche in Italia. Sareste stupiti di vedere le dimensioni dei fascicoli
intestati a coloro che nel ’68 e anni successivi hanno partecipato alle
contestazioni studentesche.
In Svizzera nei primi anni Novanta il governo decide di eliminare
tonnellate di rapporti segreti dei possibili sovversivi e di regalare
agli spiati il lavoro delle spie. E così Zanier, inguaribilmente
curioso, si fa spedire la cronaca di una porzione di vita di¬menticata. E
torna a ricordare con chi aveva cenato la sera dell’8 gennaio 1963, la
prima sera in cui la polizia l’aveva seguito. E tornano immagini,
chiacchiere, amici perduti, amori passati, marce della pace,
manifestazioni sindacali e sociali. È una quantità di materiale che non
fa male all’emigrato, ma sbriciola definitivamente la pur fittizia
credibilità della xenofobia.
Ma la xenofobia fa ancora rabbrividire pensando che non raramente
riesce a rivivere proprio in coloro che l’hanno subita o nei loro figli
che trattano con la durezza del giogo dell’egoismo della Lega coloro che
oggi vengono a chiedere aiuto. Una xenofobia di interesse che pretende
di far adottare le regole di quella stessa diffidenza che una volta li
ha fatti sentire cittadini di qualità inferiore in paesi lontani. Una
xenofobia che predica indifferenza, o addirittura soddisfazione nel
vedere respingere coloro attraversano il Mediterraneo su carrette
condotte da sfruttatori e assassini. Una xenofobia che pretende di veder
rinchiudere i disperati in campi di identificazione che in realtà sono
vergognosi campi di detenzione per chi non ha commesso alcun reato e da
cui gli esuli vengono rispediti in molti casi forse incontro alla morte.
Una xenofobia che rinnega le antiche e sacre leggi dell’ospitalità.
E non è un caso che questa presentazione si svolga al Centro
Balducci, dove gli incontri non sono tra ospitanti e ospitati, ma tra
uomini, costretti a soffrire, ma capaci anche di aiutare tenendo sempre
questo modo di essere come una bussola interiore che indica
costantemente una specie di stella polare etica in cui la cosa più
importante da tener presente è l’uomo. Non soltanto nell’emigrazione,
ma in qualunque circostanza, in tutto quello che in questo mondo succede
e che può fare intristire, piangere, disperare.
“Allora vi diciamo / Alla nazione” è un libro da leggere lasciandosi
penetrare da parole che sono taglienti come rasoi, che sono meditate e
incontrovertibili perché distillate attraverso l’esperienza personale di
Leo Zanier che ha saputo diventare qualcuno in un ambiente ostile non
per gloriarsi di risultati personali, ma per fare rispettare se stesso
attraverso il riconoscimento che il rispetto è dovuto a qualsiasi essere
umano. E così, facendo rispettare se stesso, è riuscito a far
rispettare dalla maggioranza dei residenti storici qualunque immigrato,
qualunque nuovo cittadino.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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