L’avvicinarsi di
ogni appuntamento elettorale ci fa immancabilmente notare che
l’impoverimento del nostro vocabolario ci ha portato a definire con una
sola parola – “politica” – due cose, almeno in gran parte, molto
diverse: sia il darsi da fare per il bene della “polis”, sia
l’impegnarsi a raccogliere voti per sé, o per i propri vicini. Se è
vero, infatti, che serve vincere per poter poi mettere in pratica il
proprio programma, è anche incontestabile che troppo spesso si è visto
che la vittoria è diventata fine a se stessa.
Non per nulla gli antichi, che
ancora non avevano in spregio le finezze del linguaggio che ci sono
state strappate via dalla fretta che infetta ogni nostra azione, usavano
termini ben diversi. I greci, per esempio tra politica e votazione non
trovavano alcun elemento semantico comune: la prima era, ovviamente “politiké”, o “politéia”, lavoro di amministrazione della "pólis", o partecipazione a quel lavoro, mentre la seconda era “psefoforía”, cioè l’atto di portare il sassolino colorato (uno "pséfos"),
o la conchiglia, con cui si esprimeva il proprio voto, quasi sempre
molto semplice: a favore, oppure contro. I latini, invece, consideravano
le due cose apparentemente abbastanza vicine, ma, nella sostanza, ben
diverse: l’operare per il bene della comunità era detto “rei publicae administrandae ars”,
l’arte di amministrare la cosa pubblica, mentre l’azione che precedeva
il voto, quella che potrebbe essere considerata una specie di campagna
elettorale dell’epoca, era definita “rei publicae administrandae calliditas”: non più “ars”, ma “calliditas”; non più arte, nel senso di capacità, ma furbizia.
E, infatti, la storia di questi
ultimi decenni dimostra abbondantemente che definire entrambe le cose
con il medesimo termine porta a confusioni e a disastri considerevoli.
Nel suo ponderoso e labirintico “Politics” il
filosofo brasiliano Roberto Magabeira Ungher definisce la politica come
«una teoria sociale radicalmente antinaturalistica», perché – semplifico
in soldoni – mentre la natura spinge ogni individuo a operare per il
maggior bene di se stesso, la politica si pone come obbiettivo il bene
comune anteposto al proprio.
Ed è nell’imminenza delle elezioni,
durante le campagne elettorali, che le contraddizioni di queste due
realtà, diversissime ma riunite sotto il medesimo appellativo, diventano
clamorosamente stridenti e, come sempre succede, in caso di corto
circuito tra due realtà, è quella peggiore a impressionare più della
migliore.
Del resto la caccia al voto, per sé o
per il proprio partito, porta troppo spesso a dimenticare l’altro
significato della parola “politica” e a tutta un serie di fatti e
relative conseguenze. Assistiamo a promesse palesemente irrealizzabili e
poi puntualmente non mantenute; a personalismi falsamente taumaturgici e
utili soltanto a nascondere un vuoto di pensiero; ad aggravamenti
deliberati dei difetti degli avversari e a sottovalutazioni dei propri; a
quelle che oggi, in omaggio all’inglesismo imperante e nella ricerca di
possibili attenuanti future, vengono chiamate “fake news”, ma che
sarebbe giusto definire con il loro vero nome, e, cioè, truffe e
calunnie; a conflitti di interesse che soltanto coloro che ne sono
protagonisti fanno finta di non vedere; a interessi privati che sono ben
più diffusi degli atti pubblici; a rifiuti di compromessi che non sono
tradimenti dei propri ideali, ma di temporanei punti di equilibrio
possibili in attesa di nuovi avanzamenti verso l’obbiettivo prefisso. E
già questo combattere su tutto meno che sui programmi per il bene comune
sarebbe disdicevole nella battaglia tra un partito e l’altro, ma
diventa addirittura incomprensibile e intollerabile se lo scontro
divampa all’interno del medesimo schieramento.
I risultati sono sotto gli occhi di
tutti: la maggior parte degli eletti dimostra di non aver capito, o
almeno assimilato, il significato primario della parola “politica”; e
così, anche quando ha cessato di lottare, pur con successo, per il
significato secondario, continua a preoccuparsi più del bene proprio, o
degli amici, che di quello della comunità. E intanto la maggior parte
degli elettori sente distintamente di non essere più in cima ai pensieri
e ai progetti di chi li chiama a votare, ma percepisce di poter
diventare importante e utile soltanto nel momento in cui si depone la
scheda nell’urna. E, allora, preferisce starsene a casa.
Tutto questo è decisamente grave in
tutto l’arco degli schieramenti politici italiani, ma rischia di
assumere toni di drammaticità totale se investe e stravolge anche quello
che è da poco nato con il dichiarato intento di voler restituire il suo
significato profondo alla parola “politica” e dichiara che, così
facendo, punta a recuperare quei milioni di elettori che ormai non si
considerano più tali e che rischiano di veder ingrossare ulteriormente
le proprie fila.
Credo fortemente in questo progetto
politico che si propone di ricostruire una sinistra e un centrosinistra
degni di tali nomi e altrettanto fortemente mi fa inorridire la
possibilità che anche questo sogno vada a finire nell’immondezzaio delle
delusioni per colpa propria. Perché – l’ho già detto in altro
occasioni, ma vorrei ripeterlo ancora una volta – credo che ben più
importante di una sorprendente vittoria attuale in clamorosa rimonta,
apparentemente appagante ma sostanzialmente fragile, sia la costruzione
di fondamenta solide sulle quali cominciare a ricostruire quella
sinistra che forse – proprio grazie all’insipienza di Rosato, o di chi
gli ha dato ordine di dare quell’insensata forma alla creatura che da
lui prende il nome, il Rosatellum – non dovrà aspettare neppure cinque
anni per rimettersi in gioco.
Franca Valeri, con quella sua voce
tremolante, ma con quel suo pensiero lucidissimo e ben fermo, non molto
tempo fa ha detto: «Ogni tanto mi chiedo: risorgeremo da tutto questo?».
Ebbene, se potessi, vorrei tranquillizzarla – o forse farla preoccupare
ancora di più – perché la sperata resurrezione dipende soltanto da noi,
dalle nostre scelte e dalle nostre azioni. A partire proprio da come ci
comporteremo nella preparazione delle liste e soprattutto dei programmi
e nella conduzione di una campagna elettorale che dovrà parlare di
ideali, valori, utopie e progetti e ben poco di nomi.
Altrimenti ogni sassolino, ogni “pséfos”
potrebbe diventare un macigno che andrebbe ad aumentare quella massa
che già sembra sul punto di seppellire noi e i nostri sogni di
democrazia e di miglioramento sociale.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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