Un paio delle reazioni ai miei commenti su alcune frasi pronunciate da Berlusconi sul terremoto d’Abruzzo mi inducono ad approfondire un tema già toccato ragionando sui diversi atteggiamenti dei sindacati davanti alla situazione attuale di crisi.
Nelle parole di Silvano Romanese e di Francesco Manzella, infatti, trovo quello che si potrebbe definire un “elogio del silenzio” che non mi sento assolutamente di condividere.
Silvano Romanese, nel suo primo intervento chiede di «non fare politica» e sottolinea che avrei fatto «meglio a starmene zitto». Francesco Manzella, invece, condivide il mio commento, ma soltanto se questo è limitato «ad un’analisi della vita ordinaria».
Fermo restando che ognuno ha diritto alle proprie opinioni, provo a specificare perché, secondo me, elogiare il silenzio non soltanto è sbagliato, ma è addirittura dannoso.
Davanti ad avvenimenti di questo tipo, infatti, il silenzio può corrispondere a due posizioni.
Stare zitti, se si pensa che le frasi siano condivisibili, è un’accettazione di quanto è stato detto e ha, quindi, una valenza politica uguale, anche se contraria, alla critica.
Stare zitti, se si pensa che le frasi non siano condivisibili,manifesta un’indifferenza grave. Se, infatti, adottando il linguaggio del cristianesimo, i protagonisti delle azioni possono essere colpevoli del peccato di opere, gli indifferenti si macchiano scientemente di quello di omissione.
Quando nel Confiteor si dice «...perché ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni» sono convinto che l’ordine delle parole – come in tutti testi della Chiesa – non sia stato messo lì a casaccio, ma che chi lo ha scritto abbia realizzato scientemente un ordine crescente di gravità. L’omissione, il restare inerti, il far finta di non vedere, è probabilmente la colpa più grave, perché è sicuramente un atteggiamento non istintivo, ma deliberato, perché è il trionfo dell’egoismo sul bene generale, della pigrizia sul dovere. Perché si possono permettere danni incommensurabili per piccini desideri di tranquillità.
Per quanto riguarda poi la differenza tra vita “ordinaria” e vita “straordinaria”, non riesco proprio a percepirla dal punto di vista di un comune cittadino che ogni giorno deve confrontarsi con le notizie di disgrazie – naturali o meno – e che dovrebbe quotidianamente porsi l’obbiettivo di fare in modo che queste disgrazie siano evitate, o almeno che le loro conseguenze vengano ridotte.
Ancor meno mi pare accettabile il silenzio da parte della stampa e della magistratura, il cui compito, nelle democrazie, è proprio quello di fare da guardia al rispetto delle regole, di essere garanzia per i cittadini davanti a un potere che spesso ritiene di avere il diritto di essere non giudicabile e che estende la propria non giudicabilità anche al passato.
Il fatto è che la lode a coloro che sono intervenuti per soccorrere, l’indagine su quello che poteva difendere i cittadini e non è stato fatto e il disaccordo davanti a proponimenti chiaramente impossibili da realizzare possono coesistere benissimo.
Il «lasciateci lavorare e ci giudicherete a fine mandato» è la negazione della democrazia che non esiste soltanto al momento del voto, ma vive quotidianamente nel confronto tra le diverse posizioni. Il «dobbiamo fare e non discutere» è ottusità, oppure voglia di scavalcare i controlli, se non si riescono a ridurre le regole. E credo che nell’Italia di questi anni sia la seconda ipotesi quella giusta.
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