È di grande
interesse il sondaggio condotto da Ilvo Diamanti su “Le parole del
nostro tempo” e intitolato dalla Repubblica “Il dizionario degli
italiani”. Non per il risultato in sé, che non desta troppe sorprese, ma
per il fatto che richiama ancora una volta l’attenzione generale
sull’importanza della parola che non è soltanto vibrazione dell’aria che
penetra nelle nostre orecchie, o contrasto cromatico che colpisce i
nostri occhi, ma è contemporaneamente materia ed energia che penetra nel
nostro cervello con una forza che può essere capace di cambiarne la
complicata geografia delle sinapsi e, quindi, il ragionare e il sentire.
Dicevo che, tanto per fare alcuni esempi, non possono destare sorpresa
né le ottime valutazioni date ad ambiente, Papa Francesco, lavoro,
speranza, meritocrazia, né le contraddittorie valutazioni che toccano a
social media e democrazia digitale, né, infine, il totale rigetto che
spetta ai politici, ai partiti e, soprattutto, ai loro leader.
Quello che non convince è il fatto
che questo sondaggio guarda soltanto in una direzione, mentre ignora
totalmente quella contraria. Per capirci, vengono analizzate le reazioni
degli italiani di fronte a diverse singole parole, ma non viene preso
in considerazione quanto siano state le parole pronunciate in questi
anni a far cambiare il sentire comune e, quindi, in definitiva a
influire sul gradimento delle parole stesse.
Si potrebbe tirare dritto dicendo
che si tratta di una specie di discorso circolare, fine a se stesso, che
può interessare soltanto, a livello statistico, gente che studia
comunicazione, o che si interessa di politica; ma così non è perché
rivela, invece, non soltanto la determinazione con la quale molti
politici hanno tentato di modificare la visione del mondo adattandola ai
propri gusti e – apparentemente – alle proprie convenienze, ma
soprattutto mette in luce la miopia di quegli stessi politici che, alla
lunga, quasi sempre hanno provocato e determinato situazioni esattamente
contrarie a quelle che avrebbero desiderato raggiungere. Così non
fosse, non troveremmo i partiti e i loro leader sugli ultimissimi
gradini della scala di gradimento.
Qualche esempio. Sono ormai decenni
che sentiamo alzare inni sperticati all’antipolitica, alla necessità di
rendere la cura della polis qualcosa di apparentemente gratuito e,
quindi, dilettantesco; dunque, sostanzialmente riservata soltanto a chi
non ha già un solido mestiere, o un’affermata professione che dovrebbe
lasciare per dedicarsi anima e corpo alla polis. Ma se in Parlamento
dovessero arrivare soltanto persone di secondo piano (e , comunque,
rispetto a certi figure che si vedono girare oggi a Montecitorio e a
Palazzo Madama il secondo piano sarebbe già un miglioramento), perché la
gente dovrebbe interessarsi alla politica e apprezzarne i protagonisti?
E, a questo proposito, appare del
tutto assurdo anche il reiterato richiamo alla meritocrazia che fa
sempre capolino nelle parole di ogni politico, ma resta quasi sempre
profondamente sepolta nel momento di effettuare delle scelte.
O, ancora, quante volte abbiamo
sentito parlare della necessità generica di tagliare le spese? Ebbene,
non serve essere un genio dell’economia e della finanza per capire che
ogni risparmio fatto tagliando le spese per il personale corrisponde
alla scomparsa di stipendi e, quindi, alla sparizione di grandi quantità
di denaro liquido che una volta entravano nel cosiddetto mercato e lo
arricchivano, mentre oggi la loro mancanza non soltanto lo rende
asfittico, ma innesca un aggravamento della miopia perché si pensa ancor
di più a non spendere e non a far circolare il denaro in maniera più
efficace. Il fatto è che i risparmi sono necessari, ma soltanto negli
sprechi e soprattutto negli anfratti dove i soldi entrano per essere
girati immediatamente sotto forma di tangenti e bustarelle a una
quantità di persone il cui ultimo pensiero è ovviamente quello di
rimettere in circolo il maltolto.
Potremmo andare avanti a lungo, ma
vorrei concludere con un esempio attuale che si lega alla cosiddetta
“spiaggia fascista” di Chioggia dove il titolare dello stabilimento
espone immagini di Mussolini, cartelli con frasi chiaramente
riconducibili al modo di parlare fascista, e fa anche ascoltare alcune
musiche care al regime del ventennio. Va ricordato che la XII
disposizione finale della nostra Costituzione vieta «la riorganizzazione
del partito fascista» e che una legge del 1952 punisce con la
reclusione da 6 mesi a 2 anni la propaganda e l’apologia del fascismo.
Ora Fiano, del PD, tenta di allargare il campo dei divieti estendendolo
al saluto romano, fatto in qualsiasi occasione, e prendendo in
considerazione anche il web, finora campo libero perché –
inevitabilmente – non citato in alcuna legge scritta prima che il web
esistesse.
Ebbene, i grillini insorgono
accusando questa proposta di legge di essere «liberticida». E torniamo
alle parole e al loro uso. Al di là del fatto che liberticida era il
regime fascista e che impedirne la rinascita significa limpidamente
tentare di difendere la libertà, da Grillo e dai suoi – ammesso che se
ne rendano conto – viene forse fatto passare il concetto che qualunque
forma di limitazione della libertà (detenzione compresa) può essere
sostanzialmente illegittima? Oppure la possibilità di essere liberticidi
è riservata soltanto al garante del Movimento Cinque Stelle quando i
risultati delle “comunarie” di Genova non lo soddisfano?
La sensazione è ancora quella che i
politici più che del dizionario degli italiani siano interessati a
creare un loro dizionario per gli italiani.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
lunedì 10 luglio 2017
sabato 8 luglio 2017
Di cosa stiamo parlando
La becera e
stupida semplificazione della frase «Aiutiamoli a casa loro», che questa
volta non è stata pronunciata da Matteo Salvini, ma è stata scritta da
Matteo Renzi, forse può diventare utile per fare un po’ di luce su una
questione che, invece, è di grande complessità e importanza e che
potrebbe essere condensata in questa domanda: di cosa parliamo quando
usiamo la parola “politica” e quanto è cambiato negli anni l’essenza di
questo concetto?
Per secoli si è continuato a pensare alla politica legandola all’estensione del suo significato etimologico che la indicava come ricerca del bene per la polis che, nell’antica Grecia, era la città, ma contemporaneamente anche lo Stato. Poi la politica è diventata l’esercizio del potere e, infine, l’arte della conservazione del potere. E il bene della polis? Non interessa a molti e, comunque, è diventato un obbiettivo del tutto secondario scatenando così un inevitabile effetto uguale e contrario. Se, infatti, la politica dimostra che non le interessa della polis, perché mai alla polis dovrebbe importare della politica? E, in quest’ottica, non può sorprendere il fatto che ormai metà degli italiani non va più alle urne se non quando si rende conto, come in occasione del referendum costituzionale, che può decidere in maniera diretta della propria libertà e della sopravvivenza della democrazia.
Renzi ha girato di 180 gradi la tradizionale impostazione della sinistra sui migranti non per una gaffe, o perché illuminato sulla via di Damasco da una folgorazione su come risolvere un problema epocale e globale che è sempre esistito, ma che ora avvertiamo più distintamente perché tocca direttamente noi. Lo ha fatto, andando a ruota di Grillo, semplicemente perché è stato convinto a farlo dai sondaggi di opinione che da un po’ di tempo indicano quello della migrazione come il problema che potrà orientare consistenti quantità di voti nelle prossime elezioni politiche. Lo ha fatto non per governare la piazza, ma per dare l’idea di farsi governare dalla piazza; lo ha fatto proprio per quel populismo contro il quale vorrebbe ergersi a difensore e che vorrebbe distruggere non perché abietto, ma perché è già sfruttato dai suoi possibili avversari e non già da lui stesso.
Cito, sottoscrivendole totalmente, alcune frasi di Roberto Saviano: «Mi permetto di parafrasare così le parole del segretario del partito di centrosinistra, ossatura della maggioranza di governo: se vi considerate di sinistra non dovete sentirvi moralmente in colpa se iniziate ad avvertire impulsi razzisti. Non siete voi a essere razzisti, sono i negri a essere troppi. Ma vi assicuro che continuerò ad avere moralmente a cuore gli affari di chi tra voi produce armi da vendere ai paesi in guerra, impedendo che si creino condizioni di vita accettabili per i negri “a casa loro”. Per Renzi dunque l’Italia non ha il “dovere morale di accogliere”, ma di “aiutare a casa loro”».
Eppure, aggiunge Saviano: «Renzi sa perfettamente che l’Italia realizza l’esatto contrario perché aiuta sì chi decide di lasciare il proprio paese, ma soprattutto coloro che restano ad ammazzarsi a casa propria. La prova? Le esportazioni di armi italiane: 2,7 miliardi di euro nel 2014. 7,9 miliardi di euro nel 2015. 14,6 miliardi di euro nel 2016. Queste cifre mostrano come è cresciuto negli ultimi 3 anni (e Renzi ne è al corrente) il valore complessivo delle esportazioni di armi dall’Italia».
E prosegue: «Ma il dato politicamente importante è il boom di vendite verso Paesi in guerra in violazione della legge 185/1990, che vieta l’esportazione e il transito di armamenti verso Paesi in stato di conflitto e responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. L’Italia nel 2014-2015 è stato l’unico paese della Ue ad aver fornito pistole, revolver, fucili e carabine alle forze di polizia e di sicurezza del regime di al Sisi. Con quale faccia chiedono verità per Giulio Regeni?».
Sta di fatto che le parole di Renzi appaiono stridenti nei confronti di entrambe le teoriche anime del PD; sia riguardo al comune sentire della sinistra, sia alle parole del Papa che invita a non respingere gli ultimi a ricordare che se l’Europa è così ricca lo deve anche ai frutti del colonialismo. Due anime che comunque, fino a pochi decenni fa, pur tra errori anche drammatici, miravano entrambe a raggiungere, anche se lo vedevano indubitabilmente diverso, quello che ritenevano essere il bene della polis. Le parole di Renzi mostrano senza infingimenti che lo scopo di quella che ci ostiniamo stolidamente a chiamare politica è soltanto quello di vincere le elezioni.
Ci dicono che è necessario vincerle se non si vuole che siano i grillini, o la destra, a governare l’Italia con le loro idee. Ma se io so con certezza che le idee della destra mi sono aliene e che quelle dei grillini sono vaganti, oltre che vaghe, e comunque sempre sottoposte al volere del capo, quali motivazioni politiche (nel senso vero del temine), quali idee – ammesso che ci siano e non dipendano soltanto dai sondaggi del giorno – potrebbero attrarmi nel partito di Renzi?
Pierluigi Bersani è rimasto in quella che considerava la sua “ditta” fino a quando non si è reso conto che non fabbricava più i prodotti tradizionali, ma cose nuove totalmente diverse, se non addirittura opposte. Ma più che di cambio di ragione sociale sarebbe stato giusto parlare di perdita di quell’anima che aveva dato vita al PD e che aveva attratto tanta gente di sinistra e tanta gente di centro che è stata disposta a sacrificare un pezzetto di sé pur di costruire una forza davvero riformista che avesse alcuni caposaldi solidissimi e irrinunciabili e altri obbiettivi procrastinabili nel tempo.
Forse sarebbe il caso che tanti che ancora sono nel PD, o che quantomeno pensano che lo voteranno ancora, si rendano conto che quando un partito perde l’anima la fa perdere anche a coloro che lì dentro rimangono. Fare opposizione può essere fastidioso, ma sopportabile; tradire i propri principi e quelli dei vecchi compagni di strada non può essere degno, né accettabile.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
Per secoli si è continuato a pensare alla politica legandola all’estensione del suo significato etimologico che la indicava come ricerca del bene per la polis che, nell’antica Grecia, era la città, ma contemporaneamente anche lo Stato. Poi la politica è diventata l’esercizio del potere e, infine, l’arte della conservazione del potere. E il bene della polis? Non interessa a molti e, comunque, è diventato un obbiettivo del tutto secondario scatenando così un inevitabile effetto uguale e contrario. Se, infatti, la politica dimostra che non le interessa della polis, perché mai alla polis dovrebbe importare della politica? E, in quest’ottica, non può sorprendere il fatto che ormai metà degli italiani non va più alle urne se non quando si rende conto, come in occasione del referendum costituzionale, che può decidere in maniera diretta della propria libertà e della sopravvivenza della democrazia.
Renzi ha girato di 180 gradi la tradizionale impostazione della sinistra sui migranti non per una gaffe, o perché illuminato sulla via di Damasco da una folgorazione su come risolvere un problema epocale e globale che è sempre esistito, ma che ora avvertiamo più distintamente perché tocca direttamente noi. Lo ha fatto, andando a ruota di Grillo, semplicemente perché è stato convinto a farlo dai sondaggi di opinione che da un po’ di tempo indicano quello della migrazione come il problema che potrà orientare consistenti quantità di voti nelle prossime elezioni politiche. Lo ha fatto non per governare la piazza, ma per dare l’idea di farsi governare dalla piazza; lo ha fatto proprio per quel populismo contro il quale vorrebbe ergersi a difensore e che vorrebbe distruggere non perché abietto, ma perché è già sfruttato dai suoi possibili avversari e non già da lui stesso.
Cito, sottoscrivendole totalmente, alcune frasi di Roberto Saviano: «Mi permetto di parafrasare così le parole del segretario del partito di centrosinistra, ossatura della maggioranza di governo: se vi considerate di sinistra non dovete sentirvi moralmente in colpa se iniziate ad avvertire impulsi razzisti. Non siete voi a essere razzisti, sono i negri a essere troppi. Ma vi assicuro che continuerò ad avere moralmente a cuore gli affari di chi tra voi produce armi da vendere ai paesi in guerra, impedendo che si creino condizioni di vita accettabili per i negri “a casa loro”. Per Renzi dunque l’Italia non ha il “dovere morale di accogliere”, ma di “aiutare a casa loro”».
Eppure, aggiunge Saviano: «Renzi sa perfettamente che l’Italia realizza l’esatto contrario perché aiuta sì chi decide di lasciare il proprio paese, ma soprattutto coloro che restano ad ammazzarsi a casa propria. La prova? Le esportazioni di armi italiane: 2,7 miliardi di euro nel 2014. 7,9 miliardi di euro nel 2015. 14,6 miliardi di euro nel 2016. Queste cifre mostrano come è cresciuto negli ultimi 3 anni (e Renzi ne è al corrente) il valore complessivo delle esportazioni di armi dall’Italia».
E prosegue: «Ma il dato politicamente importante è il boom di vendite verso Paesi in guerra in violazione della legge 185/1990, che vieta l’esportazione e il transito di armamenti verso Paesi in stato di conflitto e responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. L’Italia nel 2014-2015 è stato l’unico paese della Ue ad aver fornito pistole, revolver, fucili e carabine alle forze di polizia e di sicurezza del regime di al Sisi. Con quale faccia chiedono verità per Giulio Regeni?».
Sta di fatto che le parole di Renzi appaiono stridenti nei confronti di entrambe le teoriche anime del PD; sia riguardo al comune sentire della sinistra, sia alle parole del Papa che invita a non respingere gli ultimi a ricordare che se l’Europa è così ricca lo deve anche ai frutti del colonialismo. Due anime che comunque, fino a pochi decenni fa, pur tra errori anche drammatici, miravano entrambe a raggiungere, anche se lo vedevano indubitabilmente diverso, quello che ritenevano essere il bene della polis. Le parole di Renzi mostrano senza infingimenti che lo scopo di quella che ci ostiniamo stolidamente a chiamare politica è soltanto quello di vincere le elezioni.
Ci dicono che è necessario vincerle se non si vuole che siano i grillini, o la destra, a governare l’Italia con le loro idee. Ma se io so con certezza che le idee della destra mi sono aliene e che quelle dei grillini sono vaganti, oltre che vaghe, e comunque sempre sottoposte al volere del capo, quali motivazioni politiche (nel senso vero del temine), quali idee – ammesso che ci siano e non dipendano soltanto dai sondaggi del giorno – potrebbero attrarmi nel partito di Renzi?
Pierluigi Bersani è rimasto in quella che considerava la sua “ditta” fino a quando non si è reso conto che non fabbricava più i prodotti tradizionali, ma cose nuove totalmente diverse, se non addirittura opposte. Ma più che di cambio di ragione sociale sarebbe stato giusto parlare di perdita di quell’anima che aveva dato vita al PD e che aveva attratto tanta gente di sinistra e tanta gente di centro che è stata disposta a sacrificare un pezzetto di sé pur di costruire una forza davvero riformista che avesse alcuni caposaldi solidissimi e irrinunciabili e altri obbiettivi procrastinabili nel tempo.
Forse sarebbe il caso che tanti che ancora sono nel PD, o che quantomeno pensano che lo voteranno ancora, si rendano conto che quando un partito perde l’anima la fa perdere anche a coloro che lì dentro rimangono. Fare opposizione può essere fastidioso, ma sopportabile; tradire i propri principi e quelli dei vecchi compagni di strada non può essere degno, né accettabile.
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domenica 2 luglio 2017
Purezza e contaminazioni
Ineccepibile.
Renzi dice che «fuori dal Pd non c’è la vittoria del centrosinistra, ma
solo la sconfitta» e questa è attualmente un’asserzione difficilmente
confutabile. Quello che Renzi preferisce non dire è che dentro il PD di Renzi la
sinistra è già stata distrutta, sia nella sostanza, sia nella forma.
Nella sostanza promulgando leggi che Berlusconi avrebbe voluto fare
senza esserne capace: Jobs act, buona scuola, bonus a pioggia,
cancellazione parziale della progressività della tassazione come sulla
prima casa. Nella forma continuando a proclamare di sinistra azioni che
in realtà sono state limpidamente di destra.
Fuori dal PD si perde – dice – ma da una sconfitta si può anche trarre la forza per arrivare a una vittoria. Da una distruzione ben difficilmente si riesce a risorgere, almeno in tempi comparabili con una vita umana media.
Il fatto è che l’attuale segretario del PD usa i termini “destra” e “sinistra” non in una visione politica, bensì in una prospettiva di potere. Confutando il loro valore quando gli fa comodo gabellare come tecnicismo qualche decisione chiaramente schierata in maniera ideologica sul neoliberismo (il Jobs act ne è un esempio chiarissimo). Oppure resuscitando questi antichi termini se gli torna comodo perché conta di abbindolare qualcuno per assicurarsi il suo voto.
Alcuni dicono che la purezza, oltre che in genetica, è inaccettabile anche per chi vuole fare politica e che Renzi ha avuto successo proprio perché non ha rifiutato, ma, anzi, ha ricercato la contaminazione. Può essere, ma, come in genetica, anche in politica alla contaminazione è necessario porre un limite. Altrimenti la contaminazione diventa contagio, infezione, corruzione e, alla fine, morte. E per chi ancora crede che il concetto di destra e sinistra esistano e abbiano una loro sostanza e una loro validità questo rischio non è accettabile.
Se una colpa grave la sinistra ha avuto – e sicuramente ne ha avute più d’una – è stata quella di non reagire con decisione alle fascinazioni che sembravano essere soltanto mode estemporanee mentre, invece, erano ben congegnate manovre che miravano lontano e con piena consapevolezza.
Pensate alla crociata contro le ideologie che ha riempito la nostra società dagli anni Novanta in poi. Era una campagna che asseriva la necessità di distruggere le ideologie per rendere più facili i rapporti politici che erano troppo bloccati su posizioni filosoficamente molto solide, anche se i detrattori preferivano definirle preconcette. Il successo di quella crociata è stato strepitoso e quasi tutti, poi, sono stati molto felici di definirsi non ideologici, anti ideologici, post ideologici. Senza rendersi minimamente conto che un’ideologia era rimasta; sola e, visto che non aveva più avversari, imperante: quella del mercato. Che, tra l’altro, molti tentano di rendere più gradevole chiamandolo libero, mentre, invece, è dominato da pochi che fanno, a loro tornaconto, il bello e il cattivo tempo.
E il tramonto delle ideologie ha determinato anche la solitudine dell’agire politico perché erano diventati indistinti i punti di unione e di separatezza sui quali basarsi per decidere se accompagnarsi, o meno, con qualcuno. E così la politica, smarrita nella quotidianità e quasi priva di orizzonti culturali e sociali, ha finito per essere stritolata da una tenaglia che l’ha stretta e la stringe ancora tra la smania di ricchezza e la smania di potere.
Sarebbe drammatico lasciarsi affascinare ancora da quelle gradevoli storielle confezionate apposta per nascondere il veleno che c’è in loro. E per eliminare questo rischio, non c’è che una strada: insorgere immediatamente, a parole, non appena ci si rende conto che qualcosa in quello che ti raccontano non va.
Difficile capirlo? No: basta tenere ben fissi alcuni punti irrinunciabili: la giustizia e l’uguaglianza sociale, la necessità di ridurre le differenze e non di aumentarle, quello che Hannah Arendt e poi Stefano Rodotà avevano definito “il diritto di avere diritti”. E, poi, la nostra Costituzione, proprio quella che Renzi, affascinando con le sue storielle più d’uno, ha tentato, fortunatamente invano, di stravolgere.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
Fuori dal PD si perde – dice – ma da una sconfitta si può anche trarre la forza per arrivare a una vittoria. Da una distruzione ben difficilmente si riesce a risorgere, almeno in tempi comparabili con una vita umana media.
Il fatto è che l’attuale segretario del PD usa i termini “destra” e “sinistra” non in una visione politica, bensì in una prospettiva di potere. Confutando il loro valore quando gli fa comodo gabellare come tecnicismo qualche decisione chiaramente schierata in maniera ideologica sul neoliberismo (il Jobs act ne è un esempio chiarissimo). Oppure resuscitando questi antichi termini se gli torna comodo perché conta di abbindolare qualcuno per assicurarsi il suo voto.
Alcuni dicono che la purezza, oltre che in genetica, è inaccettabile anche per chi vuole fare politica e che Renzi ha avuto successo proprio perché non ha rifiutato, ma, anzi, ha ricercato la contaminazione. Può essere, ma, come in genetica, anche in politica alla contaminazione è necessario porre un limite. Altrimenti la contaminazione diventa contagio, infezione, corruzione e, alla fine, morte. E per chi ancora crede che il concetto di destra e sinistra esistano e abbiano una loro sostanza e una loro validità questo rischio non è accettabile.
Se una colpa grave la sinistra ha avuto – e sicuramente ne ha avute più d’una – è stata quella di non reagire con decisione alle fascinazioni che sembravano essere soltanto mode estemporanee mentre, invece, erano ben congegnate manovre che miravano lontano e con piena consapevolezza.
Pensate alla crociata contro le ideologie che ha riempito la nostra società dagli anni Novanta in poi. Era una campagna che asseriva la necessità di distruggere le ideologie per rendere più facili i rapporti politici che erano troppo bloccati su posizioni filosoficamente molto solide, anche se i detrattori preferivano definirle preconcette. Il successo di quella crociata è stato strepitoso e quasi tutti, poi, sono stati molto felici di definirsi non ideologici, anti ideologici, post ideologici. Senza rendersi minimamente conto che un’ideologia era rimasta; sola e, visto che non aveva più avversari, imperante: quella del mercato. Che, tra l’altro, molti tentano di rendere più gradevole chiamandolo libero, mentre, invece, è dominato da pochi che fanno, a loro tornaconto, il bello e il cattivo tempo.
E il tramonto delle ideologie ha determinato anche la solitudine dell’agire politico perché erano diventati indistinti i punti di unione e di separatezza sui quali basarsi per decidere se accompagnarsi, o meno, con qualcuno. E così la politica, smarrita nella quotidianità e quasi priva di orizzonti culturali e sociali, ha finito per essere stritolata da una tenaglia che l’ha stretta e la stringe ancora tra la smania di ricchezza e la smania di potere.
Sarebbe drammatico lasciarsi affascinare ancora da quelle gradevoli storielle confezionate apposta per nascondere il veleno che c’è in loro. E per eliminare questo rischio, non c’è che una strada: insorgere immediatamente, a parole, non appena ci si rende conto che qualcosa in quello che ti raccontano non va.
Difficile capirlo? No: basta tenere ben fissi alcuni punti irrinunciabili: la giustizia e l’uguaglianza sociale, la necessità di ridurre le differenze e non di aumentarle, quello che Hannah Arendt e poi Stefano Rodotà avevano definito “il diritto di avere diritti”. E, poi, la nostra Costituzione, proprio quella che Renzi, affascinando con le sue storielle più d’uno, ha tentato, fortunatamente invano, di stravolgere.
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mercoledì 28 giugno 2017
Al sindacato e alla politica
Ancora una volta
quasi tutta la gente che sente dentro di sé i valori di sinistra plaude
a quello che dice il Papa. E non perché quelle parole arrivino dalla
guida della Chiesa, ma perché Francesco sembra l’unico dotato di potere e
carisma a saper dire ancora parole di buon senso e di umanità. Ai
delegati al Congresso nazionale della Cisl, Papa Bergoglio ha detto con
forza: «È una società stolta e miope quella che costringe gli anziani a
lavorare troppo a lungo e obbliga un’intera generazione di giovani a non
lavorare quando dovrebbero farlo per loro e per tutti».
E poi ha continuato sottolineando che «Sindacato è una bella parola che proviene dal greco syn-dike, cioè “giustizia insieme”. E non c’è giustizia insieme - ha puntualizzato - se non è insieme agli esclusi. Il buon sindacato rinasce ogni giorno nelle periferie, trasforma le pietre scartate dell’economia in pietre angolari». E ancora: «Il capitalismo del nostro tempo non comprende il valore del sindacato, perché ha dimenticato la natura sociale dell’economia, dell’impresa. Ma forse la nostra società non capisce il sindacato perché non lo vede abbastanza lottare nelle periferie esistenziali». E, infine, prima di dedicarsi con puntiglio alla necessità di eliminare le discriminazioni sul lavoro tra uomini e donne, la denuncia più implacabile: «Il sindacato, col passare del tempo, ha finito per somigliare troppo ai partiti politici, al loro stile. E invece, se manca questa tipica e diversa dimensione, anche l’azione dentro le imprese perde forza ed efficacia».
L’assomigliare a un partito politico è diventato, insomma, una condanna. Ma, attenzione, a un partito politico di oggi, perché quelli di ieri il valore del lavoro, anche a livello di dignità, lo conoscevano bene, tanto da averne fatto la pietra angolare della Costituzione della nostra Repubblica che sul lavoro si fonda; una pietra che, a parole, tutti dicono di non voler toccare, ma che hanno continuamente indebolito e fessurato a furia di colpi, l’ultimo dei quali – possente e drammatico – è stato quel “Jobs act” che forse è davvero meglio sia chiamato con termini inglesi perché parlare di “Legge del lavoro” svilirebbe troppo anche il concetto di legge, oltre che quello di lavoro.
Non voglio insistere sul fatto che questo discorso sia stato fatto ai delegati della Cisl, il sindacato tradizionalmente più morbido nei confronti dei governi non di sinistra, ma non c’è dubbio che soltanto un sindacato si è ribellato al “Jobs act” proponendo, con oltre tre milioni di firme di cittadini sottoscrittori, anche un referendum che è stato scippato agli italiani con uno dei più vergognosi giochi delle tre carte che si siano mai visti nel Paese dove quel gioco per furbastri è stato inventato.
Ma ancor più del mondo sindacale a finire implicitamente sotto accusa è il mondo politico. E segnatamente, visto che dagli altri a livello sociale ben poco si potrebbe sperare, quello di centrosinistra che ha il suo più corposo, ma non più inequivoco riferimento nel Pd. Ed è in questo partito che il segretario Matteo Renzi, evidentemente accecato dall’ambizione personale, non si rende ancora conto che i numeri del Parlamento non sono più nemmeno lontani parenti di quelli esistenti davvero nel Paese e che continua a ripetere come un insensato mantra: «Basta parlare di coalizioni: le primarie le ho vinte io». E sempre in questo partito il presidente Matteo Orfini, nella sua smisurata cupidigia di servilismo nei confronti di chi crede abbia ancora il potere, si permette di tentare di allontanare Romano Prodi che ancora si spende generosamente per tentare di ricompattare un mondo che, dopo essere finito in frantumi, ora vede quei frantumi calpestati e ridotti in polvere da coloro che, invece, dovrebbero tentare di incollarli. A ancora in quel partito c’è Arturo Parisi (probabilmente in larga compagnia nel PD) che, riferendosi a Orfini, rifiuta di polemizzare dicendo : «Ho imparato a mordermi la lingua», mentre avrebbe dovuto imparare a fasciarsi la mano per non andare a votare per coloro che hanno ormai distrutto quello che era il punto di riferimento del centrosinistra e che ora è un ammaccato contenitore di nulla, capace di tentare alleanze di facciata, ma non di pensare di dividere la strada con nessuno che si dimostri anche poco meno che adorante dei confronti di chi voleva rottamare e ora ben difficilmente riuscirà a sfuggire al destino di essere rottamato, non dai suoi, ma dal resto degli italiani.
Ripartire da poco più di zero non è facile, ma non c’è altra strada perché ritrovare quel tanto di ideologie che ancora hanno valore e dignità e ricominciare a parlare con tutti non per convincere, o addirittura comandare, ma per ascoltare, sono attività ormai desuete. Eppure, anche se la fatica sarà enorme, questa è l’unica strada per tentar di salvare quella che era una democrazia assolutamente piena di difetti, ma che lasciava ancora speranze di poterla migliorare. E non soltanto perché fare peggio sarebbe impossibile.
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E poi ha continuato sottolineando che «Sindacato è una bella parola che proviene dal greco syn-dike, cioè “giustizia insieme”. E non c’è giustizia insieme - ha puntualizzato - se non è insieme agli esclusi. Il buon sindacato rinasce ogni giorno nelle periferie, trasforma le pietre scartate dell’economia in pietre angolari». E ancora: «Il capitalismo del nostro tempo non comprende il valore del sindacato, perché ha dimenticato la natura sociale dell’economia, dell’impresa. Ma forse la nostra società non capisce il sindacato perché non lo vede abbastanza lottare nelle periferie esistenziali». E, infine, prima di dedicarsi con puntiglio alla necessità di eliminare le discriminazioni sul lavoro tra uomini e donne, la denuncia più implacabile: «Il sindacato, col passare del tempo, ha finito per somigliare troppo ai partiti politici, al loro stile. E invece, se manca questa tipica e diversa dimensione, anche l’azione dentro le imprese perde forza ed efficacia».
L’assomigliare a un partito politico è diventato, insomma, una condanna. Ma, attenzione, a un partito politico di oggi, perché quelli di ieri il valore del lavoro, anche a livello di dignità, lo conoscevano bene, tanto da averne fatto la pietra angolare della Costituzione della nostra Repubblica che sul lavoro si fonda; una pietra che, a parole, tutti dicono di non voler toccare, ma che hanno continuamente indebolito e fessurato a furia di colpi, l’ultimo dei quali – possente e drammatico – è stato quel “Jobs act” che forse è davvero meglio sia chiamato con termini inglesi perché parlare di “Legge del lavoro” svilirebbe troppo anche il concetto di legge, oltre che quello di lavoro.
Non voglio insistere sul fatto che questo discorso sia stato fatto ai delegati della Cisl, il sindacato tradizionalmente più morbido nei confronti dei governi non di sinistra, ma non c’è dubbio che soltanto un sindacato si è ribellato al “Jobs act” proponendo, con oltre tre milioni di firme di cittadini sottoscrittori, anche un referendum che è stato scippato agli italiani con uno dei più vergognosi giochi delle tre carte che si siano mai visti nel Paese dove quel gioco per furbastri è stato inventato.
Ma ancor più del mondo sindacale a finire implicitamente sotto accusa è il mondo politico. E segnatamente, visto che dagli altri a livello sociale ben poco si potrebbe sperare, quello di centrosinistra che ha il suo più corposo, ma non più inequivoco riferimento nel Pd. Ed è in questo partito che il segretario Matteo Renzi, evidentemente accecato dall’ambizione personale, non si rende ancora conto che i numeri del Parlamento non sono più nemmeno lontani parenti di quelli esistenti davvero nel Paese e che continua a ripetere come un insensato mantra: «Basta parlare di coalizioni: le primarie le ho vinte io». E sempre in questo partito il presidente Matteo Orfini, nella sua smisurata cupidigia di servilismo nei confronti di chi crede abbia ancora il potere, si permette di tentare di allontanare Romano Prodi che ancora si spende generosamente per tentare di ricompattare un mondo che, dopo essere finito in frantumi, ora vede quei frantumi calpestati e ridotti in polvere da coloro che, invece, dovrebbero tentare di incollarli. A ancora in quel partito c’è Arturo Parisi (probabilmente in larga compagnia nel PD) che, riferendosi a Orfini, rifiuta di polemizzare dicendo : «Ho imparato a mordermi la lingua», mentre avrebbe dovuto imparare a fasciarsi la mano per non andare a votare per coloro che hanno ormai distrutto quello che era il punto di riferimento del centrosinistra e che ora è un ammaccato contenitore di nulla, capace di tentare alleanze di facciata, ma non di pensare di dividere la strada con nessuno che si dimostri anche poco meno che adorante dei confronti di chi voleva rottamare e ora ben difficilmente riuscirà a sfuggire al destino di essere rottamato, non dai suoi, ma dal resto degli italiani.
Ripartire da poco più di zero non è facile, ma non c’è altra strada perché ritrovare quel tanto di ideologie che ancora hanno valore e dignità e ricominciare a parlare con tutti non per convincere, o addirittura comandare, ma per ascoltare, sono attività ormai desuete. Eppure, anche se la fatica sarà enorme, questa è l’unica strada per tentar di salvare quella che era una democrazia assolutamente piena di difetti, ma che lasciava ancora speranze di poterla migliorare. E non soltanto perché fare peggio sarebbe impossibile.
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sabato 10 giugno 2017
Cupio dissolvi anticipato
Pare
impossibile, ma la politica – continuiamo a chiamarla così giusto per
capirci, ma ormai è chiaro a tutti che si tratta assolutamente di
un’altra cosa – continua a lasciarci esterrefatti. Renzi dopo il suo
ennesimo naufragio che questa volta ha cancellato il suo progetto di
legge elettorale e soprattutto il suo sogno di rientro veloce a Palazzo
Chigi, riesce a far finta di dimenticare tutto quello che ha detto fino a
ieri su possibili, anzi probabili, alleanze con Berlusconi e, con la
sua solita invidiabile faccia tosta, cambia repentinamente direzione e
si rivolge verso Pisapia ipotizzando un accordo a sinistra che, secondo
lui, sarebbe utile al possibile “Campo progressista” non per superare la
soglia dell’otto per cento attualmente fissata al Senato come
sbarramento per i partiti singoli, ma per creare una coalizione che fa
crollare la soglia al tre per cento. E, naturalmente, nessun accordo più
a destra, ma neppure al centro: «Con Alfano non se ne parla». Ma a
stupire è anche il tono della replica di Pisapia: «Se davvero vuole la
coalizione di centrosinistra, faccia le primarie. Poi vediamo chi le
vince».
Comunque andiamo con ordine, partendo dal mistero del PD, partito “a vocazione maggioritaria” fondato sul finire del 2007 con il sogno di rendere reale quello che, in altri tempi e con altre persone, era stato definito “compromesso storico” e mai riuscito compiutamente né a essere maggioritario, né a far convivere le sue due anime.
Ebbene, il PD è al suo quinto segretario e non ne ha mai perdonata una ai primi quattro: Veltroni (ottobre 2007 – febbraio 2009) ha dovuto dimettersi dopo la sconfitta alle regionali sarde; Dario Franceschini (marzo – ottobre 2009) fallisce per la sconfitta alle Europee che non riesce nemmeno a preparare perché che arrivano subito dopo la sua elezione; Pier Luigi Bersani (ottobre 2009 – aprile 2013) si dimette per aver “vinto troppo poco” le Politiche. Infine, Guglielmo Epifani (maggio – dicembre 2013) che fa soltanto da traghettatore verso una nuova segreteria.
Insomma, non solo una vocazione maggioritaria, ma anche una visibile insofferenza nei riguardi dei “non vincenti”. Poi arriva Renzi che dopo aver pugnalato alle spalle Letta e aver costituito un “governo di larghe intese” con il centrodestra, comincia benissimo superando il 40 per cento alle Europee, ma poi infila una serie di rovesci da collezione: il crollo dell’affluenza in Emilia, le brucianti sconfitte alle Amministrative del 2015 che fanno perdere al PD regioni e città tradizionalmente orientate a sinistra, gli ancor più brucianti disastri alle Amministrative del 2016 con le perdite – tanto per fare soltanto tre nomi – di Roma, Torino e Trieste. E poi, il 4 dicembre, arriva la disfatta al referendum costituzionale voluto da Renzi quando il vento sembrava soffiargli a favore e che scambiava volentieri la distruzione della nostra Carta fondamentale con un maggiore potere all’esecutivo che Renzi neppure sognava potesse non essere legato al suo nome.
Ebbene, mentre ai primi segretari nulla è stato perdonato, a Renzi tutto si perdona, tanto da farlo rieleggere largamente dopo delle dimissioni chiaramente fittizie e dopo l’uscita di tanti padri nobili dal partito e l’allontanarsi di una moltitudine di elettori: gli si perdona non soltanto il susseguirsi di sconfitte, ma anche il fatto di voler portare sempre più a destra il PD. Anche se, vista l’ultima offerta fatta a Pisapia, risulta sempre più evidente che a Renzi poco importa della propria collocazione politica e che non agisce seguendo ideali sociali, ma cerca soltanto di andare dove pensa di poter trarre i maggiori vantaggi: prima a destra e ora a sinistra.
Il mistero maggiore resta, comunque, come quelli che continuano a restare nel PD e, contemporaneamente, a professarsi di centrosinistra, non abbiano defenestrato Renzi, o non se ne siano andati.
Ma un mistero ancora più grande – e, dal punto di vista mio, più preoccupante – è la risposta di Pisapia: «Se davvero vuole la coalizione di centrosinistra, faccia le primarie. Poi vediamo chi le vince».
L’unica speranza è che si tratti di una risposta carica di ironia voluta, ma non ben espressa. Ma, se così non è e se Pisapia coltiva ancora – come aveva a suo tempo detto – la speranza di fare una coalizione con un PD a guida Renzi, ci cadono le braccia. E perché non anche delle primarie aperte a Berlusconi, ad Alfano (anche se a Renzi pare non vada più), a Verdini? Sono anche loro persone che massacrano volentieri i lavoratori, che difendono i patrimoni, che salvano non le banche e le imprese di Stato o le partecipate, ma coloro che le dirigono e che passano da un fallimento all’altro incassando ogni volta delle liquidazione da favola, o – meglio – da vergogna.
Probabilmente si tratta di ironia, visto che Pisapia ha anche aggiunto che «Rimango sempre favorevole al dialogo, ma tenendo fermo il punto che qualsiasi alleanza con il centrodestra è contro i nostri valori, oltre che un inganno agli elettori». Ma vorremmo fosse chiaro, oltre al fatto che Renzi non è di centrosinistra, che se il teorico “Campo progressista” pensa di partire e procedere ancora una volta soltanto con dialoghi e discussioni tra i capi, decidendo poi a prescindere da quello che pensano i suoi possibili elettori, allora quel “cupio dissolvi” che ormai attanaglia il PD come forza progressista, minaccia di estendersi anche al progetto di una nuova forza davvero di centrosinistra. E sarebbe ancora più grave perché sarebbe un “cupio dissolvi” anticipato che si applicherebbe prima di qualsiasi nascita; addirittura alla speranza.
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Comunque andiamo con ordine, partendo dal mistero del PD, partito “a vocazione maggioritaria” fondato sul finire del 2007 con il sogno di rendere reale quello che, in altri tempi e con altre persone, era stato definito “compromesso storico” e mai riuscito compiutamente né a essere maggioritario, né a far convivere le sue due anime.
Ebbene, il PD è al suo quinto segretario e non ne ha mai perdonata una ai primi quattro: Veltroni (ottobre 2007 – febbraio 2009) ha dovuto dimettersi dopo la sconfitta alle regionali sarde; Dario Franceschini (marzo – ottobre 2009) fallisce per la sconfitta alle Europee che non riesce nemmeno a preparare perché che arrivano subito dopo la sua elezione; Pier Luigi Bersani (ottobre 2009 – aprile 2013) si dimette per aver “vinto troppo poco” le Politiche. Infine, Guglielmo Epifani (maggio – dicembre 2013) che fa soltanto da traghettatore verso una nuova segreteria.
Insomma, non solo una vocazione maggioritaria, ma anche una visibile insofferenza nei riguardi dei “non vincenti”. Poi arriva Renzi che dopo aver pugnalato alle spalle Letta e aver costituito un “governo di larghe intese” con il centrodestra, comincia benissimo superando il 40 per cento alle Europee, ma poi infila una serie di rovesci da collezione: il crollo dell’affluenza in Emilia, le brucianti sconfitte alle Amministrative del 2015 che fanno perdere al PD regioni e città tradizionalmente orientate a sinistra, gli ancor più brucianti disastri alle Amministrative del 2016 con le perdite – tanto per fare soltanto tre nomi – di Roma, Torino e Trieste. E poi, il 4 dicembre, arriva la disfatta al referendum costituzionale voluto da Renzi quando il vento sembrava soffiargli a favore e che scambiava volentieri la distruzione della nostra Carta fondamentale con un maggiore potere all’esecutivo che Renzi neppure sognava potesse non essere legato al suo nome.
Ebbene, mentre ai primi segretari nulla è stato perdonato, a Renzi tutto si perdona, tanto da farlo rieleggere largamente dopo delle dimissioni chiaramente fittizie e dopo l’uscita di tanti padri nobili dal partito e l’allontanarsi di una moltitudine di elettori: gli si perdona non soltanto il susseguirsi di sconfitte, ma anche il fatto di voler portare sempre più a destra il PD. Anche se, vista l’ultima offerta fatta a Pisapia, risulta sempre più evidente che a Renzi poco importa della propria collocazione politica e che non agisce seguendo ideali sociali, ma cerca soltanto di andare dove pensa di poter trarre i maggiori vantaggi: prima a destra e ora a sinistra.
Il mistero maggiore resta, comunque, come quelli che continuano a restare nel PD e, contemporaneamente, a professarsi di centrosinistra, non abbiano defenestrato Renzi, o non se ne siano andati.
Ma un mistero ancora più grande – e, dal punto di vista mio, più preoccupante – è la risposta di Pisapia: «Se davvero vuole la coalizione di centrosinistra, faccia le primarie. Poi vediamo chi le vince».
L’unica speranza è che si tratti di una risposta carica di ironia voluta, ma non ben espressa. Ma, se così non è e se Pisapia coltiva ancora – come aveva a suo tempo detto – la speranza di fare una coalizione con un PD a guida Renzi, ci cadono le braccia. E perché non anche delle primarie aperte a Berlusconi, ad Alfano (anche se a Renzi pare non vada più), a Verdini? Sono anche loro persone che massacrano volentieri i lavoratori, che difendono i patrimoni, che salvano non le banche e le imprese di Stato o le partecipate, ma coloro che le dirigono e che passano da un fallimento all’altro incassando ogni volta delle liquidazione da favola, o – meglio – da vergogna.
Probabilmente si tratta di ironia, visto che Pisapia ha anche aggiunto che «Rimango sempre favorevole al dialogo, ma tenendo fermo il punto che qualsiasi alleanza con il centrodestra è contro i nostri valori, oltre che un inganno agli elettori». Ma vorremmo fosse chiaro, oltre al fatto che Renzi non è di centrosinistra, che se il teorico “Campo progressista” pensa di partire e procedere ancora una volta soltanto con dialoghi e discussioni tra i capi, decidendo poi a prescindere da quello che pensano i suoi possibili elettori, allora quel “cupio dissolvi” che ormai attanaglia il PD come forza progressista, minaccia di estendersi anche al progetto di una nuova forza davvero di centrosinistra. E sarebbe ancora più grave perché sarebbe un “cupio dissolvi” anticipato che si applicherebbe prima di qualsiasi nascita; addirittura alla speranza.
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giovedì 8 giugno 2017
Cercando una discontinuità
Per Dante non ci
sono dubbi: i bugiardi, i falsari, i truffatori – quelli di cui parla
nel trentesimo canto dell’Inferno – sono evitati da tutti perché puzzano
e sono tanto rabbiosi, forse perché i loro tentativi di imbroglio non
sono andati a buon fine, che finiscono per azzuffarsi tra loro. Sembra
una descrizione ante litteram di parte dell’attuale politica italiana in
cui a dominare non sono coloro che operano per il bene di tutti, ma
quelli che fuori dal Parlamento sarebbero incriminati per millantato
credito e che dentro il Parlamento si accusano l’un l’altro di tentata
truffa, dimenticando bellamente tutte le proprie promesse non mantenute,
tutti i tradimenti effettuati a scrutinio segreto.
Talvolta, come nel caso di questo mostro di legge elettorale che pretende di richiamarsi al modello tedesco con il quale, però, ha più differenze che rassomiglianze, il caos che ne deriva può rivelarsi addirittura benefico facendo naufragare l’ulteriore progetto di allontanare sempre più la gente da quel potere di scelta che dovrebbe essere sacrosanto se ci si vuole richiamare alla parola democrazia senza arrossire. Sta di fatto, però che, se naufraga la legge, non scompare l’inclinazione alla bugia.
Questa volta – e non è la prima – sono i grillini a essere colti con le mani nel sacco grazie a un intoppo – casuale? – del tabellone elettronico che ha reso palese quello che doveva essere un voto segreto su un emendamento, ma sentire il capogruppo PD, Ettore Rosato, dire che «Oggi il M5S ha dimostrato che la sua parola non vale nulla» non può non far sorridere perché sostanzialmente è vero, ma si passa allegramente sopra il fatto che i franchi tiratori sono sempre stati una specialità del PD e che questo non si è verificato soltanto con la mancata elezione presidenziale di Romano Prodi. Anche se quello è stato il vertice dello schifo di un partito che cancella il proprio fondatore per le necessità di un altro capo.
E anche Emanuele Fiano, il dem relatore della legge, sprofonda nel ridicolo scrivendo su twitter che «Non siamo abituati a fare accordi politici con persone che dicono una cosa e ne fanno un'altra». Come se Berlusconi fosse un esempio di consequenzialità tra il dire e il fare e dimenticando che uno dei migliori professionisti nel promettere e non fare è proprio Matteo Renzi.
Ma il problema non è tanto nella legge elettorale che probabilmente - ma non ancora sicuramente visto che era comoda per i quattro giocatori al tavolo - naufragherà e che comunque sarà sostituita da qualcosa di indigeribile e che avrà come unica caratteristica certa quella di evitare che siano gli elettori a decidere chi li deve rappresentare. Il dramma è che non si vede come si potrà interrompere questo circolo vizioso che viene alimentato proprio da coloro che vi abitano già stabilmente e che non vogliono permettere ad altri di inserirsi per cambiare qualcosa.
Giustamente Nadia Urbinati parla de “L’età dell’indifferenza” da parte degli elettori e altrettanto giustamente specifica che questa indifferenza non è nei confronti della politica, ma riguarda i partiti che ormai sono «giudicati misere machine elettorali finalizzati a favorire coloro (i pochi) che più sono attratti dall’esercizio del potere e dai privilegi a esso associati».
L’unica strada per uscire dalla palude è conosciuta da tempo, ma è poco frequentata ed è quella di mettersi in gioco, non necessariamente per andarsi a sedere su qualche scranno, ma soltanto per parlare, discutere, esporre le proprie idee; impegnarsi, insomma, quantomeno a non restare desolantemente muti davanti a tutte le tante brutture psedopolitiche che vediamo accadere ogni giorno.
E poi ci vorrebbe una vera discontinuità con questo Parlamento di eletti con una legge elettorale non costituzionale che vuole fare altre leggi elettorali che già puzzano di incostituzionalità e che devono essere frettolosamente cambiate in commissione per ripulirle almeno dalle macchi più evidenti. E l’unico modo per creare questa discontinuità è quella di tornare alle origini con un’elezione puramente proporzionale e con preferenze per scegliere un Parlamento che debba avere come compiti precipui quelli di mantenere i conti a posto e di individuare finalmente delle regole serie e certe. E poi di ridare la parola agli elettori.
Si dirà che sarebbe ben difficile formare una maggioranza. È anche probabile, ma tutti sondaggi affermano che anche con i colpi di genio di Renzi, Berlusconi, Grillo e Salvini, non ci sarebbe alcuna maggioranza possibile. E si tornerebbe in breve alle urne senza neppure avere cambiato le regole.
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Talvolta, come nel caso di questo mostro di legge elettorale che pretende di richiamarsi al modello tedesco con il quale, però, ha più differenze che rassomiglianze, il caos che ne deriva può rivelarsi addirittura benefico facendo naufragare l’ulteriore progetto di allontanare sempre più la gente da quel potere di scelta che dovrebbe essere sacrosanto se ci si vuole richiamare alla parola democrazia senza arrossire. Sta di fatto, però che, se naufraga la legge, non scompare l’inclinazione alla bugia.
Questa volta – e non è la prima – sono i grillini a essere colti con le mani nel sacco grazie a un intoppo – casuale? – del tabellone elettronico che ha reso palese quello che doveva essere un voto segreto su un emendamento, ma sentire il capogruppo PD, Ettore Rosato, dire che «Oggi il M5S ha dimostrato che la sua parola non vale nulla» non può non far sorridere perché sostanzialmente è vero, ma si passa allegramente sopra il fatto che i franchi tiratori sono sempre stati una specialità del PD e che questo non si è verificato soltanto con la mancata elezione presidenziale di Romano Prodi. Anche se quello è stato il vertice dello schifo di un partito che cancella il proprio fondatore per le necessità di un altro capo.
E anche Emanuele Fiano, il dem relatore della legge, sprofonda nel ridicolo scrivendo su twitter che «Non siamo abituati a fare accordi politici con persone che dicono una cosa e ne fanno un'altra». Come se Berlusconi fosse un esempio di consequenzialità tra il dire e il fare e dimenticando che uno dei migliori professionisti nel promettere e non fare è proprio Matteo Renzi.
Ma il problema non è tanto nella legge elettorale che probabilmente - ma non ancora sicuramente visto che era comoda per i quattro giocatori al tavolo - naufragherà e che comunque sarà sostituita da qualcosa di indigeribile e che avrà come unica caratteristica certa quella di evitare che siano gli elettori a decidere chi li deve rappresentare. Il dramma è che non si vede come si potrà interrompere questo circolo vizioso che viene alimentato proprio da coloro che vi abitano già stabilmente e che non vogliono permettere ad altri di inserirsi per cambiare qualcosa.
Giustamente Nadia Urbinati parla de “L’età dell’indifferenza” da parte degli elettori e altrettanto giustamente specifica che questa indifferenza non è nei confronti della politica, ma riguarda i partiti che ormai sono «giudicati misere machine elettorali finalizzati a favorire coloro (i pochi) che più sono attratti dall’esercizio del potere e dai privilegi a esso associati».
L’unica strada per uscire dalla palude è conosciuta da tempo, ma è poco frequentata ed è quella di mettersi in gioco, non necessariamente per andarsi a sedere su qualche scranno, ma soltanto per parlare, discutere, esporre le proprie idee; impegnarsi, insomma, quantomeno a non restare desolantemente muti davanti a tutte le tante brutture psedopolitiche che vediamo accadere ogni giorno.
E poi ci vorrebbe una vera discontinuità con questo Parlamento di eletti con una legge elettorale non costituzionale che vuole fare altre leggi elettorali che già puzzano di incostituzionalità e che devono essere frettolosamente cambiate in commissione per ripulirle almeno dalle macchi più evidenti. E l’unico modo per creare questa discontinuità è quella di tornare alle origini con un’elezione puramente proporzionale e con preferenze per scegliere un Parlamento che debba avere come compiti precipui quelli di mantenere i conti a posto e di individuare finalmente delle regole serie e certe. E poi di ridare la parola agli elettori.
Si dirà che sarebbe ben difficile formare una maggioranza. È anche probabile, ma tutti sondaggi affermano che anche con i colpi di genio di Renzi, Berlusconi, Grillo e Salvini, non ci sarebbe alcuna maggioranza possibile. E si tornerebbe in breve alle urne senza neppure avere cambiato le regole.
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giovedì 1 giugno 2017
Ricordando Gigi Raimondi
Luigi
Raimondi, come quasi tutti gli umani, non ha potuto scegliere quando,
né perché lasciare questo mondo, ma, come pochissimi umani, ha voluto
decidere come andarsene e, dopo una vita in prima linea – e non è
assolutamente una frase fatta – ha chiesto di andarsene in silenzio e ha
lasciato alla moglie Paola l’incarico di avvertire «quanti lo hanno
conosciuto» con un paio di scarne righe «a cremazione avvenuta».
Militante antifascista, combattente durante la seconda guerra mondiale e
nella guerra di Liberazione, poi insegnante e instancabile testimone
della storia e degli ideali partigiani, non ha mai amato eccessivamente
l’apparire in pubblico, ma ne ha accettato l’obbligo perché la
testimonianza implica la necessità di farsi sentire.
Non voglio infrangere il suo
desiderio di silenzio, ma mi sembra doveroso ricordarlo con affetto e
con rispetto e, per farlo, pubblico a seguire una delle presentazioni
che mi aveva chiamato a fare per i suoi libri. Si era in sala Ajace, a
Udine, nel dicembre del 2011, e il libro era “Poesie di lotta e di speranza”, un titolo che ha esemplarmente racchiuso due delle spinte più importanti della sua lunga vita.
Eccovi il testo
Se è vero – come ha detto Aristotele – che «la poesia è più filosofica e di più alto valore che la storia», allora non può stupire se questo nuovo libro di Luigi Raimondi finisce per carpire fin da subito l’attenzione di chi vi si accosta sia perché storia e poesia qui sono fortemente connesse, sia in quanto al pregio dell’approfondimento poetico, si aggiunge quello della chiarificazione e puntualizzazione da parte della prosa con cui l’autore accompagna ognuno di questi circa sessanta frammenti dedicati a protagonisti e ad avvenimenti della storia d’Italia e del Friuli; sono liriche scritte tra il 1944 e il 2009, ma praticamente tutte riferite e legate a quello stesso periodo della Seconda guerra mondiale e della guerra di Liberazione. Una prosa in cui racconta storie, spiega se stesso con i suoi ragionamenti e le sue emozioni, scruta nell’animo umano, chiarisce perché in certi momenti si agisca – si debba agire – in maniere totalmente diverse di come si opera in altri momenti.
La poesia, così, rimane sempre a stretto contatto con la storia, la storia personale di Luigi, una storia di grande peso, spesso difficile da portare sulle spalle. Ma anche con la Storia – quella con la “S” maiuscola – con cui lui è venuto a diretto contatto, vivendola non soltanto da protagonista, ma anche da osservatore attento e sensibile.
Il rapporto tra poesia e guerra è sempre stato mutevole, proprio come mutevole è stato l’atteggiamento dell’uomo nei confronti dei conflitti. Nella letteratura ottocentesca, con Alessandro Manzoni, o Walter Scott, la guerra è vista come un’esperienza nobile, la tragedia è caratterizzata e mitigata dall’eroismo e dalla convinzione di battersi per alti ideali. Nel Novecento, invece, la guerra diventa un orrore, una tragedia assurda che non trova giustificazioni se non nell’autodifesa, mentre con le drammatiche situazioni belliche di sofferenze, privazioni e paure, l’esperienza della guerra diventa quasi uno stimolo all’interrogazione poetica di sé.
Vale la pena di andare con il pensiero a Giuseppe Ungaretti e alla sua folgorante «Si sta / come d’autunno / sugli alberi / le foglie» fatta con stile scarno e drammatico, a Salvatore Quasimodo che preferisce, invece, esprimersi con periodi lunghi e scorrevoli che affrontano la solitudine, la precarietà della vita e lo sfiorire delle illusioni, a Umberto Saba che si rifiuta di permettere alla guerra di privare l’essere umano di ogni sentimento e ricordo, nonché di congelare il suo cuore, a Primo Levi che analizza nel profondo il disastro della guerra che coincide con il disastro dell’uomo privato di ogni sentimento, di ogni dignità.
In questo quadro Luigi Raimondi sceglie un’altra via che, se per la speranza che sottende, sembra portare a Saba, per la violenza fisica e mentale che racconta, segue, invece, la strada di quel neorealismo che ha fatto la fortuna sia del cinema, sia della letteratura italiana di un certo periodo, con un modo di narrare che si propone di presentare al lettore il vero, senza mutarne artificiosamente la realtà con infingimenti che la possano variare né in positivo, né in negativo. E così ci troviamo di fronte a narrazioni crude che, anziché smussare gli angoli della violenza, finiscono addirittura, per contrasto, per accentuarne la disperata volgarità in un mondo infernale da cui nessuno potrà uscire – se mai ne uscirà – come vi era entrato; in cui la storia diventa severa e implacabile “magistra vitae”.
Ma queste narrazioni sono anche capaci di graffiare e scalfire il nostro spirito, e contemporaneamente ci fanno pensare, e quindi ci arricchiscono. Benedetto Croce diceva che «nella vera poesia le espressioni che suonano più semplici ci riempiono di sorpresa e di gioia perché rivelano noi a noi stessi» e infatti queste poesie sono capaci di comprimere le distanze di tempo, di restituire anche a chi non li ha vissuti, quei climi, quei sentimenti sempre un po’ al di sopra delle righe, come al di sopra delle righe erano anche la vita e la morte stesse. Qui non si usa, per trasmettere un messaggio, il significato semantico delle parole insieme al suono e al ritmo che queste imprimono alle frasi. Qui, per trasmettere emozioni e stati d’animo in maniera evocativa e potente, basta una lingua scarna e, quindi, spesso aspra; è sufficiente quella commistione – che talvolta sembra quasi inconsapevole – tra italiano e dialetto che per noi triestini, istriani e dalmati diventa naturale perché sappiamo che il nostro dialetto era una specie di lingua franca nata per capire e farci capirci in mezzo a una babele marittima di linguaggi, in un mondo in cui comunque si riusciva sempre a stare insieme. E così, mentre per rispetto agli altri, nella vita di ogni giorno si parla in italiano, appena ci sentiamo a casa, o tra amici, o in situazioni di intimità con noi stessi, il dialetto parte automaticamente e consente si addolcire o inasprire, arrotondare o acutizzare, l’espressione di concetti e sentimenti.
In questo quadro mi sembra importante soffermarmi un po’ di più sui concetti di lotta e di speranza messi così vicini, legati non soltanto dalla collocazione nello spazio del medesimo titolo, della stessa riga tipografica, ma stretti assieme come simboli che necessitano l’uno dell’altro per rafforzarsi e arricchirsi vicendevolmente. Non può esserci speranza, infatti, senza lotta; né può esserci lotta senza speranza.
Se questo secondo concetto può apparire intuitivo in quanto, se uno non crede minimamente di potersi salvare, tende a rassegnarsi, a limitare il più possibile i danni, o a far finire rapidamente la sofferenza, è il primo quello che, pur sottovalutato, credo sia fondamentale nella vita di ogni uomo anche nella cosiddetta vita quotidiana che tanto quotidiana – se per quotidiana intendiamo solita – quasi sempre non è.
Di fronte alla difficoltà ci si può porre con fede miracolistica che deriva da una definitiva rassegnazione; con aspettativa dell’aiuto degli altri che nasce da una propria abitudine all’inazione; con vibranti richieste di aiuto se ci si pensa troppo deboli addirittura per tentare qualcosa; con triste silenzio se si pensa che nulla più possa essere fatto. Ma la speranza può essere concepita come vera, reale, possibile soltanto se alla sua base ci sono la voglia e la capacità di lottare che a loro volta derivano dal ribollire interiore della rabbia, dell’indignazione, della voglia di giustizia, della convinzione che la democrazia sia il bene maggiore a cui su questa terra un uomo possa tendere.
Il divenire del mondo, in tutti i campi, è stato deciso da questa stretta connessione tra lotta e speranza, tra voglia di fare e determinazione ad arrivare. Ogni rivoluzione, ogni resistenza, ogni progresso sociale, ogni conquista scientifica sono derivati dal rifiuto della rassegnazione e dalla conseguente capacità di mettersi in gioco fino alle estreme conseguenze.
A questo punto comprendiamo benissimo che il problema determinante del mondo di oggi è quello di riuscire a capire perché, almeno apparentemente, noi non siamo più capaci di lottare e, quindi, in definitiva, di sperare. Questa volta i nemici non sono il fascismo, o il nazismo; lo scopo non è quello di liberare l’Italia dagli invasori. Oggi i nemici sono soprattutto gli approfittatori e gli egoisti, coloro che usano i poteri finanziari per affamare un mondo intero allo scopo di avere più potere per sé, per spadroneggiare su intere nazioni che ormai non hanno potere – o non vogliono trovarlo – per opporsi a persone e organizzazioni che operano al di fuori della legge e dell’etica.
E davanti a questa situazione continuo a domandarmi perché siamo così sensibili alle invasioni dei nostri territori, e così poco sensibili alle invasioni dei nostri diritti. Davanti alle invasioni dei territori siamo capaci di organizzare resistenze; davanti alle invasioni dei nostri diritti, siamo lì come inebetiti a lamentarci un po’ e a lasciar fare.
Pensiamo al nostro Paese, a noi stessi in questo momento. Dopo essere rimasti praticamente inerti per tanti anni davanti al disastro berlusconiano, oggi oscilliamo tra la fede miracolistica in un governo tecnico che ha il pregio della competenza, e il timore profondo di un governo tecnico che, per definizione, è lontano dalla democrazia; anzi, per essere più preciso, che a lei è indifferente. Sproniamo altri a fare per noi, ma con grande attenzione a che tocchino i privilegi degli altri e non i nostri e soltanto raramente finiamo per rimetterci in gioco e abbiamo il coraggio, non di prendere in mano un’arma e di rischiare di uccidere e di morire, ma neppure quello di prendere in mano un’opinione e rischiare di essere contraddetti, o presi in giro, o anche vilipesi, o discriminati per il coraggio delle nostre opinioni.
La realtà è che abbiamo delegato troppo, non abbiamo usato la democrazia rappresentativa, ma l’abbiamo stravolta, svilendola nel ruolo e nella sostanza, usandola soltanto come comodo alibi per non rischiare, per non sporcarci le mani, per non metterci la faccia, per non sudare eccessivamente. La realtà è che siamo diventati molto diversi dai nostri genitori. A rileggere il libro di Luigi questa discrasia, questa distanza tra noi e chi ci ha preceduto diventa abbagliante e abissale, profonda e umiliante.
Ma davvero noi non siamo in grado di reagire? Oppure potremmo essere ancora in grado di insorgere, ma non riusciamo ancora a sollevarci da quel comodo divano nel quale ci hanno fatto sedere facendoci credere che le conquiste fatte dai nostri padri sarebbero durate per sempre e senza bisogno di essere difese?
Sarebbe interessante, ma non fondamentale, capire se la nostra stirpe si è rovinata per naturale involuzione non trovando più in sé il coraggio di fare quello che va fatto, o se invece la cosa deriva da un torpore indotto e instillato in noi con deliberata determinazione. Fondamentale, invece, è chiedersi se e come troveremo la determinazione a rialzarci perché la risposta a questo interrogativo è dirimente per capire il futuro non soltanto dell’Italia, ma dell’intera società occidentale, di quella stessa società in cui noi viviamo e sulla quale ci siamo plasmati a nostro piacere, dopo averla modellata con rigore etico e intellettuale.
E non equivochiamo: Raimondi mette bene in chiaro che per mantenere la propria dignità non si tratta di ricorrere a reazioni violente, ma soltanto di non abbandonare la propria umanità, di difendere quella democrazia e quella Costituzione che proprio Luigi e quelli che hanno combattuto assieme a lui hanno conquistato e poi ci hanno regalato. «Per non cadere in riprovevoli reazioni – scrive – quando i neofascisti tenevano un comizio o una manifestazione a Treviso, non restavo mai in città. L’abitudine al combattimento si annullò lentamente, quasi del tutto». Egli, infatti è intimamente e fieramente pacifista, perfettamente in linea con la stragrande maggioranza dei combattenti di quella volta che sono oggi i pacifisti più convinti.
E questa non è una contraddizione perché i partigiani hanno deciso di combattere proprio per assicurare a se stessi e agli altri un periodo di pace e lo hanno fatto con un’incoscienza disperata, o con una coscienza piena di speranze, il che, in definiva è proprio la medesima cosa. Sono stati giovani e anziani molto simili a don Chisciotte che assolutamente non era – come a prima vista potrebbe apparire – schiavo di un’inutilità derivante dalla propria pazzia, ma si è trasformato in simbolo della necessità dell’uomo di inseguire i propri ideali; di un uomo che, anche se è certo fin dall’inizio che nella maggior parte delle volte finirà sconfitto, va avanti comunque perché è convinto che il seme da lui lasciato continuerà a germogliare. Da demente zimbello per lettori e ascoltatori secenteschi, un po’ alla volta l’eroe folle di Cervantes si è trasformato, diventando allegoria di chi non si spaventa di combattere battaglie che i benpensanti e i ragionevoli considerano perdute in partenza, fino a entrare nelle ballate di un cantautore come Francesco Guccini che lo descrive animato da grande determinazione etica: «Mi vuoi dire, caro Sancho, che dovrei tirarmi indietro / perché il Male e il Potere hanno un aspetto così tetro? / Dovrei anche rinunciare a un po’ di dignità, / farmi umile e accettare che sia questa la realtà?». E poi l’hidalgo spiega anche perché si sente costretto a combattere per i propri ideali: «Salta in piedi Sancho è tardi, non vorrai dormire ancora. Solo i cinici e i codardi non si svegliano all’aurora. Per i primi è indifferenza e disprezzo dei valori e per gli altri è riluttanza nei confronti dei doveri».
È proprio pensando a questa figura che si è incarnata nei partigiani, che teoricamente mai avrebbero potuto vincere, che ci rendiamo conto che anche la Resistenza è nata da una forma di benedetta pazzia. Non è stata una rivolta perché la sua repentina fiammata iniziale non si è esaurita altrettanto rapidamente, e nemmeno una rivoluzione perché è scaturita quasi spontaneamente, senza lunghe preparazioni filosofiche. È stata, però – raro esempio nel mondo e nella storia – la sommatoria di queste due cose perché ha chiamato subito in campo gente di ogni ceto chiedendo anche sacrifici estremi, e poi ha saputo allungare i suoi benefici influssi per sempre – mi sarebbe piaciuto dire – o almeno per alcuni decenni, lasciando, comunque, in buona parte della popolazione la voglia di resistere ancora per difendere la propria dignità, libertà e indipendenza.
Ecco, la parola: resistere. E per resistere bisogna anche avere memoria, bisogna anche ricordare cos’è accaduto per impedire che si verifichi di nuovo. Quello della memoria oggi è un momento di estrema importanza: mentre alcuni vogliono distruggerla per cancellare gli errori del loro passato, altri la vogliono mantenere viva non tanto per evidenziare gli errori altrui, quanto per sottolineare quali errori devono essere assolutamente evitati.
Da una parte c’è gente come il fortunatamente ex ministro Ignazio La Russa che, con grande impudenza, una volta ha detto: «Del 25 aprile abbiamo le scatole piene. Ne parlino gli storici e non i politici». Con la certezza, ovviamente, che i mass media danno ben poco spazio agli storici e molto ai politici. E invece non è affatto così: ne devono parlare ancora tutti, storici, politici, normali cittadini, libri come questo, perché la memoria è l’unica cosa che può impedire la manipolazione di una realtà che diventa fastidiosa in quanto rende non credibile una propaganda che sempre più spesso ha cercato di confondere e parificare resistenza, fascismo e nazismo ricordando a piena voce che tutti i morti meritano identica pena, ma ingiustificabilmente dimenticando di dire che le cause per le quali sono morti sono diverse e hanno ben diversa motivazione e dignità. E che per tutti importante è come si è vissuti e non come si è morti.
Fortunatamente a contrastare la tentazione di lasciarsi andare a questo andazzo ci sono, appunto, libri come Poesie di lotta e di speranza in cui Luigi Raimondi, oltre alle poesie, ci offre apparati di note che scrive sicuramente per sé, ma anche per gli altri, con un bisogno di raccontare che nasce non per rendersi interessante, ma per rendersi utile, per mettere in comune un patrimonio di esperienze e di conoscenze che gridi a voce alta: «Guarda cos’è accaduto a noi: non permettere che possa accadere anche a te o ai tuoi figli».
E lo fa riportando alla memoria e pubblicando in tutta umiltà («So – scrive – che queste annotazioni non sono “Storia”; le lascio, come altre, quali curiosità aneddotiche, perché anche di queste cose sono fatto») pubblicando, dicevo, brandelli di storia che a prima vista potrebbero apparire inessenziali nel grande e drammatico quadro di un secolo crudele come quello chiusosi da pochi anni e che invece, sono fondamentali per ridare alla storia quella dimensione umana che, da immobile e intoccabile monolite di date, nomi e avvenimenti, viene trasformata in serbatoio dal quale attingere frammenti di insegnamento per evitare di commettere nuovamente quegli errori e quegli orrori che hanno costellato la vita dell’umanità e che sono ancora all’ordine del giorno.
L’altro giorno sono andato a presentare "Non tutti i bastardi sono di Vienna", di Andrea Molesini, vincitore del Campiello, e ho rilevato che il titolo del libro, ambientato nell’ultimo anno della Grande Guerra, mi sembra perfetto, perché racchiude esattamente la complessità di un orrore ricorrente come la guerra, che non consiste soltanto nelle morti, nelle violenze, nei dolori e lutti, nelle distruzioni che vediamo, ma anche e soprattutto in quello che si nasconde dietro alle cose visibili, e che, in realtà, è addirittura più importante perché più determinante. In questa frase c’è la desolata e rancorosa constatazione che nelle guerre, come nella vita, non ci sono mai tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall’altra, ma che i bastardi possono essere dappertutto. E non è un particolare di piccolo momento perché l’affermazione «Non tutti i bastardi sono di Vienna» è ben diversa da un possibile e zuccheroso «Non tutti i buoni sono di Roma». Perché in situazioni come quelle di una guerra, ma anche nella vita di ogni giorno, importante non è sottolineare che le persone di buon cuore ci sono dappertutto, come Abramo aveva fatto rilevare a Dio parlando di Sodoma, bensì capire che il male è capace di annidarsi dappertutto e che è questo male a dover essere estirpato per mettere al riparo l’umanità da cataclismi umani come quello della guerra, ma non solo da quello. Con la guida trainante dei buoni – si capisce – ma con l’impegno di tutti. Altrimenti non si potrà arrivare da nessuna parte.
Luigi questo lo sa benissimo e rimane radicatissimo nelle proprie convinzioni e nei propri valori, ma lontano da ideologie che non tollerano e cannibalizzano i dissensi di ragione e di coscienza. Fa così per poter essere sempre chiaramente schierato, ma anche per poter mantenere per sé libertà di giudizio, per ribadire che nessuno possiede la verità assoluta, né il bene assoluto, per ricordare che quell’epoca, in cui in Italia chi aveva il potere pensava di dominare sia la verità, sia il bene, è stata la peggiore della nostra storia; che tantissimi italiani hanno combattuto e sono morti per combattere questa idea che nega il pensiero autonomo, il libero arbitrio con il diritto di parola, di pensiero, di opinione, di resistenza. Che nega, in una parola, la democrazia.
A leggere i versi e la prosa di Luigi, a pensare alle persone e ai fatti di cui racconta, ci rendiamo conto che troppo spesso abbiamo guardato agli uomini della Resistenza, come a superuomini, ma non è vero. Sono stati uomini normali, e quindi capaci di combattere per le proprie idee e per i propri valori. Come ha detto una volta a Udine la scrittrice indiana Mahasweta Devi: «Né gli uomini, né le donne sono mai stati deboli. Hanno sofferto molto, subìto molto, ma non sono mai stati deboli».
Coltivare la necessità dei superuomini, come coltivare la necessità di una leadership, serve soltanto a lavarsi la coscienza, a poter dire: «Non è colpa mia se non sono eroico, o non sono un leader, perché non ne ho la statura; e se gli eroi e i leader a disposizione sono davvero scarsi, se non impresentabili, non posso farci niente». Ma se parlassimo di umanità in cui tutti hanno gli stessi doveri, oltre che gli stessi diritti, se invece di “leadership” parlassimo di “comunità”, allora la cosa riguarderebbe tutti, perché tutti sarebbero chiamati, a seconda delle loro piccole o grandi possibilità, comunque e sempre a dare il proprio contributo.
A Gigi devo un grazie per avermi costretto a riflettere su alcune cose. E quando uno riflette finisce sempre per cambiare un po’ se stesso.
Ma devo dirgli grazie pure per la sua assoluta sincerità anche davanti alle cose più difficili, come il rapporto con la morte. Nell’Apertura dice: «Il rapporto vita-morte, principio-fine, è costantemente presente nella mia poesia». E più avanti continua: «Allora, paura della morte? Ora più che mai paura della sofferenza fisica, della perdita progressiva dell’equilibrio, dell’autocontrollo, della memoria, non paura del trapasso, ma del vuoto, del non essere più e dell’essere in breve dimenticato o, diversamente da me vero, ricordato. Ma, dette queste poche cose, sono certo soltanto della mineralizzazione del mio corpo quale unica soluzione possibile; anche per ciò amo molto la vita e, ora che sono vecchio, conosco la sua brevità, la sua inutilità se mal vissuta, sprecata. Continuo a lavorare fisicamente, a studiare, a pensare, a essere impegnato nella lotta e nella speranza di un futuro migliore per chi mi sopravvivrà».
E, incapace di smettere di lottare, dopo aver aperto il suo libro parlando della morte, lo conclude con la Poesia della speranza, a ricordarci che nostro compito è sperare – e quindi lottare – anche per coloro che sono arrivati e arriveranno temporalmente dopo di noi.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
Eccovi il testo
Se è vero – come ha detto Aristotele – che «la poesia è più filosofica e di più alto valore che la storia», allora non può stupire se questo nuovo libro di Luigi Raimondi finisce per carpire fin da subito l’attenzione di chi vi si accosta sia perché storia e poesia qui sono fortemente connesse, sia in quanto al pregio dell’approfondimento poetico, si aggiunge quello della chiarificazione e puntualizzazione da parte della prosa con cui l’autore accompagna ognuno di questi circa sessanta frammenti dedicati a protagonisti e ad avvenimenti della storia d’Italia e del Friuli; sono liriche scritte tra il 1944 e il 2009, ma praticamente tutte riferite e legate a quello stesso periodo della Seconda guerra mondiale e della guerra di Liberazione. Una prosa in cui racconta storie, spiega se stesso con i suoi ragionamenti e le sue emozioni, scruta nell’animo umano, chiarisce perché in certi momenti si agisca – si debba agire – in maniere totalmente diverse di come si opera in altri momenti.
La poesia, così, rimane sempre a stretto contatto con la storia, la storia personale di Luigi, una storia di grande peso, spesso difficile da portare sulle spalle. Ma anche con la Storia – quella con la “S” maiuscola – con cui lui è venuto a diretto contatto, vivendola non soltanto da protagonista, ma anche da osservatore attento e sensibile.
Il rapporto tra poesia e guerra è sempre stato mutevole, proprio come mutevole è stato l’atteggiamento dell’uomo nei confronti dei conflitti. Nella letteratura ottocentesca, con Alessandro Manzoni, o Walter Scott, la guerra è vista come un’esperienza nobile, la tragedia è caratterizzata e mitigata dall’eroismo e dalla convinzione di battersi per alti ideali. Nel Novecento, invece, la guerra diventa un orrore, una tragedia assurda che non trova giustificazioni se non nell’autodifesa, mentre con le drammatiche situazioni belliche di sofferenze, privazioni e paure, l’esperienza della guerra diventa quasi uno stimolo all’interrogazione poetica di sé.
Vale la pena di andare con il pensiero a Giuseppe Ungaretti e alla sua folgorante «Si sta / come d’autunno / sugli alberi / le foglie» fatta con stile scarno e drammatico, a Salvatore Quasimodo che preferisce, invece, esprimersi con periodi lunghi e scorrevoli che affrontano la solitudine, la precarietà della vita e lo sfiorire delle illusioni, a Umberto Saba che si rifiuta di permettere alla guerra di privare l’essere umano di ogni sentimento e ricordo, nonché di congelare il suo cuore, a Primo Levi che analizza nel profondo il disastro della guerra che coincide con il disastro dell’uomo privato di ogni sentimento, di ogni dignità.
In questo quadro Luigi Raimondi sceglie un’altra via che, se per la speranza che sottende, sembra portare a Saba, per la violenza fisica e mentale che racconta, segue, invece, la strada di quel neorealismo che ha fatto la fortuna sia del cinema, sia della letteratura italiana di un certo periodo, con un modo di narrare che si propone di presentare al lettore il vero, senza mutarne artificiosamente la realtà con infingimenti che la possano variare né in positivo, né in negativo. E così ci troviamo di fronte a narrazioni crude che, anziché smussare gli angoli della violenza, finiscono addirittura, per contrasto, per accentuarne la disperata volgarità in un mondo infernale da cui nessuno potrà uscire – se mai ne uscirà – come vi era entrato; in cui la storia diventa severa e implacabile “magistra vitae”.
Ma queste narrazioni sono anche capaci di graffiare e scalfire il nostro spirito, e contemporaneamente ci fanno pensare, e quindi ci arricchiscono. Benedetto Croce diceva che «nella vera poesia le espressioni che suonano più semplici ci riempiono di sorpresa e di gioia perché rivelano noi a noi stessi» e infatti queste poesie sono capaci di comprimere le distanze di tempo, di restituire anche a chi non li ha vissuti, quei climi, quei sentimenti sempre un po’ al di sopra delle righe, come al di sopra delle righe erano anche la vita e la morte stesse. Qui non si usa, per trasmettere un messaggio, il significato semantico delle parole insieme al suono e al ritmo che queste imprimono alle frasi. Qui, per trasmettere emozioni e stati d’animo in maniera evocativa e potente, basta una lingua scarna e, quindi, spesso aspra; è sufficiente quella commistione – che talvolta sembra quasi inconsapevole – tra italiano e dialetto che per noi triestini, istriani e dalmati diventa naturale perché sappiamo che il nostro dialetto era una specie di lingua franca nata per capire e farci capirci in mezzo a una babele marittima di linguaggi, in un mondo in cui comunque si riusciva sempre a stare insieme. E così, mentre per rispetto agli altri, nella vita di ogni giorno si parla in italiano, appena ci sentiamo a casa, o tra amici, o in situazioni di intimità con noi stessi, il dialetto parte automaticamente e consente si addolcire o inasprire, arrotondare o acutizzare, l’espressione di concetti e sentimenti.
In questo quadro mi sembra importante soffermarmi un po’ di più sui concetti di lotta e di speranza messi così vicini, legati non soltanto dalla collocazione nello spazio del medesimo titolo, della stessa riga tipografica, ma stretti assieme come simboli che necessitano l’uno dell’altro per rafforzarsi e arricchirsi vicendevolmente. Non può esserci speranza, infatti, senza lotta; né può esserci lotta senza speranza.
Se questo secondo concetto può apparire intuitivo in quanto, se uno non crede minimamente di potersi salvare, tende a rassegnarsi, a limitare il più possibile i danni, o a far finire rapidamente la sofferenza, è il primo quello che, pur sottovalutato, credo sia fondamentale nella vita di ogni uomo anche nella cosiddetta vita quotidiana che tanto quotidiana – se per quotidiana intendiamo solita – quasi sempre non è.
Di fronte alla difficoltà ci si può porre con fede miracolistica che deriva da una definitiva rassegnazione; con aspettativa dell’aiuto degli altri che nasce da una propria abitudine all’inazione; con vibranti richieste di aiuto se ci si pensa troppo deboli addirittura per tentare qualcosa; con triste silenzio se si pensa che nulla più possa essere fatto. Ma la speranza può essere concepita come vera, reale, possibile soltanto se alla sua base ci sono la voglia e la capacità di lottare che a loro volta derivano dal ribollire interiore della rabbia, dell’indignazione, della voglia di giustizia, della convinzione che la democrazia sia il bene maggiore a cui su questa terra un uomo possa tendere.
Il divenire del mondo, in tutti i campi, è stato deciso da questa stretta connessione tra lotta e speranza, tra voglia di fare e determinazione ad arrivare. Ogni rivoluzione, ogni resistenza, ogni progresso sociale, ogni conquista scientifica sono derivati dal rifiuto della rassegnazione e dalla conseguente capacità di mettersi in gioco fino alle estreme conseguenze.
A questo punto comprendiamo benissimo che il problema determinante del mondo di oggi è quello di riuscire a capire perché, almeno apparentemente, noi non siamo più capaci di lottare e, quindi, in definitiva, di sperare. Questa volta i nemici non sono il fascismo, o il nazismo; lo scopo non è quello di liberare l’Italia dagli invasori. Oggi i nemici sono soprattutto gli approfittatori e gli egoisti, coloro che usano i poteri finanziari per affamare un mondo intero allo scopo di avere più potere per sé, per spadroneggiare su intere nazioni che ormai non hanno potere – o non vogliono trovarlo – per opporsi a persone e organizzazioni che operano al di fuori della legge e dell’etica.
E davanti a questa situazione continuo a domandarmi perché siamo così sensibili alle invasioni dei nostri territori, e così poco sensibili alle invasioni dei nostri diritti. Davanti alle invasioni dei territori siamo capaci di organizzare resistenze; davanti alle invasioni dei nostri diritti, siamo lì come inebetiti a lamentarci un po’ e a lasciar fare.
Pensiamo al nostro Paese, a noi stessi in questo momento. Dopo essere rimasti praticamente inerti per tanti anni davanti al disastro berlusconiano, oggi oscilliamo tra la fede miracolistica in un governo tecnico che ha il pregio della competenza, e il timore profondo di un governo tecnico che, per definizione, è lontano dalla democrazia; anzi, per essere più preciso, che a lei è indifferente. Sproniamo altri a fare per noi, ma con grande attenzione a che tocchino i privilegi degli altri e non i nostri e soltanto raramente finiamo per rimetterci in gioco e abbiamo il coraggio, non di prendere in mano un’arma e di rischiare di uccidere e di morire, ma neppure quello di prendere in mano un’opinione e rischiare di essere contraddetti, o presi in giro, o anche vilipesi, o discriminati per il coraggio delle nostre opinioni.
La realtà è che abbiamo delegato troppo, non abbiamo usato la democrazia rappresentativa, ma l’abbiamo stravolta, svilendola nel ruolo e nella sostanza, usandola soltanto come comodo alibi per non rischiare, per non sporcarci le mani, per non metterci la faccia, per non sudare eccessivamente. La realtà è che siamo diventati molto diversi dai nostri genitori. A rileggere il libro di Luigi questa discrasia, questa distanza tra noi e chi ci ha preceduto diventa abbagliante e abissale, profonda e umiliante.
Ma davvero noi non siamo in grado di reagire? Oppure potremmo essere ancora in grado di insorgere, ma non riusciamo ancora a sollevarci da quel comodo divano nel quale ci hanno fatto sedere facendoci credere che le conquiste fatte dai nostri padri sarebbero durate per sempre e senza bisogno di essere difese?
Sarebbe interessante, ma non fondamentale, capire se la nostra stirpe si è rovinata per naturale involuzione non trovando più in sé il coraggio di fare quello che va fatto, o se invece la cosa deriva da un torpore indotto e instillato in noi con deliberata determinazione. Fondamentale, invece, è chiedersi se e come troveremo la determinazione a rialzarci perché la risposta a questo interrogativo è dirimente per capire il futuro non soltanto dell’Italia, ma dell’intera società occidentale, di quella stessa società in cui noi viviamo e sulla quale ci siamo plasmati a nostro piacere, dopo averla modellata con rigore etico e intellettuale.
E non equivochiamo: Raimondi mette bene in chiaro che per mantenere la propria dignità non si tratta di ricorrere a reazioni violente, ma soltanto di non abbandonare la propria umanità, di difendere quella democrazia e quella Costituzione che proprio Luigi e quelli che hanno combattuto assieme a lui hanno conquistato e poi ci hanno regalato. «Per non cadere in riprovevoli reazioni – scrive – quando i neofascisti tenevano un comizio o una manifestazione a Treviso, non restavo mai in città. L’abitudine al combattimento si annullò lentamente, quasi del tutto». Egli, infatti è intimamente e fieramente pacifista, perfettamente in linea con la stragrande maggioranza dei combattenti di quella volta che sono oggi i pacifisti più convinti.
E questa non è una contraddizione perché i partigiani hanno deciso di combattere proprio per assicurare a se stessi e agli altri un periodo di pace e lo hanno fatto con un’incoscienza disperata, o con una coscienza piena di speranze, il che, in definiva è proprio la medesima cosa. Sono stati giovani e anziani molto simili a don Chisciotte che assolutamente non era – come a prima vista potrebbe apparire – schiavo di un’inutilità derivante dalla propria pazzia, ma si è trasformato in simbolo della necessità dell’uomo di inseguire i propri ideali; di un uomo che, anche se è certo fin dall’inizio che nella maggior parte delle volte finirà sconfitto, va avanti comunque perché è convinto che il seme da lui lasciato continuerà a germogliare. Da demente zimbello per lettori e ascoltatori secenteschi, un po’ alla volta l’eroe folle di Cervantes si è trasformato, diventando allegoria di chi non si spaventa di combattere battaglie che i benpensanti e i ragionevoli considerano perdute in partenza, fino a entrare nelle ballate di un cantautore come Francesco Guccini che lo descrive animato da grande determinazione etica: «Mi vuoi dire, caro Sancho, che dovrei tirarmi indietro / perché il Male e il Potere hanno un aspetto così tetro? / Dovrei anche rinunciare a un po’ di dignità, / farmi umile e accettare che sia questa la realtà?». E poi l’hidalgo spiega anche perché si sente costretto a combattere per i propri ideali: «Salta in piedi Sancho è tardi, non vorrai dormire ancora. Solo i cinici e i codardi non si svegliano all’aurora. Per i primi è indifferenza e disprezzo dei valori e per gli altri è riluttanza nei confronti dei doveri».
È proprio pensando a questa figura che si è incarnata nei partigiani, che teoricamente mai avrebbero potuto vincere, che ci rendiamo conto che anche la Resistenza è nata da una forma di benedetta pazzia. Non è stata una rivolta perché la sua repentina fiammata iniziale non si è esaurita altrettanto rapidamente, e nemmeno una rivoluzione perché è scaturita quasi spontaneamente, senza lunghe preparazioni filosofiche. È stata, però – raro esempio nel mondo e nella storia – la sommatoria di queste due cose perché ha chiamato subito in campo gente di ogni ceto chiedendo anche sacrifici estremi, e poi ha saputo allungare i suoi benefici influssi per sempre – mi sarebbe piaciuto dire – o almeno per alcuni decenni, lasciando, comunque, in buona parte della popolazione la voglia di resistere ancora per difendere la propria dignità, libertà e indipendenza.
Ecco, la parola: resistere. E per resistere bisogna anche avere memoria, bisogna anche ricordare cos’è accaduto per impedire che si verifichi di nuovo. Quello della memoria oggi è un momento di estrema importanza: mentre alcuni vogliono distruggerla per cancellare gli errori del loro passato, altri la vogliono mantenere viva non tanto per evidenziare gli errori altrui, quanto per sottolineare quali errori devono essere assolutamente evitati.
Da una parte c’è gente come il fortunatamente ex ministro Ignazio La Russa che, con grande impudenza, una volta ha detto: «Del 25 aprile abbiamo le scatole piene. Ne parlino gli storici e non i politici». Con la certezza, ovviamente, che i mass media danno ben poco spazio agli storici e molto ai politici. E invece non è affatto così: ne devono parlare ancora tutti, storici, politici, normali cittadini, libri come questo, perché la memoria è l’unica cosa che può impedire la manipolazione di una realtà che diventa fastidiosa in quanto rende non credibile una propaganda che sempre più spesso ha cercato di confondere e parificare resistenza, fascismo e nazismo ricordando a piena voce che tutti i morti meritano identica pena, ma ingiustificabilmente dimenticando di dire che le cause per le quali sono morti sono diverse e hanno ben diversa motivazione e dignità. E che per tutti importante è come si è vissuti e non come si è morti.
Fortunatamente a contrastare la tentazione di lasciarsi andare a questo andazzo ci sono, appunto, libri come Poesie di lotta e di speranza in cui Luigi Raimondi, oltre alle poesie, ci offre apparati di note che scrive sicuramente per sé, ma anche per gli altri, con un bisogno di raccontare che nasce non per rendersi interessante, ma per rendersi utile, per mettere in comune un patrimonio di esperienze e di conoscenze che gridi a voce alta: «Guarda cos’è accaduto a noi: non permettere che possa accadere anche a te o ai tuoi figli».
E lo fa riportando alla memoria e pubblicando in tutta umiltà («So – scrive – che queste annotazioni non sono “Storia”; le lascio, come altre, quali curiosità aneddotiche, perché anche di queste cose sono fatto») pubblicando, dicevo, brandelli di storia che a prima vista potrebbero apparire inessenziali nel grande e drammatico quadro di un secolo crudele come quello chiusosi da pochi anni e che invece, sono fondamentali per ridare alla storia quella dimensione umana che, da immobile e intoccabile monolite di date, nomi e avvenimenti, viene trasformata in serbatoio dal quale attingere frammenti di insegnamento per evitare di commettere nuovamente quegli errori e quegli orrori che hanno costellato la vita dell’umanità e che sono ancora all’ordine del giorno.
L’altro giorno sono andato a presentare "Non tutti i bastardi sono di Vienna", di Andrea Molesini, vincitore del Campiello, e ho rilevato che il titolo del libro, ambientato nell’ultimo anno della Grande Guerra, mi sembra perfetto, perché racchiude esattamente la complessità di un orrore ricorrente come la guerra, che non consiste soltanto nelle morti, nelle violenze, nei dolori e lutti, nelle distruzioni che vediamo, ma anche e soprattutto in quello che si nasconde dietro alle cose visibili, e che, in realtà, è addirittura più importante perché più determinante. In questa frase c’è la desolata e rancorosa constatazione che nelle guerre, come nella vita, non ci sono mai tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall’altra, ma che i bastardi possono essere dappertutto. E non è un particolare di piccolo momento perché l’affermazione «Non tutti i bastardi sono di Vienna» è ben diversa da un possibile e zuccheroso «Non tutti i buoni sono di Roma». Perché in situazioni come quelle di una guerra, ma anche nella vita di ogni giorno, importante non è sottolineare che le persone di buon cuore ci sono dappertutto, come Abramo aveva fatto rilevare a Dio parlando di Sodoma, bensì capire che il male è capace di annidarsi dappertutto e che è questo male a dover essere estirpato per mettere al riparo l’umanità da cataclismi umani come quello della guerra, ma non solo da quello. Con la guida trainante dei buoni – si capisce – ma con l’impegno di tutti. Altrimenti non si potrà arrivare da nessuna parte.
Luigi questo lo sa benissimo e rimane radicatissimo nelle proprie convinzioni e nei propri valori, ma lontano da ideologie che non tollerano e cannibalizzano i dissensi di ragione e di coscienza. Fa così per poter essere sempre chiaramente schierato, ma anche per poter mantenere per sé libertà di giudizio, per ribadire che nessuno possiede la verità assoluta, né il bene assoluto, per ricordare che quell’epoca, in cui in Italia chi aveva il potere pensava di dominare sia la verità, sia il bene, è stata la peggiore della nostra storia; che tantissimi italiani hanno combattuto e sono morti per combattere questa idea che nega il pensiero autonomo, il libero arbitrio con il diritto di parola, di pensiero, di opinione, di resistenza. Che nega, in una parola, la democrazia.
A leggere i versi e la prosa di Luigi, a pensare alle persone e ai fatti di cui racconta, ci rendiamo conto che troppo spesso abbiamo guardato agli uomini della Resistenza, come a superuomini, ma non è vero. Sono stati uomini normali, e quindi capaci di combattere per le proprie idee e per i propri valori. Come ha detto una volta a Udine la scrittrice indiana Mahasweta Devi: «Né gli uomini, né le donne sono mai stati deboli. Hanno sofferto molto, subìto molto, ma non sono mai stati deboli».
Coltivare la necessità dei superuomini, come coltivare la necessità di una leadership, serve soltanto a lavarsi la coscienza, a poter dire: «Non è colpa mia se non sono eroico, o non sono un leader, perché non ne ho la statura; e se gli eroi e i leader a disposizione sono davvero scarsi, se non impresentabili, non posso farci niente». Ma se parlassimo di umanità in cui tutti hanno gli stessi doveri, oltre che gli stessi diritti, se invece di “leadership” parlassimo di “comunità”, allora la cosa riguarderebbe tutti, perché tutti sarebbero chiamati, a seconda delle loro piccole o grandi possibilità, comunque e sempre a dare il proprio contributo.
A Gigi devo un grazie per avermi costretto a riflettere su alcune cose. E quando uno riflette finisce sempre per cambiare un po’ se stesso.
Ma devo dirgli grazie pure per la sua assoluta sincerità anche davanti alle cose più difficili, come il rapporto con la morte. Nell’Apertura dice: «Il rapporto vita-morte, principio-fine, è costantemente presente nella mia poesia». E più avanti continua: «Allora, paura della morte? Ora più che mai paura della sofferenza fisica, della perdita progressiva dell’equilibrio, dell’autocontrollo, della memoria, non paura del trapasso, ma del vuoto, del non essere più e dell’essere in breve dimenticato o, diversamente da me vero, ricordato. Ma, dette queste poche cose, sono certo soltanto della mineralizzazione del mio corpo quale unica soluzione possibile; anche per ciò amo molto la vita e, ora che sono vecchio, conosco la sua brevità, la sua inutilità se mal vissuta, sprecata. Continuo a lavorare fisicamente, a studiare, a pensare, a essere impegnato nella lotta e nella speranza di un futuro migliore per chi mi sopravvivrà».
E, incapace di smettere di lottare, dopo aver aperto il suo libro parlando della morte, lo conclude con la Poesia della speranza, a ricordarci che nostro compito è sperare – e quindi lottare – anche per coloro che sono arrivati e arriveranno temporalmente dopo di noi.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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