Questa
riflessione voleva ragionare sul trionfalismo di Renzi («Cinque regioni a
due è un ottimo risultato»), dei due vicesegretari del PD che hanno
ripetuto lo stesso concetto e di alcuni dei fedelissimi che, però, per
la maggior parte, questa volta hanno indicativamente preferito tacere.
Voleva riflettere sui dati (pur con qualche dubbio legato
all’assimilazione, o meno, di alcune liste) portati da Stefano Fassina:
«Abbiamo perso in valore assoluto 600 mila voti rispetto alle Regionali
del 2010 e oltre la metà dei voti rispetto al dato del 2014». Intendeva
mettere in luce alcune situazioni particolari, come quella della Liguria
in cui una fetta del PD ha preferito votare Pastorino piuttosto che la
Paita che aveva vinto le primarie con il determinante aiuto di Scajola e
di parte del centrodestra; come quella dell’Umbria, regione da sempre
rossa, dove la vittoria è arrivata soltanto sul filo di lana; come
quella del Veneto in cui Alessandra Moretti non è riuscita a raggiungere
nemmeno la metà dei voti di Zaia; come quella della Campania dove del
41,2 per cento dei votanti che hanno fatto vincere l’impresentabile De
Luca soltanto il 19,6 appartiene al Partito Democratico propriamente
detto.
Voleva ragionare su queste cose, ma
la realtà dei numeri impone di pensare a un aspetto decisamente più
grave e, cioè al dilagare della Lega di Salvini che, in cifra assoluta,
ha guadagnato oltre 200 mila voti con exploit preoccupanti non soltanto
in Veneto, ma anche in Liguria e Toscana e buoni risultati pure in
Umbria e nelle Marche. Cosa decisamente più preoccupante perché
significa un aumento di aliofobia, razzismo, antieuropeismo ed egoistico
campanilismo, perché corrisponde a un dilagare di quel virus che
rischia di corrodere lo spirito su cui è stata fondata quella Repubblica
di cui proprio oggi si festeggia il sessantanovesimo compleanno e di
stravolgere quella Costituzione grazie alla quale è cresciuta.
Credo che il commento più lucido che
ho sentito sulle elezioni di domenica appartenga a Sergio Cofferati che
ha detto che il percorso che ci aspetta per ritrovare i valori fondanti
della nostra democrazia sarà difficile e lungo, che occorrerà avere
pazienza, ma che questo percorso sarà inevitabile; che non ci sono
scorciatoie per riconquistare tutto quello che in questi ultimi decenni
abbiamo perduto.
Infatti, fermarsi a considerare il
numero delle vittorie nelle regioni è superficiale e dimostra che
interessa soltanto la conquista del potere e non il convincere la gente
della bontà dei propri progetti; trascurare il numero dei voti ottenuti
per rifugiarsi esclusivamente nella valutazione delle percentuali indica
un evidente disprezzo per il valore della democrazia, oltre che una
colpevole sottovalutazione dei propri errori; affermare – come ha fatto
Renzi in occasione del flop di affluenza alle regionali emiliane – che
la disaffezione dei cittadini alle urne non è importante è una rinuncia
alla dignità della politica.
L’unica strada per uscire da questo
cul de sac nel quale ci siamo cacciati è tornare a fare politica,
appunto, nel senso vero del termine, cioè cercare il bene della polis; è
riprendere a esprimere le proprie idee chiaramente, senza annacquarle, o
addirittura stravolgerle, in continuazione, allo scopo di lucrare
qualche vantaggio elettorale; è tornare a creare e a diffondere
soprattutto tra i giovani quella cultura politica e soprattutto sociale
distrutta da anni di devastazioni comunicative; è riprendere a
considerare i propri valori e stabilire le vicinanze e le lontananze
dagli altri soltanto in base alle vicinanze e alle lontananze con i loro
valori. È far capire alla gente questo modo di essere senza cercare
continuamente di addossare agli altri le colpe delle proprie incapacità e
dei propri insuccessi perché, o per opere, o per omissioni, di questa
situazione – non possiamo negarlo – siamo colpevoli tutti.
Buona festa della Repubblica. Ma soltanto se ci tenete davvero.
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