In questo
governo – come, del resto, in quello precedente – non manca soltanto il
rosso, inteso come ormai negletto colore emblematico della sinistra, ma
manca anche quel rossore che è la tipica reazione somatica che svela la
vergogna. E non perché siano i vasi capillari delle guance dei ministri a
essere insensibili agli stimoli di un cervello che entra in crisi
perché si rende conto di aver fatto qualcosa che non andava, ma in
quanto è proprio la vergogna a mancare.
«O vergogna, dov’è il tuo rossore?»,
faceva dire ad Amleto William Shakespeare. E, a dire il vero, il
rossore sulle guance di Giuliano Poletti, ministro del Lavoro (che
fatica definirlo così) appare. Ma, in realtà appare sempre, tanto che si
può tranquillamente dire che dipenderà da altri fattori fisici, ma non
certamente dalla vergogna. Anche perché quel colore non si è rafforzato
nemmeno di una minuscola sfumatura quando – come gli succede spesso – si
è lasciato scappare quello che pensa davvero: «Mi sembra che
l’atteggiamento prevalente sia quello di andare a votare presto, quindi
prima del referendum sul Jobs act. E se si vota prima del referendum –
ha detto riferendosi alla consultazione popolare contro l’attuale
legislazione sul lavoro – il problema non si pone. Diventa ovvio che per
legge l’eventuale referendum sul Jobs Act sarebbe rinviato».
Infatti se le Camere venissero
sciolte, com’è previsto dalla legge che regola l’istituto referendario,
la consultazione sarebbe rinviata a 365 giorni dopo le elezioni, per
evitare una sovrapposizione delle campagne elettorali. In caso contrario
la Corte costituzionale, che l’11 gennaio si esprimerà
sull’ammissibilità dei quesiti, potrebbe fissare la data del voto tra il
15 aprile e il 15 giugno.
Poi, in serata – sempre come spesso
gli succede – Poletti ha tentato maldestramente di rettificare: «Le mie
affermazioni non sono altro che l’ovvia constatazione che, qualora si
andasse a elezioni politiche anticipate, la legge prevede il rinvio del
referendum. È un’ipotesi che non ho invocato io». E, alla fine, quando
si è reso conto che la sua posizione è indifendibile, ha tentato di
disinnescare un problema per il governo Gentiloni assumendosi ogni
responsabilità: «Le mie frasi sono una scivolata personale».
Ma è davvero difficile accettare
questa tesi perché questo governo Gentiloni è troppo simile a quello
precedente per lasciar ipotizzare che possa pensarla in maniera diversa
su quel capolavoro di fabbrica di ulteriori disparità sociali che Renzi
ha orgogliosamente annoverato tra i suoi più scintillanti successi e
contro il quale la Cgil ha raccolto oltre tre milioni di firme. Ed è
anche difficile credere che potrebbe avere successo una nuova campagna
per non far andare i cittadini alle urne, come hanno sciaguratamente
fatto Renzi e buona parte del PD in occasione del referendum sulle
trivelle.
Questa volta i quesiti referendari
puntano a cancellare la modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei
lavoratori e quindi la possibilità di licenziamento senza giusta causa;
ad abrogare le disposizioni che limitano la responsabilità in solido di
appaltatore e appaltante, in caso di violazioni nei confronti del
lavoratore; e a eliminare quei voucher che hanno reintrodotto una forma
di schiavitù in cui il lavoratore lo puoi comprare al tabacchino proprio
per il tempo che ti serve, o anche meno, visto che puoi far apparire e
far valere i voucher soltanto nel momento in cui sembra pericoloso
continuare a far lavorare donne e uomini – chiamiamoli sempre così,
perché il termine “lavoratori” ormai è diventato disumanizzante – in
nero.
Poletti, però, ha avuto
involontariamente il merito di aver riportato in primo piano gli
argomenti “lavoro” e “referendum” che le polemiche sul trapasso dal
Renzi al Renzi bis avevano relegato in secondo, o terzo piano. E ha
fatto capire almeno due cose: la prima è che il PD renziano ha paura di
una nuova debacle referendaria e che, quindi, non ha interesse a far
finire la legislatura, ma, anzi, di farla concludere al più presto; la
seconda consiste nel fatto che Renzi e i suoi non pensano minimamente di
correggere – e potrebbero farlo in breve, almeno su alcuni punti – una
legge che non ha neppure una caratteristica del pensiero di sinistra,
perché di sinistra quel governo (questo governo) non è.
Davanti a queste considerazioni
potrebbe sembrare che quel rossore mancante sia soltanto un dettaglio
secondario nel quadro generale. E, invece, credo sia un aspetto
importantissimo perché un rossore, come un pianto, non cancellano gli
errori eventualmente fatti in precedenza, ma assicurano una certa dose
di quell’umanità che è comunque necessaria per discutere da posizioni
diverse con la speranza di incontrarsi in un qualche punto mediano della
strada. Se manca anche il rossore, ci si rende conto che ci si trova
soltanto di fronte a una specie di automa, a qualcuno che ritiene che il
suo unico scopo – senza mai sforzarsi di pensare in proprio – sia
quello di arrivare dove gli hanno detto che si doveva arrivare. E che
magari, a sconfitta avvenuta, tenterà di togliersi dalle spalle le
proprie responsabilità ripetendo quella frase che troppe volte ha
ammorbato l’aria che respira questa umanità: «Non ho fatto altro che
obbedire agli ordini».
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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