domenica 29 dicembre 2013

Ma cosa significa “noi”?

Ci sono poche parole più equivoche e potenzialmente più pericolose del pronome “noi”; anche quando viene sottinteso. Nella società è la base fondante di ogni concetto di razzismo e di eterofobia. In politica quasi sempre è usato per dividere più che per unire; ed è capace di instillare il germe della rabbia, se non della rivolta, o almeno dell’abbandono, anche è soprattutto se è usato inconsapevolmente in maniera sbagliata.
Un esempio? Prendiamo Enrico Letta e la sua frase che in questi giorni è stata ripetuta quasi ossessivamente: «Abbiamo i conti a posto». Lui, con quel “noi” sottinteso, evidentemente vuole riferirsi all’Italia e, quindi, a tutti gli italiani, ma il risultato che ottiene è quello diametralmente opposto perché viene spontaneo domandarsi: chi sono questi noi che hanno i conti a posto?
Non gli operai e gli impiegati che continuano a ricevere – sgraditi regali non soltanto natalizi – lettere di licenziamento o di cassa integrazione; non i precari che non arrivano a fine mese e che neppure hanno più il sogno di arrivare a una certa stabilità; non i pensionati che sentono tangibilmente che la loro pensione sta perdendo potere d’acquisto; non gli imprenditori che si muovono tra le crescenti difficoltà di un mercato asfittico che in parte anche loro hanno contribuito a creare; non i commercianti che risentono in maniera visibile, con negozi semivuoti, della medesima crisi. Non, in generale, tutti i cittadini che vedono che si continuano a promettere futuri e ipotetici miglioramenti economici in cambio di sicure e immediate perdite di diritti. Non i più deboli, gli ultimi, i rifugiati, che si sentono esclusi dal tentativo di tornare alle condizioni generali di qualche anno fa in quanto vengono trattati, anche abbastanza esplicitamente, come fastidiosa zavorra.
Con quel “noi” sottinteso Letta sottolinea più divisioni che unioni, fa sentire che tra Stato e cittadini c’è una distanza sempre più tangibile e che l’ipotetico benessere del primo non corrisponde al benessere dei secondi; fa allontanare sempre più gente dalla politica; rende sempre più difficile il rapporto di fiducia tra il partito di cui è esponente – il PD – e i ceti sociali che tradizionalmente dovrebbero esserne l’anima; crea condizioni sempre migliori per rendere più comoda la strada ai populismi.
Il suo “noi”, pur se sottinteso, è uno dei più chiari esempi dei disastri che possono causare la superficialità, o la troppa sicumera, nel parlare. Perché i disastri - anche se molti cercano di sostenere il contrario - non avvengono soltanto nell'economia.

sabato 14 dicembre 2013

Non capisco

Non capisco. C’è un mucchio di gente che, ingenuamente, pensava che dopo una condanna definitiva, la condanna scattasse. E tanti, pur descritti come asociali, si sono lasciati portare in carcere senza fiatare, oppure protestando ancora la loro innocenza e invocando l’errore giudiziario, ma senza paventare colpi di Stato, oppure minacciare rivoluzioni.
Ebbene non capisco – e credo che con me in questo sconcerto ce ne siano molti altri – perché Berlusconi possa impunemente continuare a girare per l’Italia a fare comizi e sputare veleno contro quello Stato di cui, tra l’altro, è stato il capo del governo e che, insieme ai suoi sodali, ha sempre accusato di mollezza e non certo di eccesiva severità. Se non lo ricordate, pensate alla legge Bossi-Fini che mette in galera senza bisogno di alcun reato, né di alcun processo, o alla Fini-Giovanardi che impartisce pene severissime rispetto a una scala di valori sicuramente stravolta.
È giusto che Berlusconi – come la Costituzione prevede – abbia goduto di tutti i privilegi concessi ai parlamentari e non ai privati cittadini. È giusto – come legge ricchezza permette – che abbia potuto tirare tanto avanti i processi da farli finire per buona parte in prescrizione. È meno giusto – ma la democrazia non sa impedirlo – che un potente possa farsi costruire leggi ad personam. È anche giusto – vale per tutti – che a una certa età uno non debba essere rinchiuso in una cella.

Ma cosa c’è di giusto nel rimandare quasi sine die l’applicazione della sentenza? Cosa c’è di giusto nel non reagire a quegli sproloqui che farebbero condannare per direttissima un qualunque cittadino? Cosa c’è di giusto nel non arrestare in flagranza di reato chi davanti a tutti minaccia rivoluzioni come negli anni Settanta e Ottanta facevano i portavoce dei terrorismi rossi e neri? Occorre rischiare di arrivare allo spargimento di sangue, oppure si può e si deve impedire a un pregiudicato di attizzare il fuoco in animi di persone ben disposte a farsi attizzare e poi a proclamarsi non carnefici, ma vittime?
E intanto, mentre lo sento ogni giorno e contemporaneamente sento quello che urla Grillo, penso a cosa accadrebbe se uno di noi, che non siamo né Berlusconi, ne Grillo, dicesse e facesse le stesse cose.
Davvero non capisco.

mercoledì 11 dicembre 2013

Non dimenticate Ichino

La vittoria di Renzi è una vittoria pienamente democratica e, come tale, va rispettata e accettata; anche se può piacere poco perché poco sa di sinistra. E, del resto, chi sogna l’unità della sinistra e anche per poter lavorare per questo obbiettivo ha sempre rifiutato di prendere qualsiasi tessera di partito, il PD resta l’unico punto di aggregazione che possa avere una massa critica capace di attirare alleanze (da non tradire) con gli altri partiti idealmente vicini.
Pur inghiottendo qualche boccone amaro, la parola scissione, quindi, non deve essere nemmeno pensata, se si ritiene che la politica sia una cosa seria per migliorare le condizioni della società e non un gioco capace di soddisfare al massimo il proprio io.
Di scissione all’interno della Lega parla Bossi che ancor prima delle loro primarie aveva annunciato che, in caso di sua sconfitta, se ne sarebbe andato a fondare un nuovo partito. Di scissione (non si sa quanto reale) si sono visti i risultati tra i Berlusconiani e i “diversamente berlusconiani”.
Di scissione – e in questo caso si tratta di cosa da non dimenticare – ha parlato Pietro Ichino dopo la sconfitta di Renzi dello scorso anno. E non soltanto ha parlato, ma l’ha anche messa immediatamente in pratica andando con Monti, candidandosi e venendo eletto con il suo raggruppamento. Si potrebbe dire che sono fatti suoi, ma il fatto è che, mentre Ichino se n’è andato verso luoghi sicuramente più a destra, le sue idee sulle politiche del lavoro purtroppo sono rimaste ben conficcate all’interno della parte attualmente maggioritaria del PD. E l’esperienza insegna che normalmente la qualità delle idee non è molto lontana dalla qualità di chi quelle idee produce e che continua a fondare il suo pensiero su una separazione sensibile tra il concetto di lavoro e quello di diritti, dando senza esitazioni la precedenza al primo in caso di coincidenze difficili con i secondi.
Ora la sua prima iniziativa, subito dopo la vittoria di Renzi, è stata quella di scrivere sul suo sito una lettera aperta nella quale, oltre ai numerosi riferimenti agli scritti suoi e di suo fratello Andrea e a un linguaggio ricco di tecnicismi e totalmente ripulito da ogni traccia di passione e compassione umana, traspare un’autocandidatura per rientrare e rimettere a posto il PD che lui definisce «il più conservatore dei partiti».
So bene che la vita politica da anni si regge sulla scarsa memoria storica degli italiani, ma, per favore, ricordate Ichino; ha tutto il diritto di elaborare e portare avanti le sue (per me) inaccettabili idee, ma non lasciatelo riavvicinare al PD perché – saggezza antica – le idee, come le mele, non cadono lontane dall’albero.

giovedì 5 dicembre 2013

I veri corpi estranei

C’è da capirli. Cosa mai ci possono fare delle persone di alto profilo culturale e sociale all’interno di un Parlamento in cui ci sono Scilipoti e Razzi, in cui vivono più pluri-inquisiti, in cui uno dei tratti dominanti è sicuramente l’ignoranza?
Renzo Piano, Carlo Rubbia, Claudio Abbado ed Elena Cattaneo sono dei veri corpi estranei nel Parlamento, ma soprattutto in un centrodestra in cui si vocifera che addirittura alcuni abbiano letto un paio di libri, ma di nascosto, per non rimetterci la reputazione.
Vorrei ricordare come fino a qualche decennio fa ci si sentiva intimoriti e rispettosi davanti a senatori e deputati perché si era convinti che, tranne qualche rara eccezione, fossero la crema del popolo italiano. E come oggi li si guardi con degnazione e fastidio perché sono molto rari quelli che possono rientrare nel concetto di “crema”. E non è cosa da poco perché è lo sgretolarsi delle istituzioni che consente lo sgretolarsi di una società.
L’unica cosa di cui teoricamente potremmo ringraziare i forzisti Elisabetta Casellati e Lucio Malan, Sandro Bondi e Maurizio Gasparri, la leghista Erika Stefani, il grillino Vito Crimi, i loro capi ed evidentemente Scilipoti e Razzi che – secondo il centrodestra – sono i prototipi dei parlamentari di qualità, è quella di farci ridere con le loro uscite. Ma è una risata talmente amara che non ci sogniamo minimamente di essere loro grati. Anzi.

venerdì 29 novembre 2013

Causa e non conseguenza

Mario Monti afferma che lo Statuto dei lavoratori ha favorito la crisi del lavoro; e tutti coloro che non sono proprio di destra lo rimbrottano e si indignano provocandone una pur parziale rettifica.
Marchionne se ne esce dicendo che le condizioni sono cambiate e che, quindi - dopo aver incassato gli arretramenti e le distruzioni sindacali concessigli da Cisl e Uil - non ha nessuna intenzione di investire quei 20 milioni di euro che aveva promesso in cambio e che avrebbe già dovuto impiegare un anno fa; e tutti, tranne alcuni ministri ingiustificabilmente rispettosi, protestano con veemenza.
Indignarsi per le frasi mistificanti e le azioni scorrette (uso termini fortemente edulcorati) va sicuramente bene, ma ancora una volta mi sembra che manchi una considerazione essenziale dalla quale bisognerebbe partire per focalizzare davvero alcuni dei motivi della crisi e per avere basi più solide su cui lavorare per uscirne.
Al di là delle tempeste finanziarie internazionali, l'Italia ha visto aggravarsi la sua situazione, per sue situazioni peculiari. Oggi, per esempio, si dice che la disoccupazione è conseguenza della crisi, mentre in realtà ne è stata una delle cause. Già ben più di dieci anni fa politici ed economisti per la maggior parte non ne parlavano, ma a lavoratori, parte dei sindacalisti e gente comune appariva inevitabile che togliere lo stipendio a molti diventati disoccupati e ridurlo a molti altri, precarizzati, cassintegrati o prepensionati grazie alle deregulation introdotte dalla legge Biagi e all'uso disinvolto che ne è stato fatto, avrebbe inevitabilmente finito per togliere denaro circolante e, quindi, per mettere in crisi il sistema consumistico su cui la nostra società è stata indirizzata e dalla quale non intende togliersi.
Almeno ora, a posteriori, bisognerebbe ammettere che questa situazione ha innescato un ciclo vizioso in cui chi ha il coltello dalla parte del manico, pensa in maniera miope ed egoistica di salvare se stesso e non si rende conto che sta affossando se stesso oltre che gli altri. È l’ennesima prova che abbiamo un disperato bisogno del ritorno della politica: di quella vera, ovviamente, non di quella cosa che per anni è stata chiamata così.

martedì 26 novembre 2013

Da dove arriva la politica

Sarebbe stupido illudersi che dal momento successivo alla sua giusta ed eccessivamente ritardata espulsione con ignominia dal Senato, di Berlusconi si possa non sentir parlare più. Sicuramente noi ne faremmo a meno, ma saranno certamente lui e i suoi ripetitori umani a non permettercelo.
Eppure sarebbe necessario distrarsi dalle sue urla scomposte per capire che nel resto del mondo si sta muovendo ancora qualcosa che si chiama politica. E non mi riferisco certamente né all’ennesimo voltafaccia di Casini che, dopo aver detto che su Berlusconi voterà diversamente da Alfano, ora, per tenersi come sempre tutte le porte aperte, spinge per un rinvio; né ai dibattiti tra gli aspiranti segretari del PD tra i quali l’unica cosa di davvero politico che ho sentito la si deve a Cuperlo: «Noi siamo la sinistra, non la parte buona della destra».
Mi riferisco alla Politica con la “P” maiuscola che finalmente si sete risuonare nuovamente in maniera forte, anche se l’origine è del tutto inconsueta, anche se non più troppo sorprendente. Mi riferisco alle parole scritte da Papa Francesco nella sua esortazione apostolica “Evangeli gaudium” con la quale pone sulla nostra e sua strada alcuni macigni come «Devo anche pensare a una conversione del papato»; «Questa economia uccide con la legge del più forte, dove il potente mangia il più debole»; «Un mercato divinizzato in cui regnano speculazione finanziaria, corruzione ramificata, evasione fiscale egoista».
O, ancora: «La crescita in equità esige qualcosa di più. Lungi da me il proporre un populismo irresponsabile, ma l’economia non può più ricorrere a rimedi che sono un nuovo veleno, come quando si pretende di aumentare la redditività riducendo il mercato del lavoro e creando in tal modo nuovi esclusi», per arrivare al «dolore e nostra vergogna per i peccati di alcuni membri della Chiesa» e a «Chiedo a Dio che cresca il numero di politici capaci di entrare in un autentico dialogo che si orienti efficacemente a sanare le radici profonde e non l’apparenza dei mali del nostro mondo. La politica, tanto denigrata, è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune» ribadendo che «Non possiamo più confidare nelle forze cieche e nella mano invisibile del mercato».
Vorrei proprio sapere quanti di coloro che siedono in Parlamento leggeranno queste parole che dovrebbero mettere completamente in ombra la fine politica di un omuncolo megalomane, egoista ed evasore. La speranza è che d’ora in poi molti dei nostri rappresentanti riprendano a leggere qualcosa di politica. Poi, un po’ alla volta, forse riprenderanno anche a farla, sognando, progettando, pensando al bene di chi bene non sta.
Potrebbe addirittura essere che un po’ di gente torni a votare.

martedì 19 novembre 2013

Soccorso non è protezione

Almeno diciassette morti, diversi dispersi, danni incalcolabili in una Sardegna messa in ginocchio dall’inclemenza di un clima che sta restituendo alla società gli schiaffi che l’uomo ha dato alla natura, e che può riuscire a essere così crudele anche e soprattutto per il male che l’uomo è riuscito a fare ai propri simili non soltanto non curando, ma spesso violentando un territorio che è tra i meno salvaguardati sulla faccia della terra.
Anche questi lutti mettono in luce l’incapacità della nostra politica nel riuscire a far qualcosa che sia di sostanza prima che di propaganda. E in quest’ottica, pur di rendere più gradevole la realtà, è riuscita anche a truccare il vocabolario. Un esempio che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi è quello della “Protezione civile”, organizzazione più che benemerita, ma che porta un nome completamente sbagliato. “Protezione”, infatti, deriva da proteggere, dal latino pro (davanti, e quindi prima) e tegere (coprire). Quindi proteggere vuol dire fare scudo, intervenire in anticipo e non a frittata già fatta, quando si tratta di raccogliere morti e feriti, di recuperare quel poco che non è stato distrutto, di fare i pesanti conti dei danni, di rattoppare alla bell’e meglio comunità che portano ferite tanto gravi da non riprendersi più, se non trasformandosi profondamente; e non sempre in meglio. In realtà la Protezione civile che conosciamo dovrebbe chiamarsi, più puntualmente, “Soccorso civile” e dovrebbe rimanere pronta a intervenire sui disastri perché mai l’uomo riuscirà a innalzarsi completamente sopra la natura e a evitarli del tutto; ma accanto ci dovrebbe essere una vera e propria “Protezione civile” intesa non solo come organizzazione, ma anche e soprattutto come sincera filosofia politica che possa essere messa in condizioni di lavorare per la prevenzione.
Una politica che riuscisse anche a dialogare con l’Europa – e prima ancora a ragionare con se stessa – per far capire che gli interventi sul territorio non sono spese, bensì investimenti. Basterebbe pensare soltanto a quanti danni sarebbero evitati – per non parlare del costo incalcolabile in termini di vite umane – se in Sardegna - e in Friuli c'è da preoccuparsi almeno altrettanto - si fosse fatto per tempo quello che si sarebbe dovuto fare in termini di adeguamento e pulizia degli alvei, di controlli di staticità dei ponti, di pulizia, se non di rafforzamento dei versanti.
Vien quasi da dire amaramente e paradossalmente che purtroppo la malavita organizzata non ama molto la cultura: se un boss delle varie mafie esistenti nel nostro Paese avesse ottenuto una laurea in geologia forse avrebbe pensato di guadagnare proprio con la prevenzione. E in tal caso le ruberie sarebbero state le stesse, ma il nostro Paese sarebbe stato più sicuro.
Beato il Paese che ha un ceto politico capace di rendere impossibile la nascita di certi pensieri.