giovedì 1 giugno 2017

Ricordando Gigi Raimondi

Luigi Raimondi, come quasi tutti gli umani, non ha potuto scegliere quando, né perché lasciare questo mondo, ma, come pochissimi umani, ha voluto decidere come andarsene e, dopo una vita in prima linea – e non è assolutamente una frase fatta – ha chiesto di andarsene in silenzio e ha lasciato alla moglie Paola l’incarico di avvertire «quanti lo hanno conosciuto» con un paio di scarne righe «a cremazione avvenuta». Militante antifascista, combattente durante la seconda guerra mondiale e nella guerra di Liberazione, poi insegnante e instancabile testimone della storia e degli ideali partigiani, non ha mai amato eccessivamente l’apparire in pubblico, ma ne ha accettato l’obbligo perché la testimonianza implica la necessità di farsi sentire. Non voglio infrangere il suo desiderio di silenzio, ma mi sembra doveroso ricordarlo con affetto e con rispetto e, per farlo, pubblico a seguire una delle presentazioni che mi aveva chiamato a fare per i suoi libri. Si era in sala Ajace, a Udine, nel dicembre del 2011, e il libro era “Poesie di lotta e di speranza”, un titolo che ha esemplarmente racchiuso due delle spinte più importanti della sua lunga vita.
Eccovi il testo

Se è vero – come ha detto Aristotele – che «la poesia è più filosofica e di più alto valore che la storia», allora non può stupire se questo nuovo libro di Luigi Raimondi finisce per carpire fin da subito l’attenzione di chi vi si accosta sia perché storia e poesia qui sono fortemente connesse, sia in quanto al pregio dell’approfondimento poetico, si aggiunge quello della chiarificazione e puntualizzazione da parte della prosa con cui l’autore accompagna ognuno di questi circa sessanta frammenti dedicati a protagonisti e ad avvenimenti della storia d’Italia e del Friuli; sono liriche scritte tra il 1944 e il 2009, ma praticamente tutte riferite e legate a quello stesso periodo della Seconda guerra mondiale e della guerra di Liberazione. Una prosa in cui racconta storie, spiega se stesso con i suoi ragionamenti e le sue emozioni, scruta nell’animo umano, chiarisce perché in certi momenti si agisca – si debba agire – in maniere totalmente diverse di come si opera in altri momenti.

La poesia, così, rimane sempre a stretto contatto con la storia, la storia personale di Luigi, una storia di grande peso, spesso difficile da portare sulle spalle. Ma anche con la Storia – quella con la “S” maiuscola – con cui lui è venuto a diretto contatto, vivendola non soltanto da protagonista, ma anche da osservatore attento e sensibile.

Il rapporto tra poesia e guerra è sempre stato mutevole, proprio come mutevole è stato l’atteggiamento dell’uomo nei confronti dei conflitti. Nella letteratura ottocentesca, con Alessandro Manzoni, o Walter Scott, la guerra è vista come un’esperienza nobile, la tragedia è caratterizzata e mitigata dall’eroismo e dalla convinzione di battersi per alti ideali. Nel Novecento, invece, la guerra diventa un orrore, una tragedia assurda che non trova giustificazioni se non nell’autodifesa, mentre con le drammatiche situazioni belliche di sofferenze, privazioni e paure, l’esperienza della guerra diventa quasi uno stimolo all’interrogazione poetica di sé.

Vale la pena di andare con il pensiero a Giuseppe Ungaretti e alla sua folgorante «Si sta / come d’autunno / sugli alberi / le foglie» fatta con stile scarno e drammatico, a Salvatore Quasimodo che preferisce, invece, esprimersi con periodi lunghi e scorrevoli che affrontano la solitudine, la precarietà della vita e lo sfiorire delle illusioni, a Umberto Saba che si rifiuta di permettere alla guerra di privare l’essere umano di ogni sentimento e ricordo, nonché di congelare il suo cuore, a Primo Levi che analizza nel profondo il disastro della guerra che coincide con il disastro dell’uomo privato di ogni sentimento, di ogni dignità.

In questo quadro Luigi Raimondi sceglie un’altra via che, se per la speranza che sottende, sembra portare a Saba, per la violenza fisica e mentale che racconta, segue, invece, la strada di quel neorealismo che ha fatto la fortuna sia del cinema, sia della letteratura italiana di un certo periodo, con un modo di narrare che si propone di presentare al lettore il vero, senza mutarne artificiosamente la realtà con infingimenti che la possano variare né in positivo, né in negativo. E così ci troviamo di fronte a narrazioni crude che, anziché smussare gli angoli della violenza, finiscono addirittura, per contrasto, per accentuarne la disperata volgarità in un mondo infernale da cui nessuno potrà uscire – se mai ne uscirà – come vi era entrato; in cui la storia diventa severa e implacabile “magistra vitae”.

Ma queste narrazioni sono anche capaci di graffiare e scalfire il nostro spirito, e contemporaneamente ci fanno pensare, e quindi ci arricchiscono. Benedetto Croce diceva che «nella vera poesia le espressioni che suonano più semplici ci riempiono di sorpresa e di gioia perché rivelano noi a noi stessi» e infatti queste poesie sono capaci di comprimere le distanze di tempo, di restituire anche a chi non li ha vissuti, quei climi, quei sentimenti sempre un po’ al di sopra delle righe, come al di sopra delle righe erano anche la vita e la morte stesse. Qui non si usa, per trasmettere un messaggio, il significato semantico delle parole insieme al suono e al ritmo che queste imprimono alle frasi. Qui, per trasmettere emozioni e stati d’animo in maniera evocativa e potente, basta una lingua scarna e, quindi, spesso aspra; è sufficiente quella commistione – che talvolta sembra quasi inconsapevole – tra italiano e dialetto che per noi triestini, istriani e dalmati diventa naturale perché sappiamo che il nostro dialetto era una specie di lingua franca nata per capire e farci capirci in mezzo a una babele marittima di linguaggi, in un mondo in cui comunque si riusciva sempre a stare insieme. E così, mentre per rispetto agli altri, nella vita di ogni giorno si parla in italiano, appena ci sentiamo a casa, o tra amici, o in situazioni di intimità con noi stessi, il dialetto parte automaticamente e consente si addolcire o inasprire, arrotondare o acutizzare, l’espressione di concetti e sentimenti.

In questo quadro mi sembra importante soffermarmi un po’ di più sui concetti di lotta e di speranza messi così vicini, legati non soltanto dalla collocazione nello spazio del medesimo titolo, della stessa riga tipografica, ma stretti assieme come simboli che necessitano l’uno dell’altro per rafforzarsi e arricchirsi vicendevolmente. Non può esserci speranza, infatti, senza lotta; né può esserci lotta senza speranza.

Se questo secondo concetto può apparire intuitivo in quanto, se uno non crede minimamente di potersi salvare, tende a rassegnarsi, a limitare il più possibile i danni, o a far finire rapidamente la sofferenza, è il primo quello che, pur sottovalutato, credo sia fondamentale nella vita di ogni uomo anche nella cosiddetta vita quotidiana che tanto quotidiana – se per quotidiana intendiamo solita – quasi sempre non è.

Di fronte alla difficoltà ci si può porre con fede miracolistica che deriva da una definitiva rassegnazione; con aspettativa dell’aiuto degli altri che nasce da una propria abitudine all’inazione; con vibranti richieste di aiuto se ci si pensa troppo deboli addirittura per tentare qualcosa; con triste silenzio se si pensa che nulla più possa essere fatto. Ma la speranza può essere concepita come vera, reale, possibile soltanto se alla sua base ci sono la voglia e la capacità di lottare che a loro volta derivano dal ribollire interiore della rabbia, dell’indignazione, della voglia di giustizia, della convinzione che la democrazia sia il bene maggiore a cui su questa terra un uomo possa tendere.

Il divenire del mondo, in tutti i campi, è stato deciso da questa stretta connessione tra lotta e speranza, tra voglia di fare e determinazione ad arrivare. Ogni rivoluzione, ogni resistenza, ogni progresso sociale, ogni conquista scientifica sono derivati dal rifiuto della rassegnazione e dalla conseguente capacità di mettersi in gioco fino alle estreme conseguenze.

A questo punto comprendiamo benissimo che il problema determinante del mondo di oggi è quello di riuscire a capire perché, almeno apparentemente, noi non siamo più capaci di lottare e, quindi, in definitiva, di sperare. Questa volta i nemici non sono il fascismo, o il nazismo; lo scopo non è quello di liberare l’Italia dagli invasori. Oggi i nemici sono soprattutto gli approfittatori e gli egoisti, coloro che usano i poteri finanziari per affamare un mondo intero allo scopo di avere più potere per sé, per spadroneggiare su intere nazioni che ormai non hanno potere – o non vogliono trovarlo – per opporsi a persone e organizzazioni che operano al di fuori della legge e dell’etica.

E davanti a questa situazione continuo a domandarmi perché siamo così sensibili alle invasioni dei nostri territori, e così poco sensibili alle invasioni dei nostri diritti. Davanti alle invasioni dei territori siamo capaci di organizzare resistenze; davanti alle invasioni dei nostri diritti, siamo lì come inebetiti a lamentarci un po’ e a lasciar fare.

Pensiamo al nostro Paese, a noi stessi in questo momento. Dopo essere rimasti praticamente inerti per tanti anni davanti al disastro berlusconiano, oggi oscilliamo tra la fede miracolistica in un governo tecnico che ha il pregio della competenza, e il timore profondo di un governo tecnico che, per definizione, è lontano dalla democrazia; anzi, per essere più preciso, che a lei è indifferente. Sproniamo altri a fare per noi, ma con grande attenzione a che tocchino i privilegi degli altri e non i nostri e soltanto raramente finiamo per rimetterci in gioco e abbiamo il coraggio, non di prendere in mano un’arma e di rischiare di uccidere e di morire, ma neppure quello di prendere in mano un’opinione e rischiare di essere contraddetti, o presi in giro, o anche vilipesi, o discriminati per il coraggio delle nostre opinioni.

La realtà è che abbiamo delegato troppo, non abbiamo usato la democrazia rappresentativa, ma l’abbiamo stravolta, svilendola nel ruolo e nella sostanza, usandola soltanto come comodo alibi per non rischiare, per non sporcarci le mani, per non metterci la faccia, per non sudare eccessivamente. La realtà è che siamo diventati molto diversi dai nostri genitori. A rileggere il libro di Luigi questa discrasia, questa distanza tra noi e chi ci ha preceduto diventa abbagliante e abissale, profonda e umiliante.

Ma davvero noi non siamo in grado di reagire? Oppure potremmo essere ancora in grado di insorgere, ma non riusciamo ancora a sollevarci da quel comodo divano nel quale ci hanno fatto sedere facendoci credere che le conquiste fatte dai nostri padri sarebbero durate per sempre e senza bisogno di essere difese?

Sarebbe interessante, ma non fondamentale, capire se la nostra stirpe si è rovinata per naturale involuzione non trovando più in sé il coraggio di fare quello che va fatto, o se invece la cosa deriva da un torpore indotto e instillato in noi con deliberata determinazione. Fondamentale, invece, è chiedersi se e come troveremo la determinazione a rialzarci perché la risposta a questo interrogativo è dirimente per capire il futuro non soltanto dell’Italia, ma dell’intera società occidentale, di quella stessa società in cui noi viviamo e sulla quale ci siamo plasmati a nostro piacere, dopo averla modellata con rigore etico e intellettuale.

E non equivochiamo: Raimondi mette bene in chiaro che per mantenere la propria dignità non si tratta di ricorrere a reazioni violente, ma soltanto di non abbandonare la propria umanità, di difendere quella democrazia e quella Costituzione che proprio Luigi e quelli che hanno combattuto assieme a lui hanno conquistato e poi ci hanno regalato. «Per non cadere in riprovevoli reazioni – scrive – quando i neofascisti tenevano un comizio o una manifestazione a Treviso, non restavo mai in città. L’abitudine al combattimento si annullò lentamente, quasi del tutto». Egli, infatti è intimamente e fieramente pacifista, perfettamente in linea con la stragrande maggioranza dei combattenti di quella volta che sono oggi i pacifisti più convinti.

E questa non è una contraddizione perché i partigiani hanno deciso di combattere proprio per assicurare a se stessi e agli altri un periodo di pace e lo hanno fatto con un’incoscienza disperata, o con una coscienza piena di speranze, il che, in definiva è proprio la medesima cosa. Sono stati giovani e anziani molto simili a don Chisciotte che assolutamente non era – come a prima vista potrebbe apparire – schiavo di un’inutilità derivante dalla propria pazzia, ma si è trasformato in simbolo della necessità dell’uomo di inseguire i propri ideali; di un uomo che, anche se è certo fin dall’inizio che nella maggior parte delle volte finirà sconfitto, va avanti comunque perché è convinto che il seme da lui lasciato continuerà a germogliare. Da demente zimbello per lettori e ascoltatori secenteschi, un po’ alla volta l’eroe folle di Cervantes si è trasformato, diventando allegoria di chi non si spaventa di combattere battaglie che i benpensanti e i ragionevoli considerano perdute in partenza, fino a entrare nelle ballate di un cantautore come Francesco Guccini che lo descrive animato da grande determinazione etica: «Mi vuoi dire, caro Sancho, che dovrei tirarmi indietro / perché il Male e il Potere hanno un aspetto così tetro? / Dovrei anche rinunciare a un po’ di dignità, / farmi umile e accettare che sia questa la realtà?». E poi l’hidalgo spiega anche perché si sente costretto a combattere per i propri ideali: «Salta in piedi Sancho è tardi, non vorrai dormire ancora. Solo i cinici e i codardi non si svegliano all’aurora. Per i primi è indifferenza e disprezzo dei valori e per gli altri è riluttanza nei confronti dei doveri».

È proprio pensando a questa figura che si è incarnata nei partigiani, che teoricamente mai avrebbero potuto vincere, che ci rendiamo conto che anche la Resistenza è nata da una forma di benedetta pazzia. Non è stata una rivolta perché la sua repentina fiammata iniziale non si è esaurita altrettanto rapidamente, e nemmeno una rivoluzione perché è scaturita quasi spontaneamente, senza lunghe preparazioni filosofiche. È stata, però – raro esempio nel mondo e nella storia – la sommatoria di queste due cose perché ha chiamato subito in campo gente di ogni ceto chiedendo anche sacrifici estremi, e poi ha saputo allungare i suoi benefici influssi per sempre – mi sarebbe piaciuto dire – o almeno per alcuni decenni, lasciando, comunque, in buona parte della popolazione la voglia di resistere ancora per difendere la propria dignità, libertà e indipendenza.

Ecco, la parola: resistere. E per resistere bisogna anche avere memoria, bisogna anche ricordare cos’è accaduto per impedire che si verifichi di nuovo. Quello della memoria oggi è un momento di estrema importanza: mentre alcuni vogliono distruggerla per cancellare gli errori del loro passato, altri la vogliono mantenere viva non tanto per evidenziare gli errori altrui, quanto per sottolineare quali errori devono essere assolutamente evitati.

Da una parte c’è gente come il fortunatamente ex ministro Ignazio La Russa che, con grande impudenza, una volta ha detto: «Del 25 aprile abbiamo le scatole piene. Ne parlino gli storici e non i politici». Con la certezza, ovviamente, che i mass media danno ben poco spazio agli storici e molto ai politici. E invece non è affatto così: ne devono parlare ancora tutti, storici, politici, normali cittadini, libri come questo, perché la memoria è l’unica cosa che può impedire la manipolazione di una realtà che diventa fastidiosa in quanto rende non credibile una propaganda che sempre più spesso ha cercato di confondere e parificare resistenza, fascismo e nazismo ricordando a piena voce che tutti i morti meritano identica pena, ma ingiustificabilmente dimenticando di dire che le cause per le quali sono morti sono diverse e hanno ben diversa motivazione e dignità. E che per tutti importante è come si è vissuti e non come si è morti.

Fortunatamente a contrastare la tentazione di lasciarsi andare a questo andazzo ci sono, appunto, libri come Poesie di lotta e di speranza in cui Luigi Raimondi, oltre alle poesie, ci offre apparati di note che scrive sicuramente per sé, ma anche per gli altri, con un bisogno di raccontare che nasce non per rendersi interessante, ma per rendersi utile, per mettere in comune un patrimonio di esperienze e di conoscenze che gridi a voce alta: «Guarda cos’è accaduto a noi: non permettere che possa accadere anche a te o ai tuoi figli».

E lo fa riportando alla memoria e pubblicando in tutta umiltà («So – scrive – che queste annotazioni non sono “Storia”; le lascio, come altre, quali curiosità aneddotiche, perché anche di queste cose sono fatto») pubblicando, dicevo, brandelli di storia che a prima vista potrebbero apparire inessenziali nel grande e drammatico quadro di un secolo crudele come quello chiusosi da pochi anni e che invece, sono fondamentali per ridare alla storia quella dimensione umana che, da immobile e intoccabile monolite di date, nomi e avvenimenti, viene trasformata in serbatoio dal quale attingere frammenti di insegnamento per evitare di commettere nuovamente quegli errori e quegli orrori che hanno costellato la vita dell’umanità e che sono ancora all’ordine del giorno.

L’altro giorno sono andato a presentare "Non tutti i bastardi sono di Vienna", di Andrea Molesini, vincitore del Campiello, e ho rilevato che il titolo del libro, ambientato nell’ultimo anno della Grande Guerra, mi sembra perfetto, perché racchiude esattamente la complessità di un orrore ricorrente come la guerra, che non consiste soltanto nelle morti, nelle violenze, nei dolori e lutti, nelle distruzioni che vediamo, ma anche e soprattutto in quello che si nasconde dietro alle cose visibili, e che, in realtà, è addirittura più importante perché più determinante. In questa frase c’è la desolata e rancorosa constatazione che nelle guerre, come nella vita, non ci sono mai tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall’altra, ma che i bastardi possono essere dappertutto. E non è un particolare di piccolo momento perché l’affermazione «Non tutti i bastardi sono di Vienna» è ben diversa da un possibile e zuccheroso «Non tutti i buoni sono di Roma». Perché in situazioni come quelle di una guerra, ma anche nella vita di ogni giorno, importante non è sottolineare che le persone di buon cuore ci sono dappertutto, come Abramo aveva fatto rilevare a Dio parlando di Sodoma, bensì capire che il male è capace di annidarsi dappertutto e che è questo male a dover essere estirpato per mettere al riparo l’umanità da cataclismi umani come quello della guerra, ma non solo da quello. Con la guida trainante dei buoni – si capisce – ma con l’impegno di tutti. Altrimenti non si potrà arrivare da nessuna parte.

Luigi questo lo sa benissimo e rimane radicatissimo nelle proprie convinzioni e nei propri valori, ma lontano da ideologie che non tollerano e cannibalizzano i dissensi di ragione e di coscienza. Fa così per poter essere sempre chiaramente schierato, ma anche per poter mantenere per sé libertà di giudizio, per ribadire che nessuno possiede la verità assoluta, né il bene assoluto, per ricordare che quell’epoca, in cui in Italia chi aveva il potere pensava di dominare sia la verità, sia il bene, è stata la peggiore della nostra storia; che tantissimi italiani hanno combattuto e sono morti per combattere questa idea che nega il pensiero autonomo, il libero arbitrio con il diritto di parola, di pensiero, di opinione, di resistenza. Che nega, in una parola, la democrazia.

A leggere i versi e la prosa di Luigi, a pensare alle persone e ai fatti di cui racconta, ci rendiamo conto che troppo spesso abbiamo guardato agli uomini della Resistenza, come a superuomini, ma non è vero. Sono stati uomini normali, e quindi capaci di combattere per le proprie idee e per i propri valori. Come ha detto una volta a Udine la scrittrice indiana Mahasweta Devi: «Né gli uomini, né le donne sono mai stati deboli. Hanno sofferto molto, subìto molto, ma non sono mai stati deboli».

Coltivare la necessità dei superuomini, come coltivare la necessità di una leadership, serve soltanto a lavarsi la coscienza, a poter dire: «Non è colpa mia se non sono eroico, o non sono un leader, perché non ne ho la statura; e se gli eroi e i leader a disposizione sono davvero scarsi, se non impresentabili, non posso farci niente». Ma se parlassimo di umanità in cui tutti hanno gli stessi doveri, oltre che gli stessi diritti, se invece di “leadership” parlassimo di “comunità”, allora la cosa riguarderebbe tutti, perché tutti sarebbero chiamati, a seconda delle loro piccole o grandi possibilità, comunque e sempre a dare il proprio contributo.

A Gigi devo un grazie per avermi costretto a riflettere su alcune cose. E quando uno riflette finisce sempre per cambiare un po’ se stesso.

Ma devo dirgli grazie pure per la sua assoluta sincerità anche davanti alle cose più difficili, come il rapporto con la morte. Nell’Apertura dice: «Il rapporto vita-morte, principio-fine, è costantemente presente nella mia poesia». E più avanti continua: «Allora, paura della morte? Ora più che mai paura della sofferenza fisica, della perdita progressiva dell’equilibrio, dell’autocontrollo, della memoria, non paura del trapasso, ma del vuoto, del non essere più e dell’essere in breve dimenticato o, diversamente da me vero, ricordato. Ma, dette queste poche cose, sono certo soltanto della mineralizzazione del mio corpo quale unica soluzione possibile; anche per ciò amo molto la vita e, ora che sono vecchio, conosco la sua brevità, la sua inutilità se mal vissuta, sprecata. Continuo a lavorare fisicamente, a studiare, a pensare, a essere impegnato nella lotta e nella speranza di un futuro migliore per chi mi sopravvivrà».

E, incapace di smettere di lottare, dopo aver aperto il suo libro parlando della morte, lo conclude con la Poesia della speranza, a ricordarci che nostro compito è sperare – e quindi lottare – anche per coloro che sono arrivati e arriveranno temporalmente dopo di noi.

Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

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