martedì 4 febbraio 2025

La nipote di Mubarak

        Vi ricordate la nipote di Mubarak? O, meglio, il caso in cui la marocchina Karima El Mahroug, soprannominata “Ruby Rubacuori”, salì agli onori della cronaca perché Silvio Berlusconi – riassumo rozzamente – per difendersi dall’accusa di aver avuto una serie di incontri sessuali con lei quando era ancora minorenne, cercò di sottrarla alle indagini iniziali della polizia facendo affermare a una sua fedelissima che la ragazza era la nipote dell’allora Presidente dell’Egitto e che bisognava evitare un incidente diplomatico internazionale?

A tale proposito merita ricordare che Berlusconi fu poi assolto mentre furono invece condannati in via definitiva, per favoreggiamento della prostituzione, Emilio Fede, Lele Mora e Nicole Minetti. Ma ancor più doveroso è non dimenticare che la maggioranza del Parlamento, per difendere l’allora presidente del Consiglio, votò come se Berlusconi avesse avuto ragione a imbastire una bugia talmente evidente da far sogghignare l’intero mondo per come l’Italia aveva saputo mettersi in ridicolo.

Su quell’episodio sono stati versati fiumi di inchiostro, ma quella volta nessuno lo vide come un vero e proprio colpo di genio di Berlusconi che, con la compiacente complicità dei partiti che formavano la maggioranza, tra i quali erano già in posizione di rilievo Meloni, Salvini, Tajani e Lupi, è riuscito non soltanto a sdoganare la falsità, ma a indicare la strada verso quel nuovo modo di fare politica in cui la bugia è ormai assunta come regola e la verità come imprevedibile eccezione.

Da ragazzini ci sentivamo ripetere ossessivamente «Non dire mai bugie». Anzi era il comandamento, l’ottavo, che la famiglia e la società tenevano più in evidenza come base fondante dell’educazione e dell’onestà. In realtà il testo canonico dice «Non dire falsa testimonianza», ma ha un sapore un po’ troppo ufficiale, come se la verità diventasse doverosa, oltre che apprezzabile, soltanto nelle aule dei tribunali.

Oggi l’ottavo comandamento sembra essere scomparso in quella mota indistinta che ormai caratterizza una vita politica che sembra avere come unici scopi quelli di sopraffare la voce altrui di mantenersi alti nei sondaggi e di vincere le elezioni successive. E infatti dalle bugie siamo assediati e intossicati.

Esemplare è stata in questo senso la recita in forma di messaggio video da parte di Giorgia Meloni dopo che il procuratore Lo Voi aveva comunicato, com’era suo dovere, al Tribunale dei ministri che un cittadino l’aveva denunciata, unitamente a Nordio, Piantedosi e Mantovano, per la vicenda di Almasri, il torturatore, violentatore e assassino libico riportato velocemente a Tripoli con un volo di Stato.

Non era, come ha detto lei, un avviso di garanzia, ma una doverosa comunicazione che nei suoi confronti era stata presentata una denuncia. Il denunciante non era né un avvocato di sinistra, né un amico di Prodi, perché i suoi trascorsi politici si sono concretizzati nel Movimento Sociale e nell’Italia dei Valori di Di Pietro. La tempistica degli avvenimenti è stata immediatamente confutata anche dalle ridicole e contraddittorie ricostruzioni dei fatti da parte dei denunciati.

Al di là di questo episodio, di bugie, poi ne abbiamo sentite moltissime: sui migranti, sui conti pubblici, sulle necessità della giustizia, sui finanziamenti alla sanità pubblica e all’istruzione, e potrei andare avanti molto a lungo. E oggi le falsità ci arrivano anche da lontano e influenzano i nostri sovranisti tra cui fa di tutto per spiccare, come sempre, Salvini. Alle assurde sparate di Trump, un professionista del travisamento, fa eco Musk con il suo sostegno ai neonazisti che definisce «l’unica salvezza per la Germania» e con l’ultima alzata d’ingegno: «Make Europa Great Again», fai di nuovo grande l’Europa che, con tutta evidenza, significa, invece, distruggi l’Europa e fai rinascere le divisioni tra tante entità più piccole che, magari, ricominceranno a farsi la guerra. E non soltanto quella commerciale.

Però merita cercar di capire meglio perché ormai la bugia corrisponda troppe volte al successo elettorale. Fermiamoci alla nostra Italia e chiediamoci perché la disumanità contro i migranti e la vicenda di Asl Masri per il momento non sembrino togliere consensi alla Meloni e ai suoi complici.

Si potrebbe pensare che la strage di migranti annegati nel Mediterraneo, la disumanità nei confronti di quelli che si salvano, la prigionia immotivata nei CPT, i respingimenti, pur se inutili come quelli in Albania, possano benissimo attagliarsi alla mentalità dei fascisti, ma a votare per Meloni ci sono anche molte persone che, nel privato, non hanno in sé tracce di disumanità e, inoltre, il risultato elettorale ormai dipende in grandissima parte da coloro che non vanno più a votare perché non sentono il dovere di andare alle urne almeno per impedire che questi crimini si perpetuino.

Quindi, se l’attuale governo, anche se deporta poveri cristi innocenti e rimpatria con tutte le comodità delinquenti conclamati e ricercati su ordine della Corte di Giustizia Internazionale, continua a contare su sondaggi positivi, deve molta gratitudine a Berlusconi e alla sua determinazione nello sdoganare anche le bugie più ridicolmente incredibili perché a reggerlo non è soltanto la nostalgia di un mondo repellente che ha ammorbato l’Italia per un ventennio, ma anche l’ignoranza nel senso puramente etimologico del termine: non conoscenza. E la gente non sa più quello che in realtà succede perché non legge più i giornali, non ascolta i telegiornali, si lascia penetrare quasi soltanto dalla propaganda, dai social, dal deliberato e artistico diffondersi del sentito dire, mentre la cultura viene disprezzata perché inutile, mentre sarebbe fondamentale proprio per smascherare le falsità.

In queste condizioni qualunque notizia perde credibilità e allora tutto acquista una qualche plausibilità. Poi, a vincere spesso è la voglia di restarne fuori, per non sporcarsi come molti di noi hanno fatto dopo il 68 con il risultato non soltanto di macchiarci del peccato di omissione, il più grave, ma anche di lasciar sporcare il mondo che oggi è talmente lordo da poter indurre alla disperazione che nel cristianesimo è uno di quei “peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio”.

Disperare, insomma, anche in maniera assolutamente laica, non è né lecito, né possibile e ognuno di noi deve fare qualcosa. Proviamo a cominciare con l’impegno di leggete e far leggere, come atto di resistenza civile; non violenta, ma efficacissima ed evidentemente molto temuta.

 

martedì 28 gennaio 2025

La memoria non dura solo un giorno

 

          Oggi è il 28 gennaio e sarebbe ipocrita, oltre che stupido, sentirsi a posto con la coscienza perché ieri, 27 gennaio abbiamo celebrato la Giornata della Memoria. Perché la Memoria, se c’è, non dura soltanto una giornata. E perché, se si può dedicare un giorno a ricordare le vittime, serve l’intera vita – anche se può sembrare paradossale – per ricordare i carnefici, l’aberrazione del razzismo, l’orrore dello sterminio e per individuare i germi della xenofobia e dell’eterofobia che non sono meno gravi del “razzismo”: ne sono soltanto la pericolosissima anticamera.

Tutti conoscete la realtà dei Lager nazisti. Pensateci un po’, richiamatela alla mente e poi chiudete gli occhi e portatela avanti nel tempo di ottant’anni: portatela a oggi. Dite che è impossibile perché non ci sono le camere a gas e i forni crematori? È vero: non ci sono più – almeno per quanto ci è dato di sapere – in nessuna parte del mondo. Vi sentite rassicurati? Non credo e se così fosse, sbagliereste clamorosamente perché le camere a gas e i forni crematori erano soltanto la pur orrenda apparenza: la sostanza erano le uccisioni, gli omicidi, le crudeltà, le stragi, a prescindere dai mezzi usati.

Il fatto è che noi siamo schiavi delle rigidità che istintivamente diamo alle parole e alle immagini. Per esempio, continuiamo a domandarci se quello che troppo spesso ci appare davanti sia fascismo, o meno, e continuiamo anche a lasciarci rispondere, senza indignarci profondamente, che il fascismo non può tornare perché è un relitto della storia. Eppure dovremmo sapere che il fascismo non è soltanto il saluto romano, il colore nero, le urla “Presente”: queste sono apparenza, non sostanza e l’apparenza è praticata solo dai meno furbi. Il fascismo è molto di più: è disprezzo per le altre vite umane, è insofferenza per la democrazia, è soddisfazione per l’approfondirsi delle diseguaglianze tra i ceti sociali, è il rancore, se non l’odio, per altre nazioni, altre religioni, altre lingue, altre inclinazioni sessuali, altre convinzioni politiche. Vi pare che di queste realtà sia priva l’Italia di oggi? E vi sembra sia importante il nome con cui questi figuri si autodefiniscono per distinguere se siano fascisti, o qualcos’altro?

E se pensiamo alla Shoah, che vuol dire “tempesta devastante”, e a quello che succede oggi, ritenete che la scelta tra chi deve vivere ancora per un po’ e chi deve morire subito sia tanto diversa se viene fatta non appena le persone scendono da un carro bestiame, o se dipende da chi c’è e chi non c’è in un condominio contro il quale si lancia una bomba sapendo benissimo che si faranno certamente centinaia di vittime innocenti soltanto per la presunzione di riuscire a uccidere un colpevole?

Credete che ci sia una differenza davvero sostanziale tra il programmare di uccidere tutti gli appartenenti a un gruppo umano e il decidere “soltanto” di ucciderne il più possibile? O che ci sia davvero un abisso tra i campi circondati da filo spinato e dotati di torrette con le mitragliatrici pronte per tenere prigionieri degli innocenti, e le alte e impenetrabili mura dei CPT dove sono tenuti prigionieri, nell’indifferenza praticamente generale, esseri umani che non hanno commesso alcun reato e che sono talmente imbottiti di farmaci, calmanti e droghe che, prima o dopo, in non pochi casi, passano senza scossoni dalla disperazione al suicidio?

Ha ragione Papa Francesco quando dice che «Viviamo in una terza guerra mondiale combattuta a pezzi». E nella stessa maniera stiamo assistendo anche a uno sterminio a pezzi, che non si svolge con tutte le sue possibili apparenze nel medesimo posto e nello stesso tempo, ma che in tanti posti diversi punta ad assassinare il maggior numero possibile di esseri umani. Con l’aggravante che quella volta si poteva davvero non sapere quello che stava accadendo, o, almeno, si poteva pensare di essere creduti se si diceva di non sapere. Oggi abbiamo tutto davanti ai nostri occhi e, quindi, non sapere è impossibile: possiamo solo far finta di non sapere per non doverci sentire nel fastidioso obbligo di indignarsi davvero e, quindi, di reagire.

Come si può vedere quello che ci succede attorno, anche a pochi chilometri di distanza, e non partecipare, per come si riesce, alla vita sociale e politica del proprio Paese, addirittura non andando nemmeno a votare? Come si fa a restare indifferenti mentre i simboli fascisti e nazisti tornano a fare proseliti che si accaparrano maggioranze anche davvero molto relative, ma che, nei computi democratici, sempre maggioranze restano?

Insomma: è necessario continuare a far vivere la Giornata della Memoria anche oggi, domani e nei giorni a seguire perché non è il negazionismo l’aspetto più pericoloso della questione, bensì la voglia di non parlare di quanto è accaduto. Il negazionismo è tanto lontano da una realtà storica più che abbondantemente provata, da non attrarre nessuno che non voglia già in partenza essere attratto. Più preoccupanti sono i tentativi di camuffare la storia e di riscriverla per lavare, soprattutto in politica, alcuni panni sporchi. Ma terribilmente pericoloso è il lasciar perdere, il lasciar dimenticare un po’ alla volta con il silenzio, perché – frase abusata ma non per questo meno valida – chi non ricorda i propri errori è condannato a ripeterli.

Un’esagerazione? Provate a pensare a quanti mattatoi si sono reincarnati nell’ex Jugoslavia, in Afghanistan, in decine di altri Paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America centrale e meridionale. Provate a pensare a Gaza che non è considerato come un Lager per le sue dimensioni, non per la sua terribile realtà; pensate a quello che Trump sta imponendo non solo sul confine con il Messico, pensate al Mediterraneo dove vengono lasciati annegare migliaia di disperati e rabbrividite. Il problema è che perché il male trionfi, basta che i cosiddetti buoni non facciano niente per ostacolarlo. E sappiamo benissimo che esiste un solo miglioramento possibile per un ghetto, o per un Lager: eliminarlo.

Insomma, bisogna essere memoria, ancor prima che fare memoria. Ed essere memoria è domandarsi: cosa avrei fatto io allora? E soprattutto, pretendendo da sé stessi una risposta sincere: cosa sto facendo, per quanto posso, oggi?  

 


venerdì 24 gennaio 2025

Avvisaglie di dittatura

        

         Vi siete mai chiesti quale sia il principale segno distintivo di ogni dittatura? Pensate alla violenza, alla crudeltà, all’impego abnorme delle forze di polizia, alla soppressione di ogni forma di democrazia reale? Ci siete vicini, ma la storia non è avara di racconti di dittature che, per almeno un periodo della loro esistenza, non abbiano evitato, o che siano riuscite a tenere ben nascoste, queste caratteristiche.

La vera e inevitabile peculiarità comune, invece, è quella che i protagonisti del regime dittatoriale, anche in fase di preparazione dell’assalto definitivo al potere, raccontano menzogne evidentissime con la convinzione di riuscire a farle passare come verità, almeno in buona parte della popolazione. Per loro, insomma diventa decisamente più importante la cosiddetta realtà virtuale che fa comodo, mentre scompare la vita reale che potrebbe indurre i sudditi a pensare e a tornare cittadini.

Prendete, come esempio palmare, il ministro degli Interni, Matteo Piantedosi, e il suo intervento in Senato sul caso del generale libico Najeem Osema Almasri Habish, oggetto di un mandato d'arresto internazionale a fini di estradizione, emesso dalla Corte penale internazionale dell’Aja perché considerato responsabile di omicidi, stragi, torture, violenze fisiche e sessuali e altre amenità del genere nei confronti dei migranti bloccati nelle carceri – ma sarebbe più giusto chiamarle Lager – della Libia.

Piantedosi ha detto, rispondendo al question time senatoriale, che Almasri è stato rilasciato «per poi essere rimpatriato a Tripoli, per urgenti ragioni di sicurezza, con mio provvedimento di espulsione, vista la pericolosità del soggetto». E mi è difficile trovare un esempio più chiaro di disprezzo dell’intelligenza dell’ascoltatore.

Per cominciare: se un attentatore islamico compie un attentato nel nostro Paese, vista la sua evidente pericolosità, Piantedosi farebbe preparare un aereo di Stato per portarlo velocemente e comodamente nel suo Paese? O riuscite forse a concepire che se, per esempio, nel 1972 fossero stati arrestati in Italia i terroristi di Settembre nero, autori della strage alle Olimpiadi di Monaco, il ministro degli interni dell’epoca avrebbe tenuto lo stesso comportamento di Piantedosi? Evidentemente no.

Qualcuno potrebbe dire che si è trattato di un’assurda alzata d’ingegno del ministro e magari potrebbe richiederne le dimissioni. Ma che senso avrebbe? Pensate davvero che Piantedosi abbia agito da solo senza consultare nessuno?

Se, visto che si trattava di mandato d’arresto internazionale e che andava a toccare patti internazionali, appunto, sottoscritti dall’Italia, non avesse avvertito il ministro degli Esteri Tajani, allora sarebbe lo stesso Tajani a sollevare un polverone contro Piantedosi. Ma invece Tajani risponde, evidentemente alterato, alle domande dei giornalisti: «L’Italia è un Paese sovrano e non è sotto scacco di nessuno». Laddove per scacco, visto che non si può interpretare in tal modo un trattato liberamente sottoscritto, è evidente il riferimento alla Libia con il sottinteso «Se non lo avessimo lasciato andare, la Libia non ci avrebbe più aiutato a bloccare l’emigrazione». E poi, indifferente con che modi li trattiene.

Per me già il concetto che un po’ di morti nelle carceri di Tripoli e migliaia di morti tra le onde del Mediterraneo possano essere considerati “utili” per disincentivare le fughe dalle guerre, dalla fame, dalle dittature, sarebbe più che sufficiente per considerare questo governo – come consideravo anche l’ex ministro Marco Minnitti – totalmente inadatto a rappresentare un Paese civile.

E vi sembra possibile che di tutto sia stata tenuta all’oscuro la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni? E che da lei, che tutto sempre vuole controllare, non sia arrivato il necessario imprimatur alla liberazione del criminale e al suo viaggio immediato su un aereo di Stato? Lo conferma anche il rumorosissimo silenzio del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, sempre pronto a parlare, ma in questa occasione evidentemente scavalcato da ordini superiori.

Stiamo continuamente cercando tracce di fascismo, pur evidenti, ma ci stiamo dimenticando che le dittature possono essere anche diverse nell’apparenza, ma non nella sostanza che è soprattutto quella di pretendere che i propri sudditi non vedano più la realtà, ma accettino una narrazione virtuale che nel concreto non esiste.


venerdì 3 gennaio 2025

Una lingua; anzi, due e diverse

Apparentemente sembrerebbe proprio la stessa lingua, anche se con inflessioni dialettali leggermente diverse. Ma evidentemente così non è perché quando i significati delle stesse parole, e quindi il senso delle stesse frasi, contengono concetti profondamente diversi per chi parla e per chi ascolta, allora i casi sono due: o, appunto, chi ascolta capisce poco perché la sua lingua non è uguale a quella di chi parla, oppure capisce benissimo, ma fa finta di aver capito cose profondamente diverse confidando sul fatto che altri accetteranno le sue considerazioni adulterate senza minimamente pensare di ascoltare l’intervento su cui si commenta.

 Un esempio chiarissimo ci è offerto dal discorso di fine anno del Presidente della Repubblica che ha riscosso entusiastici apprezzamenti dall’estrema destra all’estrema sinistra, cosa che dovrebbe essere assolutamente impossibile perché Sergio Mattarella in ogni suo discorso non vuole mai evitare i punti politicamente e socialmente più scabrosi, ma li affronta affermando con chiarezza, ma senza toni aspri, le proprie convinzioni.

Gli esempi sono tanti, ma credo ne basti uno per capire il fenomeno. Mi riferisco all’uso della parola “patriottismo” che ha fatto dire a Giorgia Meloni di aver «apprezzato il richiamo del Presidente al valore fondante del patriottismo, come motore dell’azione quotidiana e sentimento vivo che muove l’impegno di quanti sono al servizio della cosa pubblica e della comunità nazionale». Mentre Elly Schlein ha apprezzato il fatto che “Il Presidente ci ha ricordato quanto sia urgente costruire un Paese più giusto, solidale e attento ai bisogni di tutte e tutti. Le sue parole sulla pace, sulle diseguaglianze, sull’emergenza climatica, sulla precarietà, sono un richiamo potente alla responsabilità collettiva».

E allora rileggiamo il passo che Sergio Mattarella dedica al concetto di patriottismo: «Patriottismo è quello dei medici dei pronto soccorso, che svolgono il loro servizio in condizioni difficili e talvolta rischiose. Quello dei nostri insegnanti che si dedicano con passione alla formazione dei giovani. Di chi fa impresa con responsabilità sociale e attenzione alla sicurezza. Di chi lavora con professionalità e coscienza. Di chi studia e si prepara alle responsabilità che avrà presto. Di chi si impegna nel volontariato. Degli anziani che assicurano sostegno alle loro famiglie. È patriottismo quello di chi, con origini in altri Paesi, ama l’Italia, ne fa propri i valori costituzionali e le leggi, ne vive appieno la quotidianità, e con il suo lavoro e con la sua sensibilità ne diventa parte e contribuisce ad arricchire la nostra comunità. È fondamentale creare percorsi di integrazione e di reciproca comprensione perché anche da questo dipende il futuro delle nostre società».

A me pare evidente che il concetto di patriottismo espresso dal Presidente sia molto più vicino all’apprezzamento espresso dalla segretaria del PD che a quello della presidente del Consiglio, per non parlare dei suoi alleati di governo che difficilmente credo possano sottoscrivere le parole dedicate alla sanità pubblica e alla scuola, economicamente mortificate dalla legge di bilancio, e, ancora di più, alla visione di fratellanza espresso nei confronti di chi «con origini in altri Paesi, ama l’Italia…».

Il sospetto è che quando Giorgia Meloni ha sentito la parola “patriottismo” si sia talmente emozionata da non sentire più il resto e, quindi, da averla tradotta con un termine apparentemente simile, ma profondamente diverso e pernicioso: “nazionalismo”.

 

domenica 20 ottobre 2024

Disciplina e condotta

È da un po’ di mesi che il mio “Eppure...” è in pausa. Un po’ per alcuni capricci di salute, un po’ perché il mio vecchio profilo Facebook è stato hackerato e non riesco più a entrarci, ma anche – lo confesso – per un certo scoramento. Ma sempre più, a vedere il comportamento di Giorgia Meloni e dei suoi ministri, cresce il raccapriccio e, contemporaneamente, il rimorso del silenzio che in situazioni come queste diventa molto simile alla complicità, o quantomeno all’indifferenza.

Ora, però, la misura appare davvero colma: la ridicolmente tragica vicenda dei migranti deportati in Albania e poi, su tassativa disposizione della magistratura, portati in Italia è davvero emblematica del fatto che è stupido e inutile domandare alla Meloni, a La Russa e compagni se sono fascisti: lo sappiamo già anche prima del fastidio con il quale evitano con cura di dichiararsi antifascisti.

In quale altro modo, del resto, si potrebbe definire il comportamento previsto dalla presidente del Consiglio? Se la magistratura ha imposto che il lager albanese, disumano già nella struttura, resti vuoto in base alle leggi vigenti a livello internazionale, lei ritiene sufficiente convocare in fretta un consiglio dei ministri per promulgare un decreto che cambi i parametri con cui sono classificati i Paesi sicuri e quelli insicuri. Sarebbe una legge nazionale che non vuole sottostare a quelle internazionali? Certo, ma chi se ne importa? Siamo o non siamo sovranisti? E così possiamo contemporaneamente creare “reati universali” con cui le convinzioni della nostra destra dovrebbero valere in tutto “l’orbe terracqueo” – con l’eccezione di Musk, beninteso – e rifiutarci di sottostare ai trattati internazionali che pur abbiamo sottoscritto.

Poi sul nome “fascismo” potremmo anche discutere, ma, nella sostanza, quale altro tipo di regime cambia le leggi non appena si accorge che la giustizia rileva che quelle in vigore non consentono ai governanti di fare tutto quello che a loro garba. E il bello è sentirli dire che, se la magistratura emette una sentenza sgradita a Meloni e soci, allora va a violare la separazione dei poteri, mentre se il governo vuole imporre alla magistratura il proprio volere, si tratta di azione legittima perché la maggioranza dei votanti (non degli italiani) li ha eletti un paio di anni fa.

Ma il discorso del fascismo balza in primo piano in tutto il comportamento del governo mentre le opposizioni interne – che pur ci sono – tacciono subito quando la minaccia è quella di perdere il potere.

Un esempio apparentemente secondario, ma chiarissimo, è quello del voto in condotta voluto dal ministro Giuseppe Valditara, quello che, parlando della scuola, aveva detto che «l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita della personalità». E, per fortuna, nessuno gli aveva chiesto nulla delle punizioni corporali. La nuova disciplina prevede che con un’insufficienza si sia bocciati e con il 6 debba sostenere un esame di educazione civica.

Vedremo come andrà, ma intanto possiamo benissimo guardare a un passato non tanto remoto, a quando andavo a scuola io ed era evidente il valore simbolico del 7 in condotta, fissato da Gentile e dal governo Mussolini nel 1923: un voto altino rispetto agli altri di molte pagelle, ma nella condotta si pretendeva la perfezione del 10, o quasi: il 9 era accettato, ma con malcelato disappunto, l’8 ti faceva guardare come un potenziale piccolo delinquente e comunque un rompiscatole che voleva discutere, il 7 era tanto basso da condannarti agli esami di riparazione in tutte le materie.

E questo perché? Perché forse il saper comportarsi bene fosse più importante del conoscere l’italiano, il latino, la matematica, una lingua straniera? Assolutamente no. E, infatti, non si potrebbe capire il perché di una simile severità se si pensasse alla buona condotta come sinonimo di buona educazione. Tutto diventa, invece, platealmente comprensibile se buona condotta è sinonimo di disciplina. E la differenza tra disciplina ed educazione è enorme. La disciplina è il rigoroso rispetto delle regole. L’educazione, invece, è il rispetto delle persone. La differenza è fondamentale perché l’educazione è un modo di porsi davanti agli altri, mentre la disciplina è il rispetto di dettami che possono essere fissati da chiunque, magari nella legalità, ma non con giustizia e che non tengono conto del pensiero delle persone che quelle regole in qualche modo dovrebbero governare. Magari di regole cambiate soltanto perché più comode per chi detiene – pro tempore, si spera – il potere.

sabato 2 marzo 2024

Un allarmante déjà-vu

È passata una settimana dai fatti di Pisa e il senso di déjà-vu è ancora fortissimo e non accenna ad andarsene. Vedere ragazzini delle superiori – disarmati e a volto scoperto – che vogliono soltanto esprimere le proprie idee, proprio come garantisce la Costituzione, spinti in un vicolo e presi a manganellate dai poliziotti mi ha lasciato un senso di profondo disagio poi ulteriormente acuito dall’atteggiamento di quei politici che si sono affannati a difendere le forze dell’ordine, come se in questa locuzione che ho sempre ritenuto inadeguata, fosse più importante la prima parola rispetto alla seconda. Anche accampando scuse ridicole, come quella del ministro Piantedosi che parla di «cariche di alleggerimento» per «garantire l’incolumità degli operatori di polizia».

Il déjà-vu mi riporta al luglio del 2001, al G8 di Genova, alla ferocia repressiva di troppi tutori dell’ordine; alla loro difesa, da parte di politici dell’epoca, sempre a prescindere; alla costruzione di prove false per sostenere questa difesa; al fatto che nelle stanze dei bottoni di allora e di oggi non c’erano le stesse persone, ma sicuramente c’erano le medesime ideologie e alla convinzione che oggi, come allora, siamo sull’orlo di un burrone e che un nostro disinteresse può rendere molto più probabile lo sprofondamento in un baratro.

Un déjà-vu, dicevo. Un ricordo incancellabile che in quei giorni del luglio 2001 ho fissato in un commento sulla prima pagina del Messaggero Veneto e che oggi vi ripropongo pari pari per vedere se anche in voi il paragone tra oggi e quasi 23 anni fa provoca un acuto senso di allarme.

Ecco il testo.

“Nell’interminabile fila di gente spaventata che avanza a mani alzate, sorvegliata a vista da uomini in blu con casco, celata e manganello in mano, c’è una signora anziana che cammina spaurita, piangendo, e dice «Per favore, per favore», c’è un papà che tiene in braccio un bambino che singhiozza disperato e lo fa respirare attraverso un panno bagnato. Poco più in là ci sono un ragazzo e una ragazza seduti a terra, in un’aiuola, abbracciati per darsi reciproco coraggio, fermi: passa un uomo delle forze dell’ordine e il manganello scatta quasi automaticamente a colpire la testa di uno dei due. Un’altra testa, quella di un giovane, è schiacciata sotto uno scarpone di un poliziotto, un’altra, di un ragazzo che già si contorce sull’asfalto, è centrata da un calcio di un carabiniere, una quarta, di una signora dai capelli grigi è imbrattata di sangue. Il filmato choc, trasmesso senza commento dal Tg1, ha lasciato il segno in tantissime persone, strappando lacrime facendo ricordare tante scene di un passato tragico che non vuole sparire. E si dice che altre ore di filmati simili, o ancor più crudi, aspettino di essere mandati in onda soltanto davanti alle giurie, o ai magistrati delle inchieste appena aperte.

Ci sono anche – ovviamente – i momenti degli attacchi dei black block e degli altri manifestanti violenti. Ma quelli sono i violenti per definizione; non li si può parificare nei metri di giudizio alle forze di polizia che hanno ben altri doveri e altre responsabilità: anche quelli di difendere se stessi, ma soprattutto quello di difendere la democrazia e i cittadini che le danno sostentamento ideale. Altrimenti si farebbe di tutta l’erba un fascio. E non è una battuta.

Il risultato è che in questi giorni abbiamo sentito dire più volte – e non soltanto dai protagonisti di Genova, feriti e arrestati – che oggi lo sguardo nei confronti delle forze dell’ordine è cambiato e che il sentimento dominante è quello di un desolato stupore: «Prima – più o meno è questo il senso di quello che si è detto – guardavo con fiducia poliziotti e carabinieri perché ero convinto che avrebbero difeso me e gli altri cittadini; oggi non ho più fiducia perché temo non ci sia più una discriminazione tra colpevoli e innocenti: si colpisce soprattutto per intimidire più che per difendere, o anche per punire».

La perdita di fiducia nelle forze dell’ordine è un pessimo segnale per una società civile e sembra che nessuno di coloro che governano stia dando il minimo peso a questa realtà. Tutti gli sforzi sono indirizzati a difendere il proprio operato e nel giustificare agenti e carabinieri a prescindere da cosa abbiano fatto. Il ministro degli interni e i suoi vicini, se proprio vogliono concedere qualcosa alla crescente marea di protesta che arriva anche da molte capitali estere, parlano di responsabilità individuali, pronti a scaricare su alcuni le colpe che, invece, sono di molti, perché il comportamento è stato praticamente identico in troppi posti per non pensare a un ordine eseguito.

Si risponde, insomma, che a un’ingiustizia si è risposto con un’altra possibile ingiustizia e con questo si fa capire che il conto dovrebbe essere chiuso. Ma questo è un errore indegno di una società civile perché due ingiustizie non si elidono mai a vicenda, ma si assommano esattamente come in matematica dove la somma di due numeri negativi fornisce un risultato che è, ovviamente, ancora più negativo dei due addendi separati. 

Ma, al di là delle valutazioni di ordine politico, la cosa che rende più inquieti è la considerazione che questi che abbiamo visto in azione a Genova sono gli stessi poliziotti, gli stessi carabinieri, gli stessi finanzieri, le stesse guardie carcerarie di tre mesi fa. E, quindi, com’è possibile che l’atteggiamento delle forze dell’ordine nei confronti dei cittadini che protestano pacificamente sia cambiato in maniera così radicale. Com’è possibile che quegli stessi uomini che cento giorni fa guardavamo con fiducia, a Genova abbiano infierito su persone a terra, abbiano picchiato esseri che chiaramente non c’entravano con i black block o con altre frange estremistiche e violente, che siano andati indiscriminatamente ben oltre a quelli che, con tutta la più buona volontà non possono essere neppure chiamati i limiti dell’eccesso di legittima difesa?

Ora, delle due l’una: o parte di questa gente in divisa è sempre stata ben disposta a un certo grado di violenza e in questi ultimissimi decenni è stata costretta a reprimere i propri istinti per disciplina, oppure questa violenza è stata comandata, voluta, instillata in questi ultimi tempi.

Impossibile scegliere uno dei due corni del dilemma, ma, tutto sommato, è anche inutile perché alla fin fine il risultato è sempre lo stesso: se l’atteggiamento è cambiato facendo ricordare a molti le atmosfere delle dimostrazioni dei primi anni Settanta, questo è accaduto perché le direttive sono cambiate.

Alcuni esulteranno nel pensare a forze dell’ordine ben disciplinate e pronte a seguire gli ordini superiori. Altri ­– e io sono tra quelli – si preoccuperanno perché se la democrazia (un virus che tenta di infiltrarsi in ogni anfratto) non è riuscito a farsi completamente largo nelle forze dell’ordine, vuol dire che quella nostra è una democrazia ancora un po’ gracile. Non si tratta di un inno alla disobbedienza, ma della considerazione che nessun uomo, in nessuna circostanza, può mandare il proprio cervello all’ammasso togliendosi la responsabilità di fissare secondo la propria coscienza il limite tra il giusto e l’ingiusto, rifiutandosi di distinguere coloro da cui ci si deve difendere anche con la violenza da quelli che, invece, non soltanto non sono una minaccia per la democrazia, ma, anzi ne sono il nutrimento per il contributo di idee che vi portano e che sono dissonanti da quelle di chi detiene – pro tempore – il potere.

Troppe volte nella storia del ventesimo secolo abbiamo visto sul banco degli accusati persone che si difendevano rispondendo vacuamente: «Non ho fatto altro che eseguire gli ordini». Dimenticando che in democrazia la parola più importante resta sempre il «No»”.