domenica 20 ottobre 2024

Disciplina e condotta

È da un po’ di mesi che il mio “Eppure...” è in pausa. Un po’ per alcuni capricci di salute, un po’ perché il mio vecchio profilo Facebook è stato hackerato e non riesco più a entrarci, ma anche – lo confesso – per un certo scoramento. Ma sempre più, a vedere il comportamento di Giorgia Meloni e dei suoi ministri, cresce il raccapriccio e, contemporaneamente, il rimorso del silenzio che in situazioni come queste diventa molto simile alla complicità, o quantomeno all’indifferenza.

Ora, però, la misura appare davvero colma: la ridicolmente tragica vicenda dei migranti deportati in Albania e poi, su tassativa disposizione della magistratura, portati in Italia è davvero emblematica del fatto che è stupido e inutile domandare alla Meloni, a La Russa e compagni se sono fascisti: lo sappiamo già anche prima del fastidio con il quale evitano con cura di dichiararsi antifascisti.

In quale altro modo, del resto, si potrebbe definire il comportamento previsto dalla presidente del Consiglio? Se la magistratura ha imposto che il lager albanese, disumano già nella struttura, resti vuoto in base alle leggi vigenti a livello internazionale, lei ritiene sufficiente convocare in fretta un consiglio dei ministri per promulgare un decreto che cambi i parametri con cui sono classificati i Paesi sicuri e quelli insicuri. Sarebbe una legge nazionale che non vuole sottostare a quelle internazionali? Certo, ma chi se ne importa? Siamo o non siamo sovranisti? E così possiamo contemporaneamente creare “reati universali” con cui le convinzioni della nostra destra dovrebbero valere in tutto “l’orbe terracqueo” – con l’eccezione di Musk, beninteso – e rifiutarci di sottostare ai trattati internazionali che pur abbiamo sottoscritto.

Poi sul nome “fascismo” potremmo anche discutere, ma, nella sostanza, quale altro tipo di regime cambia le leggi non appena si accorge che la giustizia rileva che quelle in vigore non consentono ai governanti di fare tutto quello che a loro garba. E il bello è sentirli dire che, se la magistratura emette una sentenza sgradita a Meloni e soci, allora va a violare la separazione dei poteri, mentre se il governo vuole imporre alla magistratura il proprio volere, si tratta di azione legittima perché la maggioranza dei votanti (non degli italiani) li ha eletti un paio di anni fa.

Ma il discorso del fascismo balza in primo piano in tutto il comportamento del governo mentre le opposizioni interne – che pur ci sono – tacciono subito quando la minaccia è quella di perdere il potere.

Un esempio apparentemente secondario, ma chiarissimo, è quello del voto in condotta voluto dal ministro Giuseppe Valditara, quello che, parlando della scuola, aveva detto che «l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita della personalità». E, per fortuna, nessuno gli aveva chiesto nulla delle punizioni corporali. La nuova disciplina prevede che con un’insufficienza si sia bocciati e con il 6 debba sostenere un esame di educazione civica.

Vedremo come andrà, ma intanto possiamo benissimo guardare a un passato non tanto remoto, a quando andavo a scuola io ed era evidente il valore simbolico del 7 in condotta, fissato da Gentile e dal governo Mussolini nel 1923: un voto altino rispetto agli altri di molte pagelle, ma nella condotta si pretendeva la perfezione del 10, o quasi: il 9 era accettato, ma con malcelato disappunto, l’8 ti faceva guardare come un potenziale piccolo delinquente e comunque un rompiscatole che voleva discutere, il 7 era tanto basso da condannarti agli esami di riparazione in tutte le materie.

E questo perché? Perché forse il saper comportarsi bene fosse più importante del conoscere l’italiano, il latino, la matematica, una lingua straniera? Assolutamente no. E, infatti, non si potrebbe capire il perché di una simile severità se si pensasse alla buona condotta come sinonimo di buona educazione. Tutto diventa, invece, platealmente comprensibile se buona condotta è sinonimo di disciplina. E la differenza tra disciplina ed educazione è enorme. La disciplina è il rigoroso rispetto delle regole. L’educazione, invece, è il rispetto delle persone. La differenza è fondamentale perché l’educazione è un modo di porsi davanti agli altri, mentre la disciplina è il rispetto di dettami che possono essere fissati da chiunque, magari nella legalità, ma non con giustizia e che non tengono conto del pensiero delle persone che quelle regole in qualche modo dovrebbero governare. Magari di regole cambiate soltanto perché più comode per chi detiene – pro tempore, si spera – il potere.

sabato 2 marzo 2024

Un allarmante déjà-vu

È passata una settimana dai fatti di Pisa e il senso di déjà-vu è ancora fortissimo e non accenna ad andarsene. Vedere ragazzini delle superiori – disarmati e a volto scoperto – che vogliono soltanto esprimere le proprie idee, proprio come garantisce la Costituzione, spinti in un vicolo e presi a manganellate dai poliziotti mi ha lasciato un senso di profondo disagio poi ulteriormente acuito dall’atteggiamento di quei politici che si sono affannati a difendere le forze dell’ordine, come se in questa locuzione che ho sempre ritenuto inadeguata, fosse più importante la prima parola rispetto alla seconda. Anche accampando scuse ridicole, come quella del ministro Piantedosi che parla di «cariche di alleggerimento» per «garantire l’incolumità degli operatori di polizia».

Il déjà-vu mi riporta al luglio del 2001, al G8 di Genova, alla ferocia repressiva di troppi tutori dell’ordine; alla loro difesa, da parte di politici dell’epoca, sempre a prescindere; alla costruzione di prove false per sostenere questa difesa; al fatto che nelle stanze dei bottoni di allora e di oggi non c’erano le stesse persone, ma sicuramente c’erano le medesime ideologie e alla convinzione che oggi, come allora, siamo sull’orlo di un burrone e che un nostro disinteresse può rendere molto più probabile lo sprofondamento in un baratro.

Un déjà-vu, dicevo. Un ricordo incancellabile che in quei giorni del luglio 2001 ho fissato in un commento sulla prima pagina del Messaggero Veneto e che oggi vi ripropongo pari pari per vedere se anche in voi il paragone tra oggi e quasi 23 anni fa provoca un acuto senso di allarme.

Ecco il testo.

“Nell’interminabile fila di gente spaventata che avanza a mani alzate, sorvegliata a vista da uomini in blu con casco, celata e manganello in mano, c’è una signora anziana che cammina spaurita, piangendo, e dice «Per favore, per favore», c’è un papà che tiene in braccio un bambino che singhiozza disperato e lo fa respirare attraverso un panno bagnato. Poco più in là ci sono un ragazzo e una ragazza seduti a terra, in un’aiuola, abbracciati per darsi reciproco coraggio, fermi: passa un uomo delle forze dell’ordine e il manganello scatta quasi automaticamente a colpire la testa di uno dei due. Un’altra testa, quella di un giovane, è schiacciata sotto uno scarpone di un poliziotto, un’altra, di un ragazzo che già si contorce sull’asfalto, è centrata da un calcio di un carabiniere, una quarta, di una signora dai capelli grigi è imbrattata di sangue. Il filmato choc, trasmesso senza commento dal Tg1, ha lasciato il segno in tantissime persone, strappando lacrime facendo ricordare tante scene di un passato tragico che non vuole sparire. E si dice che altre ore di filmati simili, o ancor più crudi, aspettino di essere mandati in onda soltanto davanti alle giurie, o ai magistrati delle inchieste appena aperte.

Ci sono anche – ovviamente – i momenti degli attacchi dei black block e degli altri manifestanti violenti. Ma quelli sono i violenti per definizione; non li si può parificare nei metri di giudizio alle forze di polizia che hanno ben altri doveri e altre responsabilità: anche quelli di difendere se stessi, ma soprattutto quello di difendere la democrazia e i cittadini che le danno sostentamento ideale. Altrimenti si farebbe di tutta l’erba un fascio. E non è una battuta.

Il risultato è che in questi giorni abbiamo sentito dire più volte – e non soltanto dai protagonisti di Genova, feriti e arrestati – che oggi lo sguardo nei confronti delle forze dell’ordine è cambiato e che il sentimento dominante è quello di un desolato stupore: «Prima – più o meno è questo il senso di quello che si è detto – guardavo con fiducia poliziotti e carabinieri perché ero convinto che avrebbero difeso me e gli altri cittadini; oggi non ho più fiducia perché temo non ci sia più una discriminazione tra colpevoli e innocenti: si colpisce soprattutto per intimidire più che per difendere, o anche per punire».

La perdita di fiducia nelle forze dell’ordine è un pessimo segnale per una società civile e sembra che nessuno di coloro che governano stia dando il minimo peso a questa realtà. Tutti gli sforzi sono indirizzati a difendere il proprio operato e nel giustificare agenti e carabinieri a prescindere da cosa abbiano fatto. Il ministro degli interni e i suoi vicini, se proprio vogliono concedere qualcosa alla crescente marea di protesta che arriva anche da molte capitali estere, parlano di responsabilità individuali, pronti a scaricare su alcuni le colpe che, invece, sono di molti, perché il comportamento è stato praticamente identico in troppi posti per non pensare a un ordine eseguito.

Si risponde, insomma, che a un’ingiustizia si è risposto con un’altra possibile ingiustizia e con questo si fa capire che il conto dovrebbe essere chiuso. Ma questo è un errore indegno di una società civile perché due ingiustizie non si elidono mai a vicenda, ma si assommano esattamente come in matematica dove la somma di due numeri negativi fornisce un risultato che è, ovviamente, ancora più negativo dei due addendi separati. 

Ma, al di là delle valutazioni di ordine politico, la cosa che rende più inquieti è la considerazione che questi che abbiamo visto in azione a Genova sono gli stessi poliziotti, gli stessi carabinieri, gli stessi finanzieri, le stesse guardie carcerarie di tre mesi fa. E, quindi, com’è possibile che l’atteggiamento delle forze dell’ordine nei confronti dei cittadini che protestano pacificamente sia cambiato in maniera così radicale. Com’è possibile che quegli stessi uomini che cento giorni fa guardavamo con fiducia, a Genova abbiano infierito su persone a terra, abbiano picchiato esseri che chiaramente non c’entravano con i black block o con altre frange estremistiche e violente, che siano andati indiscriminatamente ben oltre a quelli che, con tutta la più buona volontà non possono essere neppure chiamati i limiti dell’eccesso di legittima difesa?

Ora, delle due l’una: o parte di questa gente in divisa è sempre stata ben disposta a un certo grado di violenza e in questi ultimissimi decenni è stata costretta a reprimere i propri istinti per disciplina, oppure questa violenza è stata comandata, voluta, instillata in questi ultimi tempi.

Impossibile scegliere uno dei due corni del dilemma, ma, tutto sommato, è anche inutile perché alla fin fine il risultato è sempre lo stesso: se l’atteggiamento è cambiato facendo ricordare a molti le atmosfere delle dimostrazioni dei primi anni Settanta, questo è accaduto perché le direttive sono cambiate.

Alcuni esulteranno nel pensare a forze dell’ordine ben disciplinate e pronte a seguire gli ordini superiori. Altri ­– e io sono tra quelli – si preoccuperanno perché se la democrazia (un virus che tenta di infiltrarsi in ogni anfratto) non è riuscito a farsi completamente largo nelle forze dell’ordine, vuol dire che quella nostra è una democrazia ancora un po’ gracile. Non si tratta di un inno alla disobbedienza, ma della considerazione che nessun uomo, in nessuna circostanza, può mandare il proprio cervello all’ammasso togliendosi la responsabilità di fissare secondo la propria coscienza il limite tra il giusto e l’ingiusto, rifiutandosi di distinguere coloro da cui ci si deve difendere anche con la violenza da quelli che, invece, non soltanto non sono una minaccia per la democrazia, ma, anzi ne sono il nutrimento per il contributo di idee che vi portano e che sono dissonanti da quelle di chi detiene – pro tempore – il potere.

Troppe volte nella storia del ventesimo secolo abbiamo visto sul banco degli accusati persone che si difendevano rispondendo vacuamente: «Non ho fatto altro che eseguire gli ordini». Dimenticando che in democrazia la parola più importante resta sempre il «No»”.

venerdì 23 febbraio 2024

Cattolico vuol dire universale

 

Io non sono un non credente. E questa doppia negazione non presuppone l'affermazione di una mia fede. Infatti, su questo sono uno che nulla sa, tranne il fatto che mai saprà; che al massimo vorrebbe; che considera Dio un ottativo, che se ne considera un simpatizzante, ma che non può giurare che esista un Ente supremo, né che ci sia un aldilà. Credo, invece, senza dubbi al Vangelo e a quello che contiene, alle parole di un Cristo che predica e pratica l’accoglienza come forma di fratellanza e, quindi, di amore reciproco e di pace.

Resto, quindi, sconcertato leggendo purtroppo non pochi commenti postati sui social davanti alla notizia che monsignor Riccardo Lamba è stato nominato nuovo vescovo dell’arcidiocesi di Udine, quale successore di monsignor Andrea Bruno Mazzocato che ha presentato in settembre la rinuncia per raggiunti limiti di età.

Ma più che sconcertato sono schifato: possibile che coloro che hanno scritto quei commenti vergognosi contro un prelato che neppure hanno mai visto non si vergognino di proclamare una guerra contro il nuovo vescovo in parte perché non è friulano, in parte perché pratica l’accoglienza e la vicinanza ai più disagiati e agli ultimi?

Eppure “cattolico” vuol dire universale e non “campanilista”. Eppure Cristo praticava l’accoglienza e non il rifiuto anche nei confronti di Papa Francesco che sta insegnando che la fratellanza (e quindi la pace tra gli esseri umani) deve far premio su tutto.

Se ormai la voglia di destra, di nazionalismo, di razzismo, di separatismo e di contrapposizione non si accontenta più di cancellare il senso dell’esistenza del Parlamento e di effettuare l’occupazione dei mezzi d’informazione, ma vuole anche poter disporre della religione, siamo arrivati al punto in cui ci si deve rendere conto che non si tratta più di normale contrapposizione politica, ma di vera e propria lotta per difendere la democrazia intesa come sistema politico che nasce per ottenere contemporaneamente due risultati: dare voce e potere decisionale alla maggioranza, ma anche per dare voce e rispetto alla minoranza anche perché i due ruoli, in una democrazia non malata, possono – anzi, devono – alternarsi.

A leggere il curriculum vitae di monsignor Lamba, si resta ancor più stupefatti per questa opposizione di tipo razzistico a prescindere: 67 anni, nato a Caracas, in Venezuela e rientrato in Italia, con la famiglia, nel 1965, a 8 anni. Entrato in seminario nel 1984, è stato ordinato presbitero per la diocesi di Roma nell’86. Laureato in medicina, dal 1989 al ’91 è stato assistente del Pontificio seminario Romano Maggiore. Dal ’91 al 2000 è stato assistente della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Dal 2000 al 2002 è stato Parroco di Sant’Anselmo alla Cecchignola, dal 2002 al ’18 di Gesù Divino Lavoratore e dal 2018 fino e oggi di San Ponziano a Roma. Nel ’22 papa Francesco lo ha nominato vescovo ausiliare a Roma e gli sono stati affidati l’ambito della Chiesa ospitale e “in uscita” e il servizio per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili.

Un percorso che testimonia, dunque, la disponibilità alla cura degli altri, sia in senso fisico, sia spirituale, una volontà di essere vicino a coloro che soffrono. È il ritratto di una persona che avrebbero voluto avere vicino gli emigranti che per ben più di un secolo hanno dovuto abbandonare alla ventura il Friuli, ma non soltanto il Friuli, per cercare fortuna (intesa come capacità di dar da mangiare ai propri figli) in ogni parte del mondo.

Un popolo che vuole difendere la propria anima deve possedere memoria e capacità di applicarla al presente per prefigurare un futuro migliore. Un popolo che non ha memoria non può nemmeno più chiamarsi popolo. E avere memoria non può limitarsi soltanto a difendere il proprio idioma,

Ma forse le schifezze che ho letto sulla nomina di monsignor Lamba possono essere anche utili in quanto possono essere l’occasione per sbarazzarsi di quell’ipocrisia che da troppo tempo – non per desiderio di pace, ma soltanto per timore di perdere la propria tranquillità – sta anestetizzando la sensibilità di troppa gente che preferisce far finta di non sentire anche quando le parole che invece sente davvero sono assolutamente inaccettabili.

domenica 21 gennaio 2024

La colpevole maggioranza silenziosa

Dopo quello che è successo allo Stadio Friuli, dove la partita tra Udinese e Milan è stata sospesa per 5 minuti perché il portiere ospite, Mike Maignan, seguito dai suoi compagni di squadra, è uscito dal campo perché stufo degli insulti razzisti a lui rivolti da alcuni spettatori della curva Nord, a me interessa molto poco sentir accusare «pochi sciocchi non tifosi» che si sono comportati in maniera indegna; che anche questo può aver influito sul pessimo risultato sportivo; che così ne esce compromessa la faccia «di una tra le città più civili d’Italia, spesso in prima linea per i diritti delle minoranze», anche perché tutta la scena è stata vista in diretta tv, come se la realtà diventasse tale soltanto se appare su uno schermo.

Mi interesserebbe molto di più se si cominciasse a mettere sotto accusa chi ha permesso che quei «pochi sciocchi non tifosi» facessero quello che hanno fatto. E non mi riferisco soltanto all’Udinese Calcio che, come tutte le Società delle serie maggiori di questo sport in Italia, è succube, o ricattata, e comunque colpevolmente silenziosa davanti a casi di razzismo, o di violenza, anche se ormai i loro introiti dipendono più dalle tv che dalle vendite dei biglietti.

Chiamo in causa soprattutto i tantissimi – se è vero che i cretini e i razzisti sono pochi – che erano presenti e che hanno permesso che accadesse quello che è accaduto, magari sorridendo, o con indifferenza, o anche disapprovando, ma in totale silenzio. Perché non sono pochi scemi – è un buon sinonimo di razzisti – a rovinare il nome di una città civilissima, ma i tanti che li hanno lasciati fare e, ancor prima, li hanno lasciati diventare quello che sono diventati. Perché una comunità diventa tale non soltanto se è capace di applicare la solidarietà, ma anche e soprattutto se si rende conto che sempre deve essere presente anche il concetto di corresponsabilità. Perché di quello che è successo allo Stadio Friuli siamo responsabili tutti, perché la cura di una comunità spetta a tutti coloro che di quella comunità fanno parte. È questa l’idea base sulla quale è nato il concetto di democrazia. è questa l’idea che, quando è mancata, ha spianato la strada all’avanzare di qualsiasi dittatura abbia deturpato questo nostro mondo.

E adesso? Adesso alla società non tocca soltanto di non lamentarsi davanti alle sanzioni che indubbiamente arriveranno, al minimo con la chiusura per un paio di partite della curva Nord: deve soprattutto chiedere scusa – e in maniera palese – a Mike Maignan, al Milan e a tutti coloro che amano lo sport e anche cominciare a punire coloro che sono i responsabili più apparenti di questa schifezza, individuandoli e togliendo loro il diritto di entrare allo stadio, anche restituendo una parte dei soldi dell’eventuale abbonamento.

Tenendo anche conto che questo stadio probabilmente non sarà squalificato, ma visto quello che vi succede, dovrebbe essere vietato ai minori perché se è vero che si impara dagli esempi, è altrettanto vero che anche gli esempi negativi, soprattutto se legati a una specie di impunità, devono essere considerati capaci di entrare nelle menti ancora in via di formazione.

E i tifosi? A loro spetta il compito più impegnativo: quello di fare la guardia a loro stessi, di non urlare soltanto contro l’arbitro, ma anche e soprattutto contro i propri compagni di tribuna, gradinata, o curva, se eccedono, se sconfinano nella violenza, nelle soperchierie, nel razzismo. Non si può stare zitti e sentirsi virtuosi solo perché, appunto, si è stati zitti. E magari poi lamentarsi perché la curva rimane chiusa. È come lamentarsi di come va una nazione dopo essersene sempre disinteressati e non essere andati neppure a votare.

venerdì 19 gennaio 2024

E l’articolo 527 del Codice penale?

Mi hanno insegnato a non criticare mai le sentenze della Magistratura, anche se sono convintamente in disaccordo con il verdetto. E anche questa volta farò così, limitandomi a esporre i fatti e a dare un suggerimento.

Le Sezioni unite della Corte di Cassazione erano chiamate a giudicare otto militanti di estrema destra che hanno fatto il saluto romano a Milano il 29 aprile 2016, alla commemorazione di Sergio Ramelli, militante del Fronte della Gioventù, aggredito nel 1975 da un gruppo di attivisti della sinistra extraparlamentare e morto oltre un mese e mezzo dopo per i traumi riportati. Gli aggressori di quella volta furono riconosciuti colpevoli di omicidio volontario.

Gli attuali imputati per il saluto romano erano stati assolti in primo grado e poi condannati in appello. Ora dovranno tornare davanti ai giudici d’appello su dispositivo della Suprema Corte che ha ritenuto che per i saluti romani non vada applicata la legge Scelba (formalmente legge 20 giugno 1952, n. 645) che, in attuazione della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, introdusse il reato di apologia del fascismo, in quanto – ha stabilito la Corte – «la “chiamata del presente” o “saluto romano” è un rituale evocativo della gestualità propria del disciolto partito fascista», ma che tale legge vada applicata «ove, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso, sia idonea a integrare il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista». E, obbiettivamente, in quella commemorazione molti hanno avuto nostalgia del drammatico ventennio, ma nessuno ha detto, o scritto, «E adesso riorganizziamo il disciolto partito fascista».

Eventualmente, continua la Corte, va valutata la legge Mancino (legge 25 giugno 1993, n. 205) anche se solo «a determinate condizioni» può configurarsi anche il delitto che «vieta il compimento di manifestazioni esteriori proprie o usuali di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi». E anche in questo caso non risulta che in nessun discorso ufficiale sia stato esplicitato l’odio che il disciolto partito fascista aveva fatto diventare leggi razziste, più che razziali, o esplicitato con una serie di dichiarazioni di guerra e con le feroci e sanguinarie avventure coloniali.

Ineccepibile, dunque, ma mi piacerebbe dare un sommesso consiglio agli avvocati che dovranno affrontare in altre occasioni processi contro i saluti romani che, dopo questa sentenza, sicuramente si moltiplicheranno a dismisura grazie a un senso di impunità gioiosamente subito messo in evidenza da Casa Pound. Provate a tirare in ballo anche l’articolo 527 del Codice Penale, quello in cui si dice che «Chiunque, in luogo pubblico, o aperto, o esposto al pubblico, compie atti osceni è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000 a euro 30.000. Si applica la pena della reclusione da quattro mesi a quattro anni e sei mesi se il fatto è commesso all’interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori e se da ciò deriva il pericolo che essi vi assistano».

Perché poco ci può essere di più osceno del comportamento di chi ha nostalgia del partito fascista, di chi rimpiange le sue leggi e i suoi comportamenti, di chi sbeffeggia o addirittura offende coloro che durante la Resistenza hanno dato la vita per ridare la libertà di vita e di scelta agli italiani, di chi oggi sognerebbe di togliere libertà, diritti e pensiero, di chi ambirebbe di riuscire a ridurre la democrazia a un simulacro dietro al quale c’è soltanto autoritarismo.