sabato 5 ottobre 2019

Populismi morbidi ma perniciosi

Di grossi problemi reali ce ne sono in abbondanza: la crisi economica, quella occupazionale, il crollo etico di una nazione in cui sono troppi quelli che preferiscono veder morire annegati uomini, donne e bambini piuttosto che rischiare di poter essere in qualche modo disturbati nelle loro abitudini, una giustizia che attende da decenni una riforma che renda meno importante la capacità di spesa nella scelta dell’avvocato o del collegio di difesa, una sanità che torna a essere sempre più differenziata tra ricchi e poveri. E potrei andare avanti ancora a lungo.

Eppure sono altre due le questioni che sembrano essere diventate vitali tanto da avere la precedenza sulle altre: ridurre i parlamentari e dare il voto ai sedicenni. Sono davvero importanti? Assolutamente no, ma si inquadrano benissimo nella scia di quel populismo che ormai da anni sta dominando la politica italiana e che, grazie a Salvini e Di Maio, ha raggiunto vertici drammatici. Questa volta il populismo assume aspetti più morbidi, ma ugualmente perniciosi; anzi, forse ancora di più perché rischiano di incidere sulla carta fondamentale che regola la nostra democrazia, la Costituzione, e di disequilibrarla con effetti dirompenti per il futuro.

Il taglio dei parlamentari è l’ultimo cavallo di battaglia di Di Maio che mira a realizzarlo confidando nel fatto che nessun altro partit avrebbe il coraggio di andare esplicitamente contro una proposta demagogica buona per ogni stagione in cui si punta a far emergere il risentimento dei cittadini contro la cosiddetta “casta”. Ma questa volta è la stessa “casta” ad attaccare la “casta” e non certamente per una sete di giustizia che potrebbe essere placata in molti altri modi.

Di Maio, infatti, dice che, cancellando 345 tra deputati e senatori, si risparmierebbero 100 milioni l’anno: anche fosse vera questa cifra (e l’Osservatorio di Carlo Cottarelli la riduce a 60 milioni) resterebbe comunque una frazione infinitesimale in un bilancio dello Stato. Un risultato molto vicino lo si otterrebbe riducendo di un terzo l’ammontare di stipendi e benefit che ai parlamentari toccano. Ma chi di coloro che oggi sono chiamati al voto accetterebbe di vedersi ridurre drasticamente lo stipendio dal prossimo mese?

Parlare dei “costi della politica” è da anni la via più facile per ottenere consenso, apparire dalla parte del popolo, e cavarsela facilmente senza toccare i veri mali che prosciugano le casse dello Stato. Ma non è economico lo stimolo che muove la Casaleggio Associati e altri personaggi ancora in cerca di visibilità: è soltanto politico.

Se il taglio divenisse effettivo, avremmo un deputato ogni 150 mila abitanti e un senatore ogni 300 mila e una riforma di questo tipo distruggerebbe anche quel che resta del principio di rappresentatività territoriale, trasformando ancor di più il parlamentare in una diretta emanazione del leader centrale in un mondo che sembra sempre più dipendente dal carisma e dalla forza di chi è al comando e che, in questo modo diventerebbe ancora più potente e determinante per chi vuole fare politica. Combinate questa considerazione con la proposta di istituire il vincolo di mandato e con la piattaforma Rousseau e vedrete realizzato il sogno di Casaleggio che, in realtà, è l’incubo peggiore per chi crede nella democrazia. Il Parlamento, infatti, diventerebbe un inutile simulacro da lasciare lì per scopi di dissimulazione, ma la politica con le sue decisioni diventerebbe sempre di più un affare privato tra i pochi che possono disporre del numero di voti necessari a prendere le decisioni. Niente più discussioni, niente più valutazioni di chi è esperto in qualcosa, ma soltanto propaganda e voto telematico senza neppure un reale controllo della sua corrispondenza con la realtà.

E adesso guardiamo al voto ai sedicenni per concedere il quale non servirebbe cambiare la Costituzione che, all’articolo 48, recita: «Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età». Quindi basterebbe cambiare ancora una volta, con legge ordinaria, il limite, che una volta era di 21 anni, portandolo, in questo caso, da 18 a 16.

Tutto risolto? No, perché intanto diventerebbe evidentemente incongruo l’articolo 58 che dice che i senatori sono scelti «dagli elettori che hanno superato il venticinquesimo anno di età». Ma, soprattutto, cambierebbero molte altre cose nella vita di tutti i giorni. La maggiore età a 16 anni, infatti, cancellerebbe molte delle tutele genitoriali due anni prima e, con esse, cambierebbero non poche responsabilità penali. Inoltre cadrebbero anche alcuni divieti, come quello di vendere alcolici ai minori di 18 anni. E l’alcolismo tra i giovanissimi è già oggi una fonte di disperazione.

Tutto questo perché gli attuali segretari, o cosiddetti capi politici dei partiti, sperano di guadagnare qualche voto il più, magari cavalcando l’ondata ambientalista che vede i più giovani tra i maggiori protagonisti, oppure confidando in una loro maggiore influenzabilità per ancora carenti conoscenze. E il dubbio non è peregrino se si considera che la spinta di dare il voto ai sedicenni arriva subito dopo che è stata almeno temporaneamente depotenziato l’insegnamento della storia, dopo aver praticamente cancellato quello della geografia.

Ci si potrebbe rassegnare a veder andare in briciole i principi su cui si fondano le democrazie e tutto questo tra gli applausi di un Paese che vede nella politica il male assoluto, senza capire che cancellando la politica si cancella anche la democrazia. Ma già una volta, tre anni fa, gli italiani hanno dimostrato di essere più maturi dei partiti al potere ed è proprio in loro che va riposta la speranza. Sarà difficile e faticoso, ma prepariamoci a lavorare per un altro referendum costituzionale da vincere a ogni costo per assicurare la democrazia, pur con tutti i suoi difetti, anche ai nostri figli e ai nostri nipoti.

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