martedì 28 ottobre 2025

Il giorno dei morti

Non so se la scelta della data sia frutto di una casualità, ma, se così non fosse, bisognerebbe ammettere che chi l’ha decisa è dotato di una dose di humor nero decisamente superiore a quello portato sullo schermo da registi come Luis Buñuel e Marco Ferreri. Il 2 novembre, infatti è stato fissato come ultimo giorno in cui il governo italiano potrà chiedere la cessazione del Memorandum d'intesa con la Libia. Se non lo farà, il 2 febbraio 2026 l'accordo verrà automaticamente rinnovato per altri tre anni.

Per capirci, il Memorandum d'intesa è quel criminale patto che, sotto la copertina che parla di lotta al terrorismo, contiene gli strumenti che l’Italia regala alla Libia – e segnatamente alla sua guardia costiera – per bloccare, magari mitragliandoli i barconi di quei disgraziati che fuggono da guerre, carestie, epidemie, dittature, per cercare di salvare sé stessi e i propri figli. Come se già non bastassero le onde del mare e le disastrose condizioni delle barche, per garantire che ci saranno quelle migliaia di annegati che fanno del Mediterraneo il più grande e affollato cimitero del globo.

Il 2 novembre, per chi non lo ricordasse è il giorno dei morti e, grazie a questa scadenza, che sicuramente il governo Meloni non vorrà usare per interrompere l’accordo, non sarà più soltanto il giorno in cui si rivolge un reverente pensiero a chi non c’è più, ma anche quello in cui già si celebreranno le altre migliaia di bambini, donne e uomini che mai riusciranno a toccare di nuovo terra da vivi,

Non posso credere che Meloni, Salvini, Piantedosi, Nordio e compagnia, dopo aver riaccompagnato al-Masri a casa con un aereo di Stato, possano pensare di interrompere il rapporto mandante-sicario con la Libia e neppure mi immagino che il pavido Tajani, pur non inneggiando alla scelta, possa distaccarsene, ma sono sicuro che questa potrebbe essere almeno un’occasione per riflettere su come noi – intesi come popolo italiano, anche se pure all’estero succedono cose molto simili – stiamo intendendo quella che una volta era chiamata “la politica” e sul perché – almeno credo – molti di noi ormai con questa politica non vogliano avere più nulla a che fare, neppure nel breve impegno che richiede un voto.

Se il sovranismo, infatti è l’atteggiamento di chi vuol far star bene sé stesso e i propri vicini, anche a detrimento degli altri, la politica è l’arte di tentare di migliorare le condizioni di vita di tutti, anche di coloro che non ci sono né parenti, né amici, né vicini. E così è evidente la ripulsa che provo nei confronti della Meloni, che invocava non soltanto l’affondamento dei barchini dei migranti, ma anche quello delle navi delle ONG che incrociavano nel Mediterraneo per salvarli, o di Salvini, orgoglioso estensore dei suoi cosiddetti “decreti sicurezza” che, tra l’altro fanno il possibile per rendere impossibile ogni soccorso nella schifosa idea che ogni nuovo cadavere annegato possa fungere da spaventapasseri nei confronti di altri disperati, o di Piantedosi, che da fedele servitore di Salvini da funzionario del ministero, continua a mantenere la medesima obbedienza anche da titolare.

E così non posso che pensare con assoluto sdegno a Conte che, pur ammettendo oggi di avere sbagliato, da presidente del Consiglio, ha controfirmato sorridendo quei decreti Salvini. E lo stesso raccapriccio provo per Minniti che è stata la mente che ha escogitato la schifezza che sta per rinnovarsi per tre anni, ma anche per Gentiloni che, da allora presidente del Consiglio, ha consentito che i piani di Minniti, che per i migranti impedivano anche un secondo grado di giudizio, diventassero realtà.

Faccio questo elenco di personaggi per me esecrabili, non soltanto per rinfrescare un po’ la memoria a coloro che mi leggono, ma soprattutto per indicare il fatto che ormai da decenni quella che ci ostiniamo a chiamare politica ha perduto la sua funzione di ricerca del bene comune perché ha rafforzato i suoi legami con l’economia e con quel rifiuto degli altri che ormai è stata ribattezzata “sicurezza”, ma soprattutto ha reciso di netto ogni contatto con l’etica.

E se la scienza, la tecnologia e l’economia prive di contenuti etici rischiano di creare problemi spaventosi, la politica senza etica è un disastro senza paragoni perché consente tutto, anche l’essere mandante di sicari che uccidono o fanno morire i più disgraziati, gli ultimi; anche di intraprendere guerre per dimostrare di essere i più forti; gli eletti.

E a questo punto, almeno per chi è più giovane e ha ancora forze intatte, non può più essere sufficiente l’andare a votare: occorre davvero fare politica, almeno manifestando esplicitamente ogni volta che si può, anche al bar, a scuola, per strada, che è l’etica a dirigere la politica. E non viceversa.

sabato 18 ottobre 2025

Due eventi, non uno soltanto

Credo sia il caso di tornare sulla manifestazione udinese perché su stampa e televisioni assortite si notano ben più distintamente i commenti sugli incidenti scoppiati a manifestazione conclusa che sulle motivazioni che hanno portato a scendere in strada migliaia di cittadini che condannano le violenze, le invasioni e gli assassinii del governo Netanyahu e si esprimono in favore del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi. Sono sicuramente antisionisti, laddove sionismo è considerato sinonimo di imperialismo, e contemporaneamente non sono minimamente antisemiti in quanto considerano tutti gli uomini uguali, a prescindere dal colore della pelle, dalla lingua, dalla religione e dall’etnia. E lo fanno anche perché fossero loro in quella condizione vorrebbero che qualcuno manifestasse per loro.

Il fatto è che la stragrande maggioranza degli articoli che ho letto non prende in considerazione un aspetto fondamentale: se, infatti, parliamo di quello che è accaduto martedì sera, non dobbiamo riferirci a un evento unico, ma a due realtà completamente staccate tra loro.

La prima era un corteo, assolutamente pacifico, da ben oltre diecimila persone, donne e uomini, giovani e vecchi, rumorosi ma ordinati, che hanno sfilato nelle vie di Udine per qualcosa che, vista la distanza da dove la strage è avvenuta, teoricamente non avrebbe dovuto riguardarli; però hanno comunque deciso di protestare contro chi ammazza bambini, donne, uomini che nulla hanno a che fare con il terrorismo, contro coloro che sganciano bombe e mitragliano indiscriminatamente; contro quello che si vanta di aver fornito quelle bombe, quelle mitragliatrici e quei proiettili e che pretenderebbe gli dessero il Nobel per la pace perché, come ha detto Tacito, è stato sodale con coloro che hanno creato un deserto e l’hanno chiamato pace.

La seconda riguarda un centinaio, o poco più, di malintenzionati già decisi a provocare il caos visto che, già prima che il corteo vi arrivasse, urlavano in piazza Primo maggio che volevano arrivare allo stadio, ben sapendo che sarebbe stato impossibile, e che poi hanno ripetuto anche a Udine quello che avevano già inscenato in altre occasioni e in altre città: scontri con le forze dell’ordine, violenza assortite, incendi dei contenitori stradali delle immondizie.

Alcuni hanno detto che «gli organizzatori avrebbero dovuto isolare le decine di mele marce per difendere una manifestazione che era stata pacifica». Sono assolutamente d’accordo che i malintenzionati, magari già distinguibili in partenza perché celati dietro un passamontagna o qualche sciarpa, avrebbero dovuto essere isolati e allontanati dalla manifestazione, ma questo compito non era degli organizzatori, bensì delle forze dell’ordine che, oltre a possedere una professionalità che i civili non hanno, possono fruire anche di ricchi archivi e casellari giudiziali in cui nomi, cognomi, fotografie e curricula dei violenti sono già praticamente a disposizione per tempestive identificazioni.

Taluni dicono che polizie e carabinieri non devono intervenire preventivamente perché il loro compito è quello di difendere i cittadini, le proprietà private e gli arredi urbani. D’accordo, ma coloro che scendono in piazza contro il genocidio praticato contro la popolazione palestinese, non sono cittadini anche loro? Non hanno anche loro diritto alla protezione delle forze dell’ordine?

Ho sentito un’esponente della destra – purtroppo l’autodifesa della mia mente ne ha cancellato immediatamente il none – che diceva che ogni manifestazione dovrebbe essere cancellata se gli organizzatori non sono in grado di assicurare che non ci saranno incidenti. Nessuna sorpresa che costui non conosca la Costituzione, ma l’unica risposta che posso dargli è che vada a rileggersi (o più probabilmente a leggersi per la prima volta) l’articolo 21 e l’articolo 17 della nostra Carta fondamentale.

Non è accettabile che si cerchi una scappatoia del genere per evitare che il dissenso diventi troppo visibile e fastidioso. E sinceramente avrei difficoltà a discuterne anche se preventivamente, per lo stesso timore di disordini, fossero proibiti, o costretti a porte chiuse, i derby calcistici Roma-Lazio, Genoa-Sampdoria, Inter-Milan, Juventus Torino e, magari, un futuribile Udinese-Triestina. Ma sono sicuro che questo non succederà mai perché gli spettacoli calcistici, a differenza delle manifestazioni sociali e politiche in cui partecipano cittadini indignati e disinteressati, muovono ingenti masse di denaro.

Quelli che hanno sfilato non sono coloro che hanno commesso violenze e per loro non c’è da parlare di condanne perché hanno marciato per protestare, ma soprattutto per dimostrare che è di nuovo necessario sognare: immaginare e volere un mondo diverso in cui cessino le discriminazioni, i razzismi, i fondamentalismi religiosi, le diseguaglianze, il capitalismo senza freni e la povertà senza salvagenti. Un mondo di pace vera e non soltanto di assenza di spari.

È un’utopia? Sicuramente sì, ma l’aria senza utopie sarebbe irrespirabile e le utopie, del resto non sono luoghi inesistenti, ma soltanto posti in cui non si è ancora riusciti ad arrivare.

La mia emozione di aver visto tanti sognatori messi insieme è ancora fortissima e posso capire chi teme che una simile massa di persone trovi la voglia di tornare ad andare alle urne.

venerdì 3 ottobre 2025

Un sorriso vi seppellirà

A decine, centinaia di migliaia praticamente in tutte le città, a sventolare bandiere, scandire slogan, marciare in corteo con un senso di partecipazione e di unità che non si vedeva da tantissimi, troppi anni. A riunire tanta gente in strada e nelle piazze, un argomento tra i più tragici che la maggior parte di noi abbia visto accadere in diretta: un genocidio, quello perpetrato dall’esercito di Netanjahu e dei suoi complici nei confronti del popolo palestinese. Non nei confronti di Hamas colpevole di una strage crudele e insensata di oltre milleduecento ebrei “colpevoli” soltanto di essere tali, ma proprio di un intero popolo che, con questa scusa, ora può essere cancellato, o almeno espulso dalla sua terra che diventerà, secondo le parole del vergognoso ministro sionista Smodrich, una vera miniera d’oro immobiliare i cui frutti andranno divisi con l’alleato americano che oggi si identifica con l’affarista immobiliare Donald Drump che un popolo, che ha perduto la bussola democratica, ha portato per la seconda volta alla Casa Bianca.

Il costo? Qualche miliardo di dollari necessari a pagare le armi e i soldati che hanno ammazzato oltre sessantamila esseri umani, per buona parte bambini, donne e anziani che nulla hanno mai avuto a che fare con il terrorismo. E la stima delle vittime è largamente approssimata per difetto.

A rendere ancora più cupo il pensiero che ha accompagnato i manifestanti, la frustrazione e la constatazione della propria impotenza all’interno di una democrazia che sta sbandierando un nome che più non le appartiene perché il popolo è da anni che non può più decidere nulla, nemmeno il nome di coloro che vorrebbe eleggere. È da anni che vede succedere cose che non avrebbe mai voluto vedere: il leader dei 5 stelle che firma i disumani decreti sicurezza assieme a Salvini, un ministro degli interni di targa PD che dà ai libici la licenza di uccidere e gli strumenti per metterla in pratica, una presidente del Consiglio che non si vende a Trump e alle sue criminali follie, ma addirittura si regala, in una cupidigia di servilismo che si soddisfa anche soltanto con la momentanea vicinanza fisica con quello che è l’indegno erede di coloro che una volta venivano chiamati “i capi del mondo libero”.

In strada e nelle piazze, insomma, tutti i motivi possibili per essere tristi, cupi, disperati anche pensando che, ormai non soltanto in Medio Oriente, si parla tranquillamente di guerra e si sostiene che anche la sanità, la scuola, il lavoro, la cultura in genere devono sottostare a ulteriori, forti tagli perché i soldi devono essere destinati a comperare le armi da Trump, proprio dall’idolo di Giorgia Meloni.

Eppure in strada e nelle piazze ci si è quasi stupiti nel vedere i sorrisi dipinti sulla faccia di studenti, giovani, anziani, donne e uomini di qualunque età; anche di disabili in sedia a rotelle, di giovani genitori con bimbi in passeggino. Ed erano sorrisi spontanei, non artefatti e non difficili da decifrare: gli stessi sorrisi che involontariamente fioriscono quando ti svegli da un incubo e ti rendi conto che quello che hai patito nel sogno non è realtà e che quasi sempre puoi benissimo fare in modo che non succeda.

Sorrisi che sgorgano nel vedersi in tanti, insieme, uniti in un sentire comune in cui nessuno sgomita per avere un posto di primo piano, ma tutti avvertono il bisogno, ancor più che la necessità, di opporsi alla disumanità come fondamentale impegno politico, ma ancor prima come dimostrazione di appartenere a un genere umano e non belluino.

Sorrisi che affiorano nel vedersi urlare “No” a un cosiddetto garante che pone limiti assurdi all’articolo 40 della Costituzione, quello che stabilisce il diritto di sciopero, sostenendo che si tratta di uno “sciopero politico”. Ma quale sciopero, di grazia, non è stato politico? Uno non dovrebbe poter protestare se colei che in teoria ti rappresenta si rifiuta di fare qualsiasi cosa di concreto per tentar di fermare chi si sta macchiando di genocidio? Se la stessa persona cerca di convincerti che i rappresentanti di 44 nazioni sono saliti in barca soltanto per far dispetto al governo Meloni? Se usa toni di condanna senza appello per chi porta aiuti umanitari, ma tace davanti a chi fa morire di fame e di malattie curabilissime migliaia di persone? Se interpreta una protesta diffusissima contro sé stessa con la voglia di allungare il week-end per trascorrere l’allungamento in strada, con lo scopo di riaffermare la propria umanità che è ben diversa dalla disumanità di una destra che dimostra di non essere minimamente mai cambiata nelle idee.

La Meloni aveva ragione a tentare di scongiurare questa giornata di protesta: forse aveva già immaginato di vedere quei sorrisi che si schiudono davanti a quella che speriamo sia una ripartenza.

Una volta si diceva: «Una risata vi seppellirà». Oggi non c’è niente da ridere, ma si può ben sperare che sarà un semplice sorriso, quello di questa protesta, a seppellirli.

Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/ 

venerdì 1 agosto 2025

Attenti alla “likecrazia”

Sono giornate ricchissime di fatti che meriterebbero riflessioni e approfondimenti: finalmente si allarga il numero di coloro che chiamano quello che sta succedendo a Gaza con il suo vero nome, e cioè “genocidio”; anche la Corte europea dà torto al governo Meloni su quell’obbrobrio che è quella specie di carcere costruito in Albania e destinato a rinchiudere esseri umani che non hanno commesso alcun reato e che è costato centinaia di migliaia di euro per qualche decina di poveretti che poi, alla fine, hanno dovuto essere riportati in Italia; continua il vergognoso bullismo di Trump sui dazi al quale corrisponde l’inerzia europea obbligata dai sostenitori del presidente statunitense che, pur di non dispiacere al capo, continuano a dire che va bene così.

E potremmo continuare con altri spunti di discussione. Eppure, nonostante tutto, credo che sia il caso di soffermarsi per un momento su quello che sta accadendo in Calabria dove il presidente di quella Regione, Roberto Occhiuto, indagato per corruzione, dopo aver avvertito i suoi capi di coalizione – Giorgia Meloni, Antonio Tajani, Matteo Salvini e Maurizio Lupi – ha deciso di dimettersi ma per ricandidarsi immediatamente.

Si tratta di una mossa inedita che, però, si inserisce perfettamente nel modo di intendere giustizia e soprattutto democrazia da parte dei partiti di destra attualmente al governo. La decisione di Occhiuto, infatti, ben lungi dal rispettare scelte, modalità e tempi della magistratura e, quindi, delle leggi in vigore, altro non fa che negarne la funzione e l’autorità non soltanto rifiutando la separazione dei poteri che è la base di ogni democrazia che non stia già franando nel satrapismo, ma, anzi dando a un teorico popolo la preminenza sulla giustizia e confermando quella teoria malata che però sta sempre più prendendo piede, secondo la quale chi vince le elezioni può fare quello che vuole e non deve essere assolutamente disturbato da nessuno: opposizione, giustizia, informazione, manifestazioni di dissenso più o meno organizzato.

Occhiuto, infatti, oltre che autoassolversi preventivamente, finisce col dire che l’inchiesta della magistratura deve sottomettersi ai risultati delle prossime elezioni. Avrebbe già dovuto farlo – è sottinteso – al risultato delle elezioni precedenti, ma adesso, sempre che sia ricandidato e rieletto, chi potrebbe – secondo lui – avere la sfrontatezza di rimetterlo sotto giudizio?

Cioè, per essere più chiari, secondo Occhiuto e i suoi capi che gli hanno dato l’ok, la giustizia vale talmente poco da dover tacere se un certo numero di cittadini vota per lui. Magari perché disinformati, magari in quanto spinti da quelle forze che sono coinvolte nelle accuse di corruzione, magari perché del tutto indifferenti a Occhiuto, ma fedeli ai partiti che lo hanno sostenuto.

Sarebbe sempre il caso di ricordare che democrazia non vuol dire soltanto voto, ma è un complesso meccanismo di scelta collettivo nel quale le basi sono l’informazione, la conoscenza, la discussione, la scelta delle parti e soltanto alla fine il voto che, tra l’altro fornisce un risultato temporaneo, anche se, disgraziatamente, maggioritario.

Quella imboccata da Occhiuto è una strada già prefigurata dalla destra in altre occasioni, ma finora mai imboccata con decisione. Ed è una strada pericolosissima che rischia di mandare in frantumi il concetto di democrazia, e quindi di libertà, per dare vita a un qualcosa che, con un neologismo, potremmo chiamare “likecrazia” nella quale l’importante diventa non la capacità, la rettitudine, il programma sociale, ma soltanto la simpatia e la capacità di fare propaganda per raccogliere il numero maggiore possibile di quei “like” che – i social insegnano – non soltanto non sono in grado di definire ciò che è giusto, ma che possono rovesciarsi da un momento all’altro e trasformare il pollice in su in pollice verso.

Sarebbe il caso di cominciare a prendere davvero sul serio anche quelle che, a prima vista, possono apparire come delle buffonate.

venerdì 25 luglio 2025

Cara democrazia

Nel 2006 Ivano Fossati scriveva la canzone “Cara democrazia” nella quale, tra l’altro, cantava: «Cara, cara democrazia / sono stato al tuo gioco / anche quando il gioco / si era fatto pesante». Adesso, a quasi vent’anni di distanza, il gioco in Italia si è fatto davvero molto pesante. Alcuni potrebbero anche obbiettare che, davanti ai comportamenti disumani, autocratici e dispotici di gente come Netanyahu e Trump, solo per fermarci ai due più nominati in questo periodo, noi non dovremmo lamentarci più di tanto, ma la strada che abbiamo imboccato è una discesa nella quale, se non azioneremo in tempo i freni, saremo condannati a veder sfracellare la nostra democrazia e, quindi, noi stessi.

Per convincercene basta osservare nei dettagli la riforma costituzionale “della giustizia” nella quale ci si ferma soprattutto a considerare la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante e a mettere in rilievo che questo era il progetto di Licio Gelli e della sua P2, il sogno di Berlusconi, un obbiettivo primario di quella destra che sta cancellando per legge molti reati dei cosiddetti “colletto bianchi”, mentre ne inventa di nuovi per tutti coloro che non sono d’accordo. Intanto la stragrande maggioranza della magistratura stessa la considera una mordacchia proprio contro i giudici: alla faccia della tanto sbandierata separazione dei poteri.

Secondo me, però, l’agonia della democrazia la si può ancor meglio contemplare in quello che è considerato un aspetto accessorio della riforma e che, invece, è una specie di cartina al tornasole della reale aderenza dell’attuale maggioranza allo spirito democratico. Mi riferisco al sistema di designazione dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura, anzi dei due CSM che saranno necessari dopo l’approvazione di questa legge costituzionale che è stata scritta dal governo in carica, che, per sicurezza, ha addirittura impedito che il Parlamento, prima di votare, potesse presentare le proprie controproposte.

La designazione, infatti, secondo la nuova legge, sarà effettuata non per elezione, ma per sorteggio. Ora ripensate al primo comma dell’articolo 1 della nostra Costituzione: «L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Lasciamo per un momento perdere le considerazioni sul lavoro che, molto spesso, se c’è, non è né dignitoso, né in grado di fornire i mezzi per vivere dignitosamente, ma ditemi: cosa c’è di democratico in un sorteggio? E come può la politica abdicare alla propria natura che prevede obbiettivi, discussioni e scelte, per preferire il caso?

La risposta è semplice: perché in nessun’altra maniera, almeno per un congruo numero di anni, la destra potrebbe sperare, viste anche le sue leggi e i suoi condoni sempre assolutamente diretti verso una sola e ben identificata parte della popolazione, di raggiungere una maggioranza per via elettorale nel, o nei, CSM. Senza tener conto che è decisamente più facile pensar di taroccare un sorteggio che un’elezione.

Interessante, oltre che rivelatrice, è anche la motivazione con la quale si giustifica questa scelta: bisogna limitare lo strapotere delle correnti interne alla magistratura, come se le associazioni di persone che la pensano in maniera molto simile fosse un ostacolo alla democrazia. Vista la loro evidente insofferenza nei confronti di una Costituzione nata tenendo ben presente il drammatico e schifoso ventennio fascista in cui il pensiero unico era obbligatorio, sarebbe il caso di ricordare a Meloni e complici, di cui il ministro Nordio è soltanto quello più in vista, che l’artico 18 della nostra carta dice che «I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale» e che l’articolo 49 addirittura precisa: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».

Le cosiddette correnti, insomma, altro non sono che piccoli partiti di interesse settoriale che hanno il diritto di vivere e di comportarsi come i fratelli maggiori perché sono proprio loro le arterie che, tramite il concorso di tutti quelli che si impegnano in tal senso, portano il sangue politico che nutre la democrazia. Combattere le correnti equivale a combattere i partiti, proprio come avveniva nei vent’anni dominati da quel Mussolini di cui il presidente del Senato, seconda carica dello Stato, tiene orgogliosamente il busto nella propria abitazione.

Sarebbe interessante ascoltare la risposta che la destra darebbe, ora che è al potere, a un’assurda richiesta di sorteggio, al posto delle elezioni, per il Parlamento allo scopo di combattere lo strapotere dei partiti politici e delle loro segreterie.

Ivano Fossati concludeva cantando: «Cara democrazia, ritorna a casa che non è tardi». È vero, ma perché questo possa avvenire è necessario che le si aprano nuovamente le porte, parlando, scrivendo, manifestando e, alla fine, tornando ad andare a votare. In ballo c’è proprio la democrazia e, quindi, la libertà.

 

 

giovedì 17 luglio 2025

I pesi e le misure

E finalmente, dopo più di venti mesi di bombardamenti indiscriminati contro Gaza e i suoi abitanti, anche Giorgia Meloni ha detto qualcosa contro il comportamento di Israele e degli assassini comandati da Netanjahu.

La RAI ha definito “durissima” la reazione della presidente del Consiglio che ha dichiarato: «I raid israeliani su Gaza colpiscono anche la chiesa della Sacra Famiglia. Sono inaccettabili gli attacchi contro la popolazione civile che Israele sta dimostrando da mesi. Nessuna azione militare può giustificare un tale atteggiamento».

Già su quel “durissima” ci sarebbe da obbiettare, perché più che un giudizio negativo, mi sembra essere un puro appunto di cronaca. Ma la cosa che lascia esterrefatti è che è la prima volta che dalla orrenda e disumana strage compiuta da Hamas il 7 ottobre 2023 in cui sono stati uccisi oltre 1.200 israeliani e altri 247 sono stati presi in ostaggio e dalla altrettanto orrenda e disumana reazione israeliana che finora ha ucciso circa 100 mila arabi, che Giorgia Meloni sembra essersi accorta che Netanjahu sta lanciando quotidiani e spietati «attacchi contro la popolazione civile».

Potrebbe quasi sembrare – ma è evidente il mio malevolo atteggiamento contro la presidente del Consiglio – che a Giorgia Meloni non sia importato nulla dei circa centomila arabi ammazzati dalle bombe e dai proiettili israeliani, oltre che dalla fame, dalle sete, dalle malattie e dalle ferite che non si riescono a curare, e che altrettanto insensibile sia stata davanti alla morte di sei bambini, che l’altro giorno stavano andando a prendere l’acqua, per quello che è stato definito un «errore tecnico», che evidentemente per loro rientra nella logica delle cose. Ma una ferita alla gamba del parroco della Sacra Famiglia, don Gabriel Romanelli, ha avuto il potere di ridestarla – temporaneamente, mi sentirei di scommettere – e di prendere posizione contro un bombardamento che ha causato altri due morti e undici feriti. Questa volta si sarebbe trattato di «un errore di tiro». 

A darle man forte, poi, è accorso un altro che è stato capace, per tutti questi mesi, di voltarsi dall’altra parte pur di non disturbare Netanjahu, fedele alleato di quell’orrendo Trump che è il punto di riferimento inamovibile di ogni governo di destra. Mi riferisco al ministro degli Esteri Antonio Tajani che ha detto: «Gli attacchi dell'esercito israeliano contro la popolazione civile a Gaza non sono più ammissibili. Nel raid di questa mattina è stata colpita anche la Chiesa della Sacra Famiglia a Gaza, un atto grave contro un luogo di culto cristiano. Tutta la mia vicinanza a Padre Romanelli, rimasto ferito durante il raid. È tempo di fermarsi e trovare la pace». Prima della ferita alla gamba di padre Romanelli, a cui va la mia totale e assolutamente non ironica solidarietà, evidentemente per lui gli attacchi erano perfettamente ammissibili.

Anche Papa Leone XIV si è detto «profondamente addolorato nell'apprendere la perdita di vite e di feriti causati dall'attacco militare alla chiesa cattolica», ma lui ha parlato ogni giorno contro gli attacchi israeliani e non ha avuto bisogno che a essere ferito fosse, un cattolico, un bianco, un prete, per criticare Netanjahu e i suoi killer.

Anche questo dimostra che il discrimine nel giudizio delle persone e dei gruppi politici è dato dalla differenza tra chi si fa guidare dall’umanità e chi pratica la disumanità, una differenza che consiste soprattutto nel fatto che per i primi tutti gli esseri umani meritano lo stesso rispetto e la medesima pietà, mentre per i secondi le differenze tra gli uomini non soltanto sono profonde, ma dipendono esclusivamente dalle visioni e dalle convenienze di chi si sente in diritto di discriminare dando pesi e misure diverse a esseri che sono sempre persone con responsabilità individuali e non indistinguibili particelle di ammassi ipotetici di essesi intruppati sotto una medesima e assurda etichetta.

Dovrebbe bastare questo per decidere da che parte stare e per allontanare da sé coloro che sulle differenze basano la propria politica e il proprio comportamento.

giovedì 5 giugno 2025

Sicurezza, ma per chi?

Che sia un “decreto sicurezza” non c’è alcun dubbio, ma bisogna capire questa sicurezza a chi sarebbe garantita. Perché per il governo in carica problemi e rischi dovrebbero diminuire in quanto, in teoria, le nuove norme dovrebbero ridurre drasticamente il dissenso e le relative manifestazioni. Per i cittadini, invece, i problemi cresceranno visto che alcuni diritti previsti dalla Costituzione sono ostacolati con la minaccia di arresti e detenzioni.

In teoria nessuno potrebbe più protestare, se non a tavola tra amici, al telefono, o via internet, visto che il governo si scatena contro le manifestazioni pubbliche, anche se già alcune procure hanno affermato che, per esempio, non si può procedere contro le occupazioni delle scuole perché il fatto non costituisce reato in quanto gli studenti che prendono temporaneo possesso degli edifici scolastici protestando e manifestando starebbero soltanto esercitando un diritto garantito dalla Costituzione nell’articolo 17, quello di “riunione” e “manifestazione”. In più le occupazioni studentesche non costituiscono reato di interruzione di pubblico servizio poiché «gli studenti devono essere considerati soggetti attivi della comunità scolastica e partecipi alla sua gestione».

Ma il cosiddetto “decreto sicurezza”, in realtà, è una specie di “decreto manette” non soltanto perché restringe alcune libertà che la Costituzione ha affermato esplicitamente e che il fascismo esplicitamente aveva negato: è soltanto una nuova tappa in un percorso di progressivo autoritarismo che diventa sempre più evidente e che comincia a urtare la sensibilità anche di tante persone non particolarmente impegnate.

In questo quadro tra poco sarà chiaro, perché diventerà effettivo, anche il peso delle scelte del ministro Piantedosi sulla scuola. Non saranno promossi, né ammessi agli esami, infatti, coloro che in condotta non avranno ottenuto almeno il 6. Giusto, si potrebbe dire; ma, a ben guardare, non è proprio così. E, se non si avrà almeno un 9, non si potrà ottenere il massimo dei voti.

È evidente che, rispetto al passato, Valditara ha voluto rendere il voto in condotta numericamente un po’ più aderente a quelli delle altre materie, ma la sostanza del concetto di condotta non cambia. Se guardiamo a un passato non tanto remoto, era evidente il valore simbolico del 7 in condotta, fissato dall'allora ministro Giovanni Gentile e dal governo Mussolini nel 1923: era un voto più alto rispetto agli altri di molte pagelle, ma nella condotta si pretendeva la perfezione del 10, o quasi. Il 9 era accettato, ma con malcelato disappunto, l’8 ti faceva guardare come un potenziale piccolo delinquente e comunque un rompiscatole che voleva discutere, il 7 era tanto basso da condannarti agli esami di riparazione in tutte le materie.

E questo perché? Forse perché il comportarsi bene è più importante del conoscere l’italiano, il latino, la matematica, una lingua straniera? Assolutamente no. E, infatti, non si potrebbe capire il perché di una simile severità se si pensasse alla buona condotta come sinonimo di buona educazione. 

Tutto diventa, invece, platealmente comprensibile se buona condotta diventa sinonimo di disciplina. E la differenza tra disciplina ed educazione è enorme. La disciplina è il rigoroso rispetto delle regole. L’educazione, invece, è il rispetto delle persone.

 La differenza è fondamentale perché l’educazione è un modo di porsi davanti agli altri, mentre la disciplina è il rispetto di dettami che possono essere fissati da chiunque, magari nella legalità, ma non necessariamente con giustizia. E il rispetto resta doveroso anche se le regole cambiano soltanto perché più comode per chi detiene – pro tempore, si spera – il potere e le applica soltanto a coloro che non sono ossequienti. La severità tanto rivendicata da Meloni, Salvini e complici va, infatti, a corrente alternata. Sullo sgombero “immediato” delle case occupate illegalmente, per esempio, ci piacerebbe capire quale significato danno all’aggettivo “immediato” visto che Casapound occupa un intero palazzo romano da ventidue anni e non mi sembra che lo sgombero sia già in atto.

Domenica e lunedì si voterà per un referendum che ha il compito di cancellare cinque leggi sul lavoro e sulla cittadinanza che considero ingiuste, ma che può anche lanciare, raggiungendo il quorum, un potente messaggio contro chi crede di poter fare sempre quello che vuole tramutando una democrazia rappresentativa in una democrazia delegata. Quindi andate a votare e fate di tutto per convincere più gente possibile ad andare alle urne perché la democrazia, per salvarsi, ha un assoluto bisogno di gente che creda che sia possibile una democrazia reale e non quel simulacro che ci ostiniamo a chiamare così.