È da un po’ di mesi che il mio “Eppure...” è in pausa. Un po’ per alcuni capricci di salute, un po’ perché il mio vecchio profilo Facebook è stato hackerato e non riesco più a entrarci, ma anche – lo confesso – per un certo scoramento. Ma sempre più, a vedere il comportamento di Giorgia Meloni e dei suoi ministri, cresce il raccapriccio e, contemporaneamente, il rimorso del silenzio che in situazioni come queste diventa molto simile alla complicità, o quantomeno all’indifferenza.
Ora, però, la misura appare davvero colma: la ridicolmente tragica vicenda dei migranti deportati in Albania e poi, su tassativa disposizione della magistratura, portati in Italia è davvero emblematica del fatto che è stupido e inutile domandare alla Meloni, a La Russa e compagni se sono fascisti: lo sappiamo già anche prima del fastidio con il quale evitano con cura di dichiararsi antifascisti.
In quale altro modo, del resto, si potrebbe definire il comportamento previsto dalla presidente del Consiglio? Se la magistratura ha imposto che il lager albanese, disumano già nella struttura, resti vuoto in base alle leggi vigenti a livello internazionale, lei ritiene sufficiente convocare in fretta un consiglio dei ministri per promulgare un decreto che cambi i parametri con cui sono classificati i Paesi sicuri e quelli insicuri. Sarebbe una legge nazionale che non vuole sottostare a quelle internazionali? Certo, ma chi se ne importa? Siamo o non siamo sovranisti? E così possiamo contemporaneamente creare “reati universali” con cui le convinzioni della nostra destra dovrebbero valere in tutto “l’orbe terracqueo” – con l’eccezione di Musk, beninteso – e rifiutarci di sottostare ai trattati internazionali che pur abbiamo sottoscritto.
Poi sul nome “fascismo” potremmo anche discutere, ma, nella sostanza, quale altro tipo di regime cambia le leggi non appena si accorge che la giustizia rileva che quelle in vigore non consentono ai governanti di fare tutto quello che a loro garba. E il bello è sentirli dire che, se la magistratura emette una sentenza sgradita a Meloni e soci, allora va a violare la separazione dei poteri, mentre se il governo vuole imporre alla magistratura il proprio volere, si tratta di azione legittima perché la maggioranza dei votanti (non degli italiani) li ha eletti un paio di anni fa.
Ma il discorso del fascismo balza in primo piano in tutto il comportamento del governo mentre le opposizioni interne – che pur ci sono – tacciono subito quando la minaccia è quella di perdere il potere.
Un esempio apparentemente secondario, ma chiarissimo, è quello del voto in condotta voluto dal ministro Giuseppe Valditara, quello che, parlando della scuola, aveva detto che «l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita della personalità». E, per fortuna, nessuno gli aveva chiesto nulla delle punizioni corporali. La nuova disciplina prevede che con un’insufficienza si sia bocciati e con il 6 debba sostenere un esame di educazione civica.
Vedremo come andrà, ma intanto possiamo benissimo guardare a un passato non tanto remoto, a quando andavo a scuola io ed era evidente il valore simbolico del 7 in condotta, fissato da Gentile e dal governo Mussolini nel 1923: un voto altino rispetto agli altri di molte pagelle, ma nella condotta si pretendeva la perfezione del 10, o quasi: il 9 era accettato, ma con malcelato disappunto, l’8 ti faceva guardare come un potenziale piccolo delinquente e comunque un rompiscatole che voleva discutere, il 7 era tanto basso da condannarti agli esami di riparazione in tutte le materie.
E questo perché? Perché forse il saper comportarsi bene fosse più importante del conoscere l’italiano, il latino, la matematica, una lingua straniera? Assolutamente no. E, infatti, non si potrebbe capire il perché di una simile severità se si pensasse alla buona condotta come sinonimo di buona educazione. Tutto diventa, invece, platealmente comprensibile se buona condotta è sinonimo di disciplina. E la differenza tra disciplina ed educazione è enorme. La disciplina è il rigoroso rispetto delle regole. L’educazione, invece, è il rispetto delle persone. La differenza è fondamentale perché l’educazione è un modo di porsi davanti agli altri, mentre la disciplina è il rispetto di dettami che possono essere fissati da chiunque, magari nella legalità, ma non con giustizia e che non tengono conto del pensiero delle persone che quelle regole in qualche modo dovrebbero governare. Magari di regole cambiate soltanto perché più comode per chi detiene – pro tempore, si spera – il potere.