mercoledì 28 febbraio 2018

Il lavoro, grande assente

Per fortuna manca pochissimo perché si concluda questa cosiddetta campagna elettorale che, in realtà, è qualcosa a mezza via tra la propaganda pubblicitaria, con una serie di promesse mirabolanti ed evidentemente per la massima parte irrealizzabili, e un libro dei (loro) sogni, in cui si parla moltissimo di possibili future alchimie governative e addirittura di liste di ministri stilate ancor prima che il presidente della Repubblica possa cominciare a pensare a chi dare l’incarico.

Invece pochissimo si discute di argomenti di fondamentale importanza, come l’aumento iperbolico delle disuguaglianze sociali e, quindi, della povertà che è strettamente connessa – anzi, in buona parte dipendente – dalla crisi del mondo del lavoro.

Questa è l’ennesima conferma che non interessa davvero debellare la povertà perché sembra bastare soltanto non vedere i poveri allontanandoli dai centri storici cittadini. E che non interessa davvero debellare la disoccupazione perché sembra essere sufficiente giocare con i numeri dando per occupati contemporaneamente sia coloro che hanno un contratto a tempo pieno e indeterminato, sia quelli che riescono a lavorare, e spessissimo con una retribuzione assolutamente non dignitosa, soltanto poche ore al mese.

Lo facciamo perché la vista dei poveri e dei disoccupati è un atto di accusa per noi stessi che non siamo stati capaci – direttamente, o per interposte persone – di coniugare i diritti con i doveri. E abbiamo anche fatto finta di dimenticare che il lavoro è, sì, stipendio e guadagno, ma anche e soprattutto dignità e coscienza di utilità per sé e per i propri cari, per l’azienda, o l’ente, in cui si lavora e per l’intera società.

Tra il decreto Poletti del 2014 e il Jobs act del 2015 abbiamo visto imperversare – per usare il linguaggio caro a molti politici – Mini job, Fast job, Fake job, con lavoretti lampo anche di un giorno soltanto, lavori a termine, intermittenti, a chiamata, voucher di vecchio e nuovo tipo, collaborazioni, fantomatici stage e ipotetiche alternanze scuola–lavoro. Tutto questo mentre si sbandieravano i teorici pregi dei contratti a tutele crescenti ai quali i licenziamenti più semplici troppo spesso non hanno lasciato neppure il tempo di crescere.

Il tutto in una giungla nella quale si è fatto di tutto per aiutare quelli che una volta erano giustamente chiamati “datori di lavoro” e nulla per venire incontro a quelli che il lavoro devono farlo, con il risultato di offrire alla popolazione che per vivere deve lavorare pochissimi diritti e nessun futuro. Tanto che, mentre Renzi sbandiera il fatto che gli occupati sono aumentati – comunque esagerando – di un milione di unità, la quantità di lavoro in un anno è addirittura precipitata a oltre un miliardo di ore lavorate in meno.

Alcune considerazioni. Intanto c’è il fatto che i vantaggi per gli ex “datori di lavoro” sono, a lungo termine, più apparenti che reali perché è la qualità del lavoro, e quindi della produzione, a calare visto che gli uomini non sono macchine a rendimento costante, ma esseri viventi che migliorano con l’intelligenza, l’esperienza e la fidelizzazione. Se l’unica qualità richiesta al lavoratore è la rassegnazione a stipendi sempre più bassi e alla povertà, intelligenza, esperienza e fidelizzazione mancheranno e la caduta di qualità sarà inevitabile.

Sempre pensando all’economia, è incontrovertibile, poi, che una popolazione povera potrà muovere il mercato molto meno di una che riesce ad avere ancora qualche soldo dopo aver sostenuto le spese di prima necessità per la propria vita in una società in cui comunque le tariffe e i ticket continuano a crescere.

Dall’altra parte il lavoro dava, oltre alla dignità, anche la fierezza di sentirsi parte di un tutto e la debolezza individuale diventava forza di gruppo e rendeva possibile quell’ascensore sociale che per decenni è stata la spinta sociale prevalente del nostro Paese e che era considerato preziosissimo se non per sé, almeno per i propri figli. Cancellata questa realtà, sono rimaste l’umiliazione di chi è stato lasciato in strada, l’invidia contro chi è rimasto negli uffici o nelle fabbriche, il disprezzo reciproco tra questi due gruppi in una serie di profonde fratture che hanno ulteriormente indebolito i deboli a favore dei più forti.

E, alla fine, mentre coloro che dovevano governare impiegavano la maggior parte dei loro sforzi per convincere che la situazione era ingovernabile, mentre in altri Paesi almeno in parte si riusciva a fare qualcosa, la povertà e la disoccupazione sono diventate quasi come colpe da nascondere agli altri, ma anche a se stessi. Sono diventate, come per i migranti, una specie di peccato originale senza neppure la speranza di un nuovo battesimo che possa lavare una colpa che non si ha.

In questa cosiddetta campagna elettorale, tranne che a sinistra, si è preferito parlare più di “redditi di cittadinanza” che di lavoro e di strumenti concreti per rivitalizzarlo, ma al momento di votare è necessario ricordarsene: non soltanto perché – come dice la Costituzione – il lavoro è il fondamento della nostra Repubblica, ma anche in quanto è proprio da questo aspetto che dipenderanno il volto futuro del nostro Paese e il benessere, o meno, nostro e di chi arriverà dopo di noi.

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