domenica 30 aprile 2017

In ricordo di Leo Zanier

Si sapeva che era gravemente ammalato, ma la notizia della morte di Leonardo Zanier, pur se in definitiva attesa, non ha perduto minimamente la forza d’impatto causata non soltanto dalla perdita di un poeta di grande livello, ma anche e soprattutto di un uomo che non ha mai perduto di vista le necessità degli altri per privilegiare le proprie.

Non lo vedevo da un po' di anni, ma ci sentivamo al telefono abbastanza spesso per concordare incontri, interviste, presentazioni, ma anche, semplicemente, per salutarci, per sapere come andava, per conoscere i rispettivi progetti. Ed era sempre un piacere sentire il grattare della sua voce, così apparentemente indecifrabile e pur così inconfondibilmente comprensibile in un dialogare che non era mai soltanto professionale, ma, anzi, scivolava regolarmente nel rapporto personale, tanto che in ogni telefonata, in ogni mail concludeva invariabilmente con un «Salûts a tô maranzanota».

Ma, al di là del dispiacere personale, c’è un profondo rimpianto per la perdita di un grande poeta che, tramite la sua capacità espressiva, riusciva ad avvicinare tantissima gente ad argomenti scomodi, che di solito appaiono repulsivi soprattutto a coloro che preferiscono non sapere per non rattristarsi.

Fare letteratura è unire una parola all’altra fino a creare un’espressione compiuta che sappia esprimere e trasmettere un ragionamento, un concetto; che sia in grado di realizzare un brano di senso compiuto capace di rendere manifesto il proprio pensiero e il proprio sentire. La poesia è diversa, pur se strutturalmente simile alla prosa: unendo le parole punta soprattutto a produrre e a offrire sensazioni. In questo caso le parole, infatti, vengono accostate l’una all’altra in maniera talvolta strana, talvolta a prima vista incomprensibile, non necessariamente inserendole in schematismi bloccati dalle regole della grammatica e della sintassi. E questo aggregarsi di parole è capace di portare alla luce non i ragionamenti, bensì i sentimenti.

In quest’ottica Leonardo Zanier è esemplare: la sua poesia è capace di toccare il cuore altrui con il minimo impiego di parole. Riesce a costruire un edificio che commuove, indigna, innamora, fa pensare, usando un decimo dello sforzo che è costretto a fare un narratore, un centesimo di quello che tocca a un saggista.

Pensavo di rendergli omaggio ripubblicando la mia prefazione a “Libers... di scugnî lâ” uscito nella collana “Friuli d’autore. La biblioteca del Messaggero Veneto”, ma preferisco farlo, invece, pubblicando la mia presentazione del suo “Allora vi diciamo / Alla nazione” fatta al Balducci, assienme a don Pierluigi Di Piazza, un po’ di anni fa. Eccola.


È da tantissimi anni che Leonardo Zanier ci parla di migranti e di migrazioni ed è da altrettanto tempo che puntualmente riesce a sollecitare in noi nuovi ragionamenti e nuove sensazioni su uno dei temi più drammatici della vita dell’uomo. Ancora una volta ci è riuscito con Allora vi diciamo / Alla nazione, il cui doppio titolo inizialmente ti spiazza; non riesci a capirlo. Poi guardi il nome dell’autore e la fotografia di copertina, di Antonio Maugeri, che blocca, in un devastante bianco e nero, il mucchio quasi informe dei resti fracassati di barconi di immigranti – che non si sa se poi siano riusciti a diventare anche immigrati – a Lampedusa. E allora ti rendi conto di non aver mai visto una copertina così esplicita, così innamorata dell’uomo, così accusatrice nei confronti di chi continua a pensare che parte importante della propria vita sia anche il sopraffare gli altri.

Leonardo Zanier, scrittore e poeta di Maranzanis, in Svizzera da più di mezzo secolo, ancora una volta alza la sua voce per ricordare cos’è in realtà l’emigrazione; che è uguale in ogni tempo e in ogni parte del mondo come sempre uguali sono gli esuli alla ricerca di lavoro, di cibo, di pace, di salvezza. E capisci anche che quel “Allora vi diciamo” è la necessità, l’obbligo di raccontare questa uguaglianza tra diversi e che quel “Alla nazione” non è una pretenziosa e presupponente imposizione declamatoria, ma una disperata speranza che davvero tutti ascoltino, se non le parole di questo libro, almeno i sentimenti, i fatti, le emozioni, i ragionamenti che gli danno sostanza, e che si trovano dappertutto, dovunque un uomo fronteggi un fatto con la capacità di aprirsi non solo agli altri, ma soprattutto a se stesso; con il pressante invito a tutti a ricordare sempre che, come dice Leo, «diventare bianchi dopo essere stati i marocchini d’Europa, è l’ebbrezza che può allontanare la ragione dalla realtà».

Questa ebbrezza potrebbe far tornare alla memoria “L’orda”, il libro di Gian Antonio Stella, ma il lavoro di Zanier è completamente diverso nella scelta degli assunti di partenza, anche se porta ai medesimi punti di arrivo in quanto entrambi giungono alla conclusione che qualunque emigrante merita rispetto innanzi tutto perché è un uomo e poi per il carico di dolore, per le valigie di tristezza e sofferenza che porta con sé.

Però potremmo dire che Stella arriva a questa conclusione scegliendo di partire da un profilo basso e cioè dimostrando che per noi è un imperativo morale quello di rispettare e aiutare coloro che cercano rifugio e lavoro nel nostro Paese perché anche noi italiani, fino a qualche decennio fa, eravamo come loro, accusati di una supposta inciviltà. Zanier, invece, arriva alla medesima conclusione partendo da un assunto più alto: dalla condanna di ragionamenti e scelte che si basino su graduatorie di presunte civiltà, o inciviltà, mentre si deve pensare esclusivamente a quella che chiamia-mo umanità, con i suoi diritti e le sue sensibilità. Stella, insomma, ragiona tenendo conto della massa di persone costrette a lasciare la loro patria; Zanier appunta la propria attenzione su ogni individuo ribadendone la piena dignità a prescindere da dove viva, dal lavoro che faccia, dalla sua cultura, o dal denaro che abbia in tasca.

Zanier – e non servirebbe neppure ricordarlo – è l’autore di “Libers… di scugnî lâ” (Liberi… di dover partire), un ma¬nifesto più che un titolo; una frase che ha accompagnato la vita di centinaia di migliaia di persone che vi si identificano, che sentono assolutamente loro questa splendida sintesi di parole che racchiudono costrizione e necessità, rabbia e rassegnazione di chi va e di chi rimane, speranza e magone. In pratica è un mondo intero – quello dell’emigrazione – che nei primi anni Sessanta comincia a emergere da un mare di luoghi comuni con l’uso di quattro parole soltanto. Si passa da un’emigrazione rassegnata a un’emigrazione arrabbiata, che vuole eliminare se stessa cancellando le cause che la provocano e i dolori che da essa sono provocati.

E ancora oggi, a distanza di decenni, Zanier si indigna davanti ai soprusi commessi da coloro che pretendono braccia e non vogliono uomini ed è ben conscio che le ingiustizie possono essere cancellate soltanto con la resistenza, non solo di coloro contro i quali i soprusi si compiono, ma anche e soprattutto di coloro che vedono quello che succede e che sono tenuti a far di tutto per impedirlo. Per solidarietà, ma anche perché la distruzione della dignità altrui finisce sempre per distruggere pure la dignità propria.

Quando un essere umano si sente obbligato a lasciare la propria casa e andare lontano, lo fa soltanto perché costretto dalla necessità, da fame, guerre, torture, persecuzioni, scarse possibilità di sopravvivenza. E, facendolo, porta con sé non soltanto il fardello del suo dolore, ma anche – e forse ancor più pesante – quello del dolore di coloro che restano a casa: mogli, figli, genitori, amici, altri parenti.

In questa visione la mitologia del lavoro perde significato e pregnanza, che vengono acquisiti invece dalle realtà della lontananza, della lacerante e macerante separazione. Perché fare il minatore di carbo¬ne a Marcinelle non era molto diverso dal fare l’estrattore di zolfo in Sicilia. Perché andare a cavare sale sulle coste della Camargue non era molto diverso dal fare il bracciante agricolo nei latifondi dell’Italia meridionale. Perché soffiare il vetro in Francia non era molto diverso da quello che ancora si fa non più nelle vetrerie, ma ancora nelle fonderie, reggendo lunghe canne che si bruciano e consumano mentre vengono eliminate le bolle d’aria dalla rovente pasta di ghisa fusa. Perché attraversare su un bastimento l’oceano Atlantico non era molto diverso dall’andare a pesca su malandati barconi nel tempestoso canale di Sicilia, o nel non meno inquieto canale d’Otranto.

Lo stucchevole martirologio dell’emigrante portato avanti da certa letteratura della prima parte del ventesimo secolo, insomma, non ha senso se riferito alla differenza del lavoro. Perché il lavoro è stato drammaticamente pesante dappertutto, specialmente negli anni della massima diaspora italiana: era uguale in Italia e in Francia, in Marocco e in Svizzera, negli Stati Uniti e in Argentina, in Germania e in Belgio, in Lussemburgo e in Australia. Quello che cambiava – e che cambia ancora oggi – è il peso che questa gente si porta nell’anima, perché oltre a portare su di sé il fardello delle lontananze, delle laceranti separazioni dagli affetti, della perdita delle abitudini più rassicuranti, deve sopportare anche la non accettazione, il pregiudizio, il sospetto.

Quello che è davvero diverso, insomma, non si colloca durante il lavoro, ma si sostanzia alla fine del lavoro: quando si esce dalla fabbrica, o dal campo, e non si ritorna a casa, ma si apre la porta di una baracca; non si rientra in famiglia, ma ci si mescola a un gruppo di colleghi altrettanto stanchi e intristiti; non si vedono le proprie pianure, le montagne, i campi, le foreste, o i deserti, ma si guardano paesaggi alieni che non si desidera continuare a vedere per tutta la vita.

E c’è un cambiamento importante anche dove si viveva prima dell’emigrazione: riguarda l’impoverimento della propria terra. Un impoverimento importante e che non è economico, perché le rimesse fruttano una sia pur piccola quantità di denaro che da la possibilità di lenire certe piaghe di un’indigenza assoluta, di una povertà che si può vedere, toccare, annusare. Parlo di un impoverimento umano, morale e sociale, perché quando molti uomini e donne se ne devono andare, viene a mancare la possibilità di avere da loro un apporto emozionale, etico, solidaristico e intellettuale. Perché intellettuale non indica solo qualcosa di molto raffinato, ma la capacità dell’intelletto di elaborare ragionamenti e sensazioni che possono andare ad arricchire il pensiero altrui, a fertilizzare zone di umanità che altrimenti rischierebbero di restare sterili.

"Allora vi diciamo / Alla nazione" è un libro di prose e di poesie, una collezione di brani e di liriche di diverse epoche che, insieme, restituiscono l’immagine di realtà non travisate dalle parole, dalle propagande, dalle insicurezze. Zanier dona a se stesso – e a tutti, di qualunque nazione, pelle e lingua siano – anche le immagini di desolante umiliazione iniziale perché ancora più forte sia la gioia di essere arrivati dove si riesce ad arrivare. E ti racconta del suo primo viaggio di emigrazione verso Zurigo, nel 1956, quasi una fuga dal Friuli ancora ferito dalla guerra, senza lavoro, senza speranza, quando alla frontiera di Chiasso la polizia svizzera lo fece scendere dal treno e mettere «in fila, in mutande, con il passaporto in mano».

Ma Leo riesce a donare dignità a tutti i poveri vaganti con la domanda: «Quanti Ulisse ci saranno e ci sono stati nel mondo?». Eppure Ulisse non era uno straccione, ma un re. Eppure non cercava lavoro, ma conoscenza. Allora cosa unisce l’Ulisse di Itaca ai diseredati che vediamo respinti, obbligati in lunghe file, imprigionati? Li unisce la speranza e la disperazione, il rifiuto e la testardaggine, lo sfruttamento e l’anelito al riscatto. A prima vista si tratta di un Ulisse più omerico che dantesco perché obbligato più che curioso. Ma a ben guardare ci si accorge che entrambi sono emblemi dell’orgoglio umano che rifiuta la sottomissione a qualsiasi cosa, anche al fato, anche agli dei, pur di salvare le due uniche ricchezze che davvero possediamo: la nostra dignità di esseri umani e l’amore per i nostri cari. E la coscienza che, com’è scritto nel libro, «Domani / non è una parola / domani è la speranza / non abbiamo che lei / usiamola / facciamola diventare / mani / occhi / rabbia / e vinceremo la paura».

E Zanier – grande coniatore di parole, ruvide come la sua voce, precise come il suo pensiero – attacca ancora certi concetti come quello di “identità” cui aveva già dedicato una caustica poesia. Sottolinea che nell’attraversare le frontiere non devono importare la lontananza, le lingue diverse, le culture che non si assomigliano; non devono importare perché non esistono società ideali ed esemplari da imitare senza porre domande e instillare dubbi; perché in realtà sono gli uomini a fare la storia e a comporre queste società in continuo divenire, mescolando identità in apparenza inconciliabili, amalgamandole perfettamente anche se sembrano soltanto emulsionabili, come succede per l’olio e l’acqua che, loro sì, resteranno sempre distinguibili tra loro.

Perché identità è una parola che può tranquillizzare, ma anche spaventare e che, nella sostanza, è totalmente vuota e ben disposta a farsi sostanziare da chi la brandisce a proprio comodo, quasi sempre quando serve a innalzare un falso muro utile per dividere uomini e donne con un razzismo che, pur se non esplicito, è spesso sotterraneo. E, per dimostrarlo, Zanier ricorda il nonno di un amico nato a Cjauret che è poi Caporetto, ma anche Kobarid, ma anche Karfreit: «un nome in quattro lingue». Nonno che nasce austriaco e si ritrova italiano pur avendo combattuto nell’esercito austro-ungarico, ma nel 1946 la sua carta d’identità è jugoslava anche se si è trovato in armi contro la Jugoslavia nell’esercito italiano. Muore prima di diventare sloveno senza essersi mai allontanato nella casa dove la storia lo aveva sempre raggiunto.

Personalmente credo molto all’intangibilità delle ricchezze cultuali e non credo affatto all’intangibilità delle identità culturali. Non ci credo dal punto di vista spaziale, perché normalmente l’identità viene identificata con una porzione geografica di spazio e questa divisione funziona poco perché accoglie altre cosiddette identità ed esporta proprie identità vivendo fortunatamente, quindi, in una feconda contaminazione perenne, indotta o subita che sia. Né mi convince dal punto di vista temporale: basta soffermarci per un momento sugli aspetti esteriori della religiosità e pensare come quella delle nostre vecchie di qualche decennio fa assomigli in maniera fortissima a quella dell’islam non integralista di oggi.

Credo profondamente, invece, a due identità, queste davvero contrapposte: quella dei cittadini e quella dei sudditi. Sono le uniche identità che sopravvivono in qualunque condizione e che mi sembrano immutabili con il passare degli anni e anche con il passare dei chilometri.

E un discorso simile riguarda anche quelle lingue che rivestono un ruolo di patria per profughi e emigranti e che quindi vanno sostenute e rispettate, ma non sacralizzate con l’intangibilità perché altrimenti le parole vengono congelate, mentre devono continuamente arricchirsi e modificarsi fino a dare vita a lingue nuove fatte di vocaboli rapiti a decine di lingue diverse e poi mescolate, smussate, unite e cambiate fino a creare una delle tante lingue creole esistenti al mondo. Perché, a ben guardare, tutte le lingue sono creole, sono nate così; un po’ per invenzione e un po’ per caso. E noi che viviamo in zone di confine dovremmo saperlo meglio di altri perché le tracce lasciate da questi meticciamenti sono tante e profonde nei vocabolari che usiamo, anche se quasi mai appaiono nelle regole sintattiche che queste parole uniscono per dare forma comprensibile ai nostri pensieri.

E allora appare evidente che, pur nella lontananza, non sono importanti le lingue diverse, le culture che poco si assomigliano; non importano perché – checché ne dica qualche tronfio politico e agitatore di popoli – non esistono società esemplari da imitare senza critiche e correzioni. Ma per fortuna esistono altri uomini che apparentemente hanno meno potere, ma sono quelli che fanno la storia, intesa come progresso dell’umanità.

Le parole di Zanier sottolineano che nella vita di chi emigra cambiano lingue, religioni, dialetti, cibo, convenzioni sociali. Ma i ricordi restano. Come resta, anche se spesso inespressa, la domanda «Parcè a mi Signor?», perché proprio a me, mio Signore, che lo scrittore pone sulla bocca una donna abbandonata dal marito emigrato, ma che può toccare ogni disperato.

E inopinatamente tornano anche altri ricordi dimenticati. A Leo questo succede perché le polizie in tutto il mondo diffidano di coloro che sanno dire «No. Non sono d’accordo». E che cercano di far crescere una simile coscienza anche negli altri, di far ritrovare la dignità ai rassegnati. E allora le polizie controllano e spiano nel nome della sicurezza nazionale. Non succede soltanto agli emigrati all’estero, ma anche in Italia. Sareste stupiti di vedere le dimensioni dei fascicoli intestati a coloro che nel ’68 e anni successivi hanno partecipato alle contestazioni studentesche.

In Svizzera nei primi anni Novanta il governo decide di eliminare tonnellate di rapporti segreti dei possibili sovversivi e di regalare agli spiati il lavoro delle spie. E così Zanier, inguaribilmente curioso, si fa spedire la cronaca di una porzione di vita di¬menticata. E torna a ricordare con chi aveva cenato la sera dell’8 gennaio 1963, la prima sera in cui la polizia l’aveva seguito. E tornano immagini, chiacchiere, amici perduti, amori passati, marce della pace, manifestazioni sindacali e sociali. È una quantità di materiale che non fa male all’emigrato, ma sbriciola definitivamente la pur fittizia credibilità della xenofobia.

Ma la xenofobia fa ancora rabbrividire pensando che non raramente riesce a rivivere proprio in coloro che l’hanno subita o nei loro figli che trattano con la durezza del giogo dell’egoismo della Lega coloro che oggi vengono a chiedere aiuto. Una xenofobia di interesse che pretende di far adottare le regole di quella stessa diffidenza che una volta li ha fatti sentire cittadini di qualità inferiore in paesi lontani. Una xenofobia che predica indifferenza, o addirittura soddisfazione nel vedere respingere coloro attraversano il Mediterraneo su carrette condotte da sfruttatori e assassini. Una xenofobia che pretende di veder rinchiudere i disperati in campi di identificazione che in realtà sono vergognosi campi di detenzione per chi non ha commesso alcun reato e da cui gli esuli vengono rispediti in molti casi forse incontro alla morte. Una xenofobia che rinnega le antiche e sacre leggi dell’ospitalità.

E non è un caso che questa presentazione si svolga al Centro Balducci, dove gli incontri non sono tra ospitanti e ospitati, ma tra uomini, costretti a soffrire, ma capaci anche di aiutare tenendo sempre questo modo di essere come una bussola interiore che indica costantemente una specie di stella polare etica in cui la cosa più importante da tener presente è l’uomo. Non soltanto nell’emigrazione, ma in qualunque circostanza, in tutto quello che in questo mondo succede e che può fare intristire, piangere, disperare.

“Allora vi diciamo / Alla nazione” è un libro da leggere lasciandosi penetrare da parole che sono taglienti come rasoi, che sono meditate e incontrovertibili perché distillate attraverso l’esperienza personale di Leo Zanier che ha saputo diventare qualcuno in un ambiente ostile non per gloriarsi di risultati personali, ma per fare rispettare se stesso attraverso il riconoscimento che il rispetto è dovuto a qualsiasi essere umano. E così, facendo rispettare se stesso, è riuscito a far rispettare dalla maggioranza dei residenti storici qualunque immigrato, qualunque nuovo cittadino.

Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

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