Riservandomi di tornare in seguito su quella benedetta ventata di passione che sta nuovamente innervando alcuni leader del Pd (può portare alla maleducazione, ma davanti all'illegalità e alla spudoratezza la maleducazione è il male minore), oggi, 6 maggio, vorrei collegarmi a un ricordo del terremoto del 1976, o, per essere più precisi, a quell’unione unica tra tutte le parti politiche che ha permesso il successo della ricostruzione e che non mai più avuto neppur pallide imitazioni nemmeno nei momenti più gravi.
Il dubbio che mi viene è – diciamo così – più antropologico che politico e riguarda la reale capacità di noi italiani di adattarci a un sistema maggioritario e bipolare. È un dubbio che nasce, appunto, ripensando alla concordia di intenti creatasi in quegli anni tra tutte le parti politiche, anche con quelle che non facevano parte di quello che allora era ancora chiamato “l’arco costituzionale”.
Forse l’avvicinarsi tra parti lontane fu facilitato dall'abitudine alla continua opera di ragionamento e smussamento degli spigoli più vivi ai quali costringeva il sistema proporzionale che obbligava anche a pensare e ragionare almeno un po', prima di dichiarare. Oggi quello maggioritario induce, invece, a confronti netti e a irrigidimenti spesso pregiudizialmente incapaci di ascoltare non soltanto la parte politica opposta, ma addirittura la voce della porzione di popolazione che a quella parte fa riferimento.
Io non credo che il valore della governabilità, in nome del quale è stato scelto il maggioritario, sia un valore al quale tutto si debba sacrificare, anche grandi porzioni di democrazia. Tenendo poi presente che il massimo della governabilità è sempre stato rappresentato da una dittatura monocratica.
Una precisazione: al referendum tra proporzionale e maggioritario ho votato per il maggioritario. So benissimo che il mio voto da solo è stato ridicolmente ininfluente sul risultato finale, ma continuo a pentirmi di avere votato così: lo considero un terribile errore di valutazione.
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