Questa volta vorrei non parlare di Berlusconi: per lui mi limito a segnalare che quel signore, dopo aver incentivato per legge il gioco d’azzardo via internet, è entrato anche in quel giro di affari creando un altro gigantesco conflitto di interessi.
Questa volta vorrei cominciare un ragionamento – anzi, se possibile, un dialogo – sul PD. E vorrei cominciare da quello che è accaduto alla Leopolda di Firenze dove Matteo Renzi ha radunato i “rottamatori” dando una poderosa mano a innalzare il tasso di litigiosità all’interno di un partito che dovrebbe vincere a mani basse le prossime elezioni purtroppo non tanto per la bontà dei programmi propri, quanto per l’impresentabilità di quelli altrui.
Devo confessare che il personaggio non mi è particolarmente simpatico perché mandare a casa delle persone soltanto guardando la carta d’identità, o il numero dei mandati, senza preoccuparsi della qualità di quelle persone, mi sembra una evidente generalizzazione che, come tutte le generalizzazioni e le eccessive semplificazioni, è una pericolosa sciocchezza che, tra l’altro, si dimostra tale già in alcune frasi pronunciate da Renzi stesso. Eccone una: «La storia nuova la scrivono i pionieri e non i reduci», dimenticando evidentemente che la nuova storia dell’Italia democratica è stata scritta nella Costituzione dai reduci della Resistenza e che sono stati i pionieri delle “novità” sociali a tentare di riportarci a quella storia vecchia, evidentemente dimenticata da troppi, ma altrettanto evidentemente mai morta.
Ma su almeno una cosa con Renzi sono d’accordo e confermo quello che ho già scritto qualche commento fa: i politici si occupano di alleanze, ma agli elettori interessano i programmi, o, meglio, gli obbiettivi.
E vedo di andare oltre rilevando che non sono pochi coloro che individuano una delle cause delle difficoltà del centrosinistra nella mancanza di “leadership”. Io, invece, sono convinto che quello che serva – e scusate il neologismo che faccio mio mutuandolo da Claudio Scarpa, pensatore ancor prima che teatrante – sia una “teamship”.
La crisi di leadership, infatti, può anche essere vera, ma vedo questa affermazione come uno dei modi per tentare di lavarsi mani e coscienza. In questo modo, infatti, ognuno può dire: «Quello che succede non è colpa mia, perché io non posso essere un leader in quando non ne ho la statura, la prearazione, la cultura e, se i leader a disposizione sono davvero scarsetti, se non del tutto impresentabili, non posso farci niente». Se invece la crisi è di “teamship”, allora la cosa mi riguarda perché nel team, nel lavoro di gruppo, c’entro anch’io; perché sono chiamato anch’io, comunque e sempre, a dare il mio contributo. E se non lo faccio sono anch’io a danneggiare la comunità.
Questa crisi di “teamship”, non è inevitabile. In Friuli una prova la si è avuta – evidente – 35 anni fa, quando un intero popolo, a prescindere da situazioni e convinzioni diverse – sociali, religiose, linguistiche, politiche – è riuscito a compiere quel miracolo che chiamiamo ricostruzione dal terremoto del 1976. E sono convinto che se in quella circostanza ci fossimo trovati nella situazione politica attuale non ne saremmo venuti fuori. E non soltanto per la caratterizzazione politica della conduzione attuale della Regione, ma perché quella volta importanti non erano i leader, bensì i team. O, meglio, i leader erano importanti perché si sentivano tali soltanto fino a un certo punto, visto che poi sapevano confrontarsi, mediare e decidere con gli amici e con gli avversari. Mentre oggi di questi tre verbi resta vivo – e non sempre – soltanto il terzo.
Credo che siano molte le cose che hanno portato a questa situazione, ma che quella più importante, anche se i più lo vedono come un ininfluente tecnicismo, sia stato il passaggio dal proporzionale al maggioritario, perché con il proporzionale e con quelle coalizioni non corazzate che obbligava a fare, gli amministratori della cosa pubblica erano obbligatoriamente abituati a confrontarsi, a discutere, a mediare – che poi è la vera essenza della democrazia – ed erano anche costretti a capire il vero pensiero dell’altro, a saperne cogliere le cose buone e a buttare quelle cattive. Oggi ogni valutazione finale sulle cose da fare è demandata soltanto al conteggio della quantità di voti che si hanno a disposizione.
Quella volta, insomma – visto che cultura è andare a fondo nelle parole, capire ed elaborare – si è fatta vera cultura facendo vera politica. E questo è importantissimo perché sono convinto che quella che stiamo attraversando non sia soltanto una crisi economica, ma, soprattutto, una crisi culturale. E come si può uscire da una crisi culturale senza cultura? Soprattutto pensando che la caratteristica principale della cultura è la responsabilità e non la voglia di apparire.
Un'ultima cosa: sono perfettamente d'accordo sul fatto che come deve sparire il berlusconismo, così deve sparire l'antiberlusconismo. Ma non prima di un minuto dopo che il berlusconismo sarà scomparso dalla faccia dell'Italia.
Nessun commento:
Posta un commento