Luigi
Raimondi, come quasi tutti gli umani, non ha potuto scegliere quando,
né perché lasciare questo mondo, ma, come pochissimi umani, ha voluto
decidere come andarsene e, dopo una vita in prima linea – e non è
assolutamente una frase fatta – ha chiesto di andarsene in silenzio e ha
lasciato alla moglie Paola l’incarico di avvertire «quanti lo hanno
conosciuto» con un paio di scarne righe «a cremazione avvenuta».
Militante antifascista, combattente durante la seconda guerra mondiale e
nella guerra di Liberazione, poi insegnante e instancabile testimone
della storia e degli ideali partigiani, non ha mai amato eccessivamente
l’apparire in pubblico, ma ne ha accettato l’obbligo perché la
testimonianza implica la necessità di farsi sentire.
Non voglio infrangere il suo
desiderio di silenzio, ma mi sembra doveroso ricordarlo con affetto e
con rispetto e, per farlo, pubblico a seguire una delle presentazioni
che mi aveva chiamato a fare per i suoi libri. Si era in sala Ajace, a
Udine, nel dicembre del 2011, e il libro era “Poesie di lotta e di speranza”, un titolo che ha esemplarmente racchiuso due delle spinte più importanti della sua lunga vita.
Eccovi il testo
Se è vero – come ha detto Aristotele – che «la poesia è più
filosofica e di più alto valore che la storia», allora non può stupire
se questo nuovo libro di Luigi Raimondi finisce per carpire fin da
subito l’attenzione di chi vi si accosta sia perché storia e poesia qui
sono fortemente connesse, sia in quanto al pregio dell’approfondimento
poetico, si aggiunge quello della chiarificazione e puntualizzazione da
parte della prosa con cui l’autore accompagna ognuno di questi circa
sessanta frammenti dedicati a protagonisti e ad avvenimenti della storia
d’Italia e del Friuli; sono liriche scritte tra il 1944 e il 2009, ma
praticamente tutte riferite e legate a quello stesso periodo della
Seconda guerra mondiale e della guerra di Liberazione. Una prosa in cui
racconta storie, spiega se stesso con i suoi ragionamenti e le sue
emozioni, scruta nell’animo umano, chiarisce perché in certi momenti si
agisca – si debba agire – in maniere totalmente diverse di come si opera
in altri momenti.
La poesia, così, rimane sempre a stretto contatto con la storia, la
storia personale di Luigi, una storia di grande peso, spesso difficile
da portare sulle spalle. Ma anche con la Storia – quella con la “S”
maiuscola – con cui lui è venuto a diretto contatto, vivendola non
soltanto da protagonista, ma anche da osservatore attento e sensibile.
Il rapporto tra poesia e guerra è sempre stato mutevole, proprio come
mutevole è stato l’atteggiamento dell’uomo nei confronti dei conflitti.
Nella letteratura ottocentesca, con Alessandro Manzoni, o Walter Scott,
la guerra è vista come un’esperienza nobile, la tragedia è
caratterizzata e mitigata dall’eroismo e dalla convinzione di battersi
per alti ideali. Nel Novecento, invece, la guerra diventa un orrore, una
tragedia assurda che non trova giustificazioni se non nell’autodifesa,
mentre con le drammatiche situazioni belliche di sofferenze, privazioni e
paure, l’esperienza della guerra diventa quasi uno stimolo
all’interrogazione poetica di sé.
Vale la pena di andare con il pensiero a Giuseppe Ungaretti e alla
sua folgorante «Si sta / come d’autunno / sugli alberi / le foglie»
fatta con stile scarno e drammatico, a Salvatore Quasimodo che
preferisce, invece, esprimersi con periodi lunghi e scorrevoli che
affrontano la solitudine, la precarietà della vita e lo sfiorire delle
illusioni, a Umberto Saba che si rifiuta di permettere alla guerra di
privare l’essere umano di ogni sentimento e ricordo, nonché di congelare
il suo cuore, a Primo Levi che analizza nel profondo il disastro della
guerra che coincide con il disastro dell’uomo privato di ogni
sentimento, di ogni dignità.
In questo quadro Luigi Raimondi sceglie un’altra via che, se per la
speranza che sottende, sembra portare a Saba, per la violenza fisica e
mentale che racconta, segue, invece, la strada di quel neorealismo che
ha fatto la fortuna sia del cinema, sia della letteratura italiana di un
certo periodo, con un modo di narrare che si propone di presentare al
lettore il vero, senza mutarne artificiosamente la realtà con
infingimenti che la possano variare né in positivo, né in negativo. E
così ci troviamo di fronte a narrazioni crude che, anziché smussare gli
angoli della violenza, finiscono addirittura, per contrasto, per
accentuarne la disperata volgarità in un mondo infernale da cui nessuno
potrà uscire – se mai ne uscirà – come vi era entrato; in cui la storia
diventa severa e implacabile “magistra vitae”.
Ma queste narrazioni sono anche capaci di graffiare e scalfire il
nostro spirito, e contemporaneamente ci fanno pensare, e quindi ci
arricchiscono. Benedetto Croce diceva che «nella vera poesia le
espressioni che suonano più semplici ci riempiono di sorpresa e di gioia
perché rivelano noi a noi stessi» e infatti queste poesie sono capaci
di comprimere le distanze di tempo, di restituire anche a chi non li ha
vissuti, quei climi, quei sentimenti sempre un po’ al di sopra delle
righe, come al di sopra delle righe erano anche la vita e la morte
stesse. Qui non si usa, per trasmettere un messaggio, il significato
semantico delle parole insieme al suono e al ritmo che queste imprimono
alle frasi. Qui, per trasmettere emozioni e stati d’animo in maniera
evocativa e potente, basta una lingua scarna e, quindi, spesso aspra; è
sufficiente quella commistione – che talvolta sembra quasi inconsapevole
– tra italiano e dialetto che per noi triestini, istriani e dalmati
diventa naturale perché sappiamo che il nostro dialetto era una specie
di lingua franca nata per capire e farci capirci in mezzo a una babele
marittima di linguaggi, in un mondo in cui comunque si riusciva sempre a
stare insieme. E così, mentre per rispetto agli altri, nella vita di
ogni giorno si parla in italiano, appena ci sentiamo a casa, o tra
amici, o in situazioni di intimità con noi stessi, il dialetto parte
automaticamente e consente si addolcire o inasprire, arrotondare o
acutizzare, l’espressione di concetti e sentimenti.
In questo quadro mi sembra importante soffermarmi un po’ di più sui
concetti di lotta e di speranza messi così vicini, legati non soltanto
dalla collocazione nello spazio del medesimo titolo, della stessa riga
tipografica, ma stretti assieme come simboli che necessitano l’uno
dell’altro per rafforzarsi e arricchirsi vicendevolmente. Non può
esserci speranza, infatti, senza lotta; né può esserci lotta senza
speranza.
Se questo secondo concetto può apparire intuitivo in quanto, se uno
non crede minimamente di potersi salvare, tende a rassegnarsi, a
limitare il più possibile i danni, o a far finire rapidamente la
sofferenza, è il primo quello che, pur sottovalutato, credo sia
fondamentale nella vita di ogni uomo anche nella cosiddetta vita
quotidiana che tanto quotidiana – se per quotidiana intendiamo solita –
quasi sempre non è.
Di fronte alla difficoltà ci si può porre con fede miracolistica che
deriva da una definitiva rassegnazione; con aspettativa dell’aiuto degli
altri che nasce da una propria abitudine all’inazione; con vibranti
richieste di aiuto se ci si pensa troppo deboli addirittura per tentare
qualcosa; con triste silenzio se si pensa che nulla più possa essere
fatto. Ma la speranza può essere concepita come vera, reale, possibile
soltanto se alla sua base ci sono la voglia e la capacità di lottare che
a loro volta derivano dal ribollire interiore della rabbia,
dell’indignazione, della voglia di giustizia, della convinzione che la
democrazia sia il bene maggiore a cui su questa terra un uomo possa
tendere.
Il divenire del mondo, in tutti i campi, è stato deciso da questa
stretta connessione tra lotta e speranza, tra voglia di fare e
determinazione ad arrivare. Ogni rivoluzione, ogni resistenza, ogni
progresso sociale, ogni conquista scientifica sono derivati dal rifiuto
della rassegnazione e dalla conseguente capacità di mettersi in gioco
fino alle estreme conseguenze.
A questo punto comprendiamo benissimo che il problema determinante
del mondo di oggi è quello di riuscire a capire perché, almeno
apparentemente, noi non siamo più capaci di lottare e, quindi, in
definitiva, di sperare. Questa volta i nemici non sono il fascismo, o il
nazismo; lo scopo non è quello di liberare l’Italia dagli invasori.
Oggi i nemici sono soprattutto gli approfittatori e gli egoisti, coloro
che usano i poteri finanziari per affamare un mondo intero allo scopo di
avere più potere per sé, per spadroneggiare su intere nazioni che ormai
non hanno potere – o non vogliono trovarlo – per opporsi a persone e
organizzazioni che operano al di fuori della legge e dell’etica.
E davanti a questa situazione continuo a domandarmi perché siamo così
sensibili alle invasioni dei nostri territori, e così poco sensibili
alle invasioni dei nostri diritti. Davanti alle invasioni dei territori
siamo capaci di organizzare resistenze; davanti alle invasioni dei
nostri diritti, siamo lì come inebetiti a lamentarci un po’ e a lasciar
fare.
Pensiamo al nostro Paese, a noi stessi in questo momento. Dopo essere
rimasti praticamente inerti per tanti anni davanti al disastro
berlusconiano, oggi oscilliamo tra la fede miracolistica in un governo
tecnico che ha il pregio della competenza, e il timore profondo di un
governo tecnico che, per definizione, è lontano dalla democrazia; anzi,
per essere più preciso, che a lei è indifferente. Sproniamo altri a fare
per noi, ma con grande attenzione a che tocchino i privilegi degli
altri e non i nostri e soltanto raramente finiamo per rimetterci in
gioco e abbiamo il coraggio, non di prendere in mano un’arma e di
rischiare di uccidere e di morire, ma neppure quello di prendere in mano
un’opinione e rischiare di essere contraddetti, o presi in giro, o
anche vilipesi, o discriminati per il coraggio delle nostre opinioni.
La realtà è che abbiamo delegato troppo, non abbiamo usato la
democrazia rappresentativa, ma l’abbiamo stravolta, svilendola nel ruolo
e nella sostanza, usandola soltanto come comodo alibi per non
rischiare, per non sporcarci le mani, per non metterci la faccia, per
non sudare eccessivamente. La realtà è che siamo diventati molto diversi
dai nostri genitori. A rileggere il libro di Luigi questa discrasia,
questa distanza tra noi e chi ci ha preceduto diventa abbagliante e
abissale, profonda e umiliante.
Ma davvero noi non siamo in grado di reagire? Oppure potremmo essere
ancora in grado di insorgere, ma non riusciamo ancora a sollevarci da
quel comodo divano nel quale ci hanno fatto sedere facendoci credere che
le conquiste fatte dai nostri padri sarebbero durate per sempre e senza
bisogno di essere difese?
Sarebbe interessante, ma non fondamentale, capire se la nostra stirpe
si è rovinata per naturale involuzione non trovando più in sé il
coraggio di fare quello che va fatto, o se invece la cosa deriva da un
torpore indotto e instillato in noi con deliberata determinazione.
Fondamentale, invece, è chiedersi se e come troveremo la determinazione a
rialzarci perché la risposta a questo interrogativo è dirimente per
capire il futuro non soltanto dell’Italia, ma dell’intera società
occidentale, di quella stessa società in cui noi viviamo e sulla quale
ci siamo plasmati a nostro piacere, dopo averla modellata con rigore
etico e intellettuale.
E non equivochiamo: Raimondi mette bene in chiaro che per mantenere
la propria dignità non si tratta di ricorrere a reazioni violente, ma
soltanto di non abbandonare la propria umanità, di difendere quella
democrazia e quella Costituzione che proprio Luigi e quelli che hanno
combattuto assieme a lui hanno conquistato e poi ci hanno regalato. «Per
non cadere in riprovevoli reazioni – scrive – quando i neofascisti
tenevano un comizio o una manifestazione a Treviso, non restavo mai in
città. L’abitudine al combattimento si annullò lentamente, quasi del
tutto». Egli, infatti è intimamente e fieramente pacifista,
perfettamente in linea con la stragrande maggioranza dei combattenti di
quella volta che sono oggi i pacifisti più convinti.
E questa non è una contraddizione perché i partigiani hanno deciso di
combattere proprio per assicurare a se stessi e agli altri un periodo
di pace e lo hanno fatto con un’incoscienza disperata, o con una
coscienza piena di speranze, il che, in definiva è proprio la medesima
cosa. Sono stati giovani e anziani molto simili a don Chisciotte che
assolutamente non era – come a prima vista potrebbe apparire – schiavo
di un’inutilità derivante dalla propria pazzia, ma si è trasformato in
simbolo della necessità dell’uomo di inseguire i propri ideali; di un
uomo che, anche se è certo fin dall’inizio che nella maggior parte delle
volte finirà sconfitto, va avanti comunque perché è convinto che il
seme da lui lasciato continuerà a germogliare. Da demente zimbello per
lettori e ascoltatori secenteschi, un po’ alla volta l’eroe folle di
Cervantes si è trasformato, diventando allegoria di chi non si spaventa
di combattere battaglie che i benpensanti e i ragionevoli considerano
perdute in partenza, fino a entrare nelle ballate di un cantautore come
Francesco Guccini che lo descrive animato da grande determinazione
etica: «Mi vuoi dire, caro Sancho, che dovrei tirarmi indietro / perché
il Male e il Potere hanno un aspetto così tetro? / Dovrei anche
rinunciare a un po’ di dignità, / farmi umile e accettare che sia questa
la realtà?». E poi l’hidalgo spiega anche perché si sente costretto a
combattere per i propri ideali: «Salta in piedi Sancho è tardi, non
vorrai dormire ancora. Solo i cinici e i codardi non si svegliano
all’aurora. Per i primi è indifferenza e disprezzo dei valori e per gli
altri è riluttanza nei confronti dei doveri».
È proprio pensando a questa figura che si è incarnata nei partigiani,
che teoricamente mai avrebbero potuto vincere, che ci rendiamo conto
che anche la Resistenza è nata da una forma di benedetta pazzia. Non è
stata una rivolta perché la sua repentina fiammata iniziale non si è
esaurita altrettanto rapidamente, e nemmeno una rivoluzione perché è
scaturita quasi spontaneamente, senza lunghe preparazioni filosofiche. È
stata, però – raro esempio nel mondo e nella storia – la sommatoria di
queste due cose perché ha chiamato subito in campo gente di ogni ceto
chiedendo anche sacrifici estremi, e poi ha saputo allungare i suoi
benefici influssi per sempre – mi sarebbe piaciuto dire – o almeno per
alcuni decenni, lasciando, comunque, in buona parte della popolazione la
voglia di resistere ancora per difendere la propria dignità, libertà e
indipendenza.
Ecco, la parola: resistere. E per resistere bisogna anche avere
memoria, bisogna anche ricordare cos’è accaduto per impedire che si
verifichi di nuovo. Quello della memoria oggi è un momento di estrema
importanza: mentre alcuni vogliono distruggerla per cancellare gli
errori del loro passato, altri la vogliono mantenere viva non tanto per
evidenziare gli errori altrui, quanto per sottolineare quali errori
devono essere assolutamente evitati.
Da una parte c’è gente come il fortunatamente ex ministro Ignazio La
Russa che, con grande impudenza, una volta ha detto: «Del 25 aprile
abbiamo le scatole piene. Ne parlino gli storici e non i politici». Con
la certezza, ovviamente, che i mass media danno ben poco spazio agli
storici e molto ai politici. E invece non è affatto così: ne devono
parlare ancora tutti, storici, politici, normali cittadini, libri come
questo, perché la memoria è l’unica cosa che può impedire la
manipolazione di una realtà che diventa fastidiosa in quanto rende non
credibile una propaganda che sempre più spesso ha cercato di confondere e
parificare resistenza, fascismo e nazismo ricordando a piena voce che
tutti i morti meritano identica pena, ma ingiustificabilmente
dimenticando di dire che le cause per le quali sono morti sono diverse e
hanno ben diversa motivazione e dignità. E che per tutti importante è
come si è vissuti e non come si è morti.
Fortunatamente a contrastare la tentazione di lasciarsi andare a
questo andazzo ci sono, appunto, libri come Poesie di lotta e di
speranza in cui Luigi Raimondi, oltre alle poesie, ci offre apparati di
note che scrive sicuramente per sé, ma anche per gli altri, con un
bisogno di raccontare che nasce non per rendersi interessante, ma per
rendersi utile, per mettere in comune un patrimonio di esperienze e di
conoscenze che gridi a voce alta: «Guarda cos’è accaduto a noi: non
permettere che possa accadere anche a te o ai tuoi figli».
E lo fa riportando alla memoria e pubblicando in tutta umiltà («So –
scrive – che queste annotazioni non sono “Storia”; le lascio, come
altre, quali curiosità aneddotiche, perché anche di queste cose sono
fatto») pubblicando, dicevo, brandelli di storia che a prima vista
potrebbero apparire inessenziali nel grande e drammatico quadro di un
secolo crudele come quello chiusosi da pochi anni e che invece, sono
fondamentali per ridare alla storia quella dimensione umana che, da
immobile e intoccabile monolite di date, nomi e avvenimenti, viene
trasformata in serbatoio dal quale attingere frammenti di insegnamento
per evitare di commettere nuovamente quegli errori e quegli orrori che
hanno costellato la vita dell’umanità e che sono ancora all’ordine del
giorno.
L’altro giorno sono andato a presentare "Non tutti i bastardi sono di Vienna",
di Andrea Molesini, vincitore del Campiello, e ho rilevato che il
titolo del libro, ambientato nell’ultimo anno della Grande Guerra, mi
sembra perfetto, perché racchiude esattamente la complessità di un
orrore ricorrente come la guerra, che non consiste soltanto nelle morti,
nelle violenze, nei dolori e lutti, nelle distruzioni che vediamo, ma
anche e soprattutto in quello che si nasconde dietro alle cose visibili,
e che, in realtà, è addirittura più importante perché più determinante.
In questa frase c’è la desolata e rancorosa constatazione che nelle
guerre, come nella vita, non ci sono mai tutti i buoni da una parte e
tutti i cattivi dall’altra, ma che i bastardi possono essere
dappertutto. E non è un particolare di piccolo momento perché
l’affermazione «Non tutti i bastardi sono di Vienna» è ben diversa da un
possibile e zuccheroso «Non tutti i buoni sono di Roma». Perché in
situazioni come quelle di una guerra, ma anche nella vita di ogni
giorno, importante non è sottolineare che le persone di buon cuore ci
sono dappertutto, come Abramo aveva fatto rilevare a Dio parlando di
Sodoma, bensì capire che il male è capace di annidarsi dappertutto e che
è questo male a dover essere estirpato per mettere al riparo l’umanità
da cataclismi umani come quello della guerra, ma non solo da quello. Con
la guida trainante dei buoni – si capisce – ma con l’impegno di tutti.
Altrimenti non si potrà arrivare da nessuna parte.
Luigi questo lo sa benissimo e rimane radicatissimo nelle proprie
convinzioni e nei propri valori, ma lontano da ideologie che non
tollerano e cannibalizzano i dissensi di ragione e di coscienza. Fa così
per poter essere sempre chiaramente schierato, ma anche per poter
mantenere per sé libertà di giudizio, per ribadire che nessuno possiede
la verità assoluta, né il bene assoluto, per ricordare che quell’epoca,
in cui in Italia chi aveva il potere pensava di dominare sia la verità,
sia il bene, è stata la peggiore della nostra storia; che tantissimi
italiani hanno combattuto e sono morti per combattere questa idea che
nega il pensiero autonomo, il libero arbitrio con il diritto di parola,
di pensiero, di opinione, di resistenza. Che nega, in una parola, la
democrazia.
A leggere i versi e la prosa di Luigi, a pensare alle persone e ai
fatti di cui racconta, ci rendiamo conto che troppo spesso abbiamo
guardato agli uomini della Resistenza, come a superuomini, ma non è
vero. Sono stati uomini normali, e quindi capaci di combattere per le
proprie idee e per i propri valori. Come ha detto una volta a Udine la
scrittrice indiana Mahasweta Devi: «Né gli uomini, né le donne sono mai
stati deboli. Hanno sofferto molto, subìto molto, ma non sono mai stati
deboli».
Coltivare la necessità dei superuomini, come coltivare la necessità
di una leadership, serve soltanto a lavarsi la coscienza, a poter dire:
«Non è colpa mia se non sono eroico, o non sono un leader, perché non ne
ho la statura; e se gli eroi e i leader a disposizione sono davvero
scarsi, se non impresentabili, non posso farci niente». Ma se parlassimo
di umanità in cui tutti hanno gli stessi doveri, oltre che gli stessi
diritti, se invece di “leadership” parlassimo di “comunità”, allora la
cosa riguarderebbe tutti, perché tutti sarebbero chiamati, a seconda
delle loro piccole o grandi possibilità, comunque e sempre a dare il
proprio contributo.
A Gigi devo un grazie per avermi costretto a riflettere su alcune
cose. E quando uno riflette finisce sempre per cambiare un po’ se
stesso.
Ma devo dirgli grazie pure per la sua assoluta sincerità anche
davanti alle cose più difficili, come il rapporto con la morte.
Nell’Apertura dice: «Il rapporto vita-morte, principio-fine, è
costantemente presente nella mia poesia». E più avanti continua:
«Allora, paura della morte? Ora più che mai paura della sofferenza
fisica, della perdita progressiva dell’equilibrio, dell’autocontrollo,
della memoria, non paura del trapasso, ma del vuoto, del non essere più e
dell’essere in breve dimenticato o, diversamente da me vero, ricordato.
Ma, dette queste poche cose, sono certo soltanto della mineralizzazione
del mio corpo quale unica soluzione possibile; anche per ciò amo molto
la vita e, ora che sono vecchio, conosco la sua brevità, la sua
inutilità se mal vissuta, sprecata. Continuo a lavorare fisicamente, a
studiare, a pensare, a essere impegnato nella lotta e nella speranza di
un futuro migliore per chi mi sopravvivrà».
E, incapace di smettere di lottare, dopo aver aperto il suo libro
parlando della morte, lo conclude con la Poesia della speranza, a
ricordarci che nostro compito è sperare – e quindi lottare – anche per
coloro che sono arrivati e arriveranno temporalmente dopo di noi.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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