Di grossi
problemi reali ce ne sono in abbondanza: la crisi economica, quella
occupazionale, il crollo etico di una nazione in cui sono troppi quelli
che preferiscono veder morire annegati uomini, donne e bambini piuttosto
che rischiare di poter essere in qualche modo disturbati nelle loro
abitudini, una giustizia che attende da decenni una riforma che renda
meno importante la capacità di spesa nella scelta dell’avvocato o del
collegio di difesa, una sanità che torna a essere sempre più
differenziata tra ricchi e poveri. E potrei andare avanti ancora a
lungo.
Eppure sono altre due le questioni
che sembrano essere diventate vitali tanto da avere la precedenza sulle
altre: ridurre i parlamentari e dare il voto ai sedicenni. Sono davvero
importanti? Assolutamente no, ma si inquadrano benissimo nella scia di
quel populismo che ormai da anni sta dominando la politica italiana e
che, grazie a Salvini e Di Maio, ha raggiunto vertici drammatici. Questa
volta il populismo assume aspetti più morbidi, ma ugualmente
perniciosi; anzi, forse ancora di più perché rischiano di incidere sulla
carta fondamentale che regola la nostra democrazia, la Costituzione, e
di disequilibrarla con effetti dirompenti per il futuro.
Il taglio dei parlamentari è
l’ultimo cavallo di battaglia di Di Maio che mira a realizzarlo
confidando nel fatto che nessun altro partit avrebbe il coraggio di
andare esplicitamente contro una proposta demagogica buona per ogni
stagione in cui si punta a far emergere il risentimento dei cittadini
contro la cosiddetta “casta”. Ma questa volta è la stessa “casta” ad
attaccare la “casta” e non certamente per una sete di giustizia che
potrebbe essere placata in molti altri modi.
Di Maio, infatti, dice che,
cancellando 345 tra deputati e senatori, si risparmierebbero 100 milioni
l’anno: anche fosse vera questa cifra (e l’Osservatorio di Carlo
Cottarelli la riduce a 60 milioni) resterebbe comunque una frazione
infinitesimale in un bilancio dello Stato. Un risultato molto vicino lo
si otterrebbe riducendo di un terzo l’ammontare di stipendi e benefit
che ai parlamentari toccano. Ma chi di coloro che oggi sono chiamati al
voto accetterebbe di vedersi ridurre drasticamente lo stipendio dal
prossimo mese?
Parlare dei “costi della politica” è
da anni la via più facile per ottenere consenso, apparire dalla parte
del popolo, e cavarsela facilmente senza toccare i veri mali che
prosciugano le casse dello Stato. Ma non è economico lo stimolo che
muove la Casaleggio Associati e altri personaggi ancora in cerca di
visibilità: è soltanto politico.
Se il taglio divenisse effettivo,
avremmo un deputato ogni 150 mila abitanti e un senatore ogni 300 mila e
una riforma di questo tipo distruggerebbe anche quel che resta del
principio di rappresentatività territoriale, trasformando ancor di più
il parlamentare in una diretta emanazione del leader centrale in un
mondo che sembra sempre più dipendente dal carisma e dalla forza di chi è
al comando e che, in questo modo diventerebbe ancora più potente e
determinante per chi vuole fare politica. Combinate questa
considerazione con la proposta di istituire il vincolo di mandato e con
la piattaforma Rousseau e vedrete realizzato il sogno di Casaleggio che,
in realtà, è l’incubo peggiore per chi crede nella democrazia. Il
Parlamento, infatti, diventerebbe un inutile simulacro da lasciare lì
per scopi di dissimulazione, ma la politica con le sue decisioni
diventerebbe sempre di più un affare privato tra i pochi che possono
disporre del numero di voti necessari a prendere le decisioni. Niente
più discussioni, niente più valutazioni di chi è esperto in qualcosa, ma
soltanto propaganda e voto telematico senza neppure un reale controllo
della sua corrispondenza con la realtà.
E adesso guardiamo al voto ai
sedicenni per concedere il quale non servirebbe cambiare la Costituzione
che, all’articolo 48, recita: «Sono elettori tutti i cittadini, uomini e
donne, che hanno raggiunto la maggiore età». Quindi basterebbe cambiare
ancora una volta, con legge ordinaria, il limite, che una volta era di
21 anni, portandolo, in questo caso, da 18 a 16.
Tutto risolto? No, perché intanto
diventerebbe evidentemente incongruo l’articolo 58 che dice che i
senatori sono scelti «dagli elettori che hanno superato il
venticinquesimo anno di età». Ma, soprattutto, cambierebbero molte altre
cose nella vita di tutti i giorni. La maggiore età a 16 anni, infatti,
cancellerebbe molte delle tutele genitoriali due anni prima e, con esse,
cambierebbero non poche responsabilità penali. Inoltre cadrebbero anche
alcuni divieti, come quello di vendere alcolici ai minori di 18 anni. E
l’alcolismo tra i giovanissimi è già oggi una fonte di disperazione.
Tutto questo perché gli attuali
segretari, o cosiddetti capi politici dei partiti, sperano di guadagnare
qualche voto il più, magari cavalcando l’ondata ambientalista che vede i
più giovani tra i maggiori protagonisti, oppure confidando in una loro
maggiore influenzabilità per ancora carenti conoscenze. E il dubbio non è
peregrino se si considera che la spinta di dare il voto ai sedicenni
arriva subito dopo che è stata almeno temporaneamente depotenziato
l’insegnamento della storia, dopo aver praticamente cancellato quello
della geografia.
Ci si potrebbe rassegnare a veder
andare in briciole i principi su cui si fondano le democrazie e tutto
questo tra gli applausi di un Paese che vede nella politica il male
assoluto, senza capire che cancellando la politica si cancella anche la
democrazia. Ma già una volta, tre anni fa, gli italiani hanno dimostrato
di essere più maturi dei partiti al potere ed è proprio in loro che va
riposta la speranza. Sarà difficile e faticoso, ma prepariamoci a
lavorare per un altro referendum costituzionale da vincere a ogni costo
per assicurare la democrazia, pur con tutti i suoi difetti, anche ai
nostri figli e ai nostri nipoti.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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