Talvolta,
 per comprendere appieno la portata di un libro che ci si accinge a 
leggere in vista di una presentazione, conviene cominciare dalla fine; e
 per “Bobi Bazlen. L’ombra di Trieste”, scritto da Cristina Battocletti,
 il primo esame in tal senso non è soltanto promettente, ma anche un po’
 preoccupante in quanto fa capire che l’impegno profuso dall’autrice 
reclama una grande attenzione anche da parte del lettore.
Lunghissimo l’indice dei nomi citati
 e davvero ponderosa la bibliografia che, oltre a libri, carteggi, 
saggi, articoli, film e documentari, comprende anche il riferimento a 
una trentina di interviste effettuate appositamente. Ma se tutto questo 
riguarda la preparazione del libro e la sua normale realizzazione, a 
colpire e a sorprendere è quella parte che Cristina Battocletti ha 
voluto chiamare “Legenda”, nel senso più propriamente etimologico del 
termine: cose da leggere. Cose che teoricamente rientrano nel novero 
degli apparati, visto che arrivano anche dopo i ringraziamenti, ma che, 
invece, non devono essere trascurate in quanto vi sono «confermate o 
sconfessate le leggende che si sono formate attorno a Bobi Balzen e di 
cui è facile innamorarsi», come sottolinea l’autrice che chiaramente ha 
costruito i vari capitoletti proprio durante il corso della scrittura 
primaria, incuriosendosi di certi aspetti più o meno bizzarri, o 
misteriosi, e cercando di sceverare il reale dal fantasioso, e di dare 
ragione di alcuni particolari che, a prima vista, tante ragioni non 
sembrerebbero avere.
Però, come non sempre accade, in 
questo caso alla complessità della ricerca propedeutica, che ha 
impegnato un paio di anni, corrisponde una lettura piacevole, basata su 
una prosa scorrevole e talvolta sorprendente sulla quale, però, tornerò 
più avanti, mentre adesso vorrei cominciare la presentazione vera e 
propria dei quattro protagonisti che danno vita a questo volume edito 
dalla Nave di Teseo che merita la nostra gratitudine non soltanto per 
l’attenzione con la quale sceglie le opere da pubblicare, ma anche per 
il merito avuto nell’intraprendere la propria avventura editoriale 
ribellandosi a quell’unificazione di una grossa fetta dell’editoria che 
sicuramente arricchisce chi la realizza, ma altrettanto sicuramente 
finisce per impoverire il panorama letterario e, quindi, il mondo 
culturale di un intero Paese.
Il primo protagonista, di cui c’è 
evidenza nel titolo di copertina, è Bobi Bazlen, il personaggio della 
cui biografia il libro si occupa e il cui nome per molti anni è stato 
conosciuto quasi soltanto dagli addetti ai lavori. E anche per la 
maggior parte di loro è rimasto un involucro importante, ma 
sostanzialmente vuoto. Di lui generalmente si sapeva che, con Luciano 
Foà, aveva fondato l’Adelphi, che aveva collaborato con altri editori, 
tra cui Bompiani ed Einaudi e che, soprattutto aveva contribuito a far 
conoscere in Italia le opere di Italo Svevo, ma anche di Franz Kafka, 
Robert Musil, Carl Jung, cominciando a riempire con impegno quel vuoto 
intellettuale che si era creato con l’autarchia fascista, e facendo così
 emergere un intero mondo di autori e libri favolosi.
Di padre tedesco, cristiano ma non 
cattolico, che praticamente non conobbe visto che morì l’anno dopo sua 
nascita, e di madre ebrea, Bobi Bazlen fu vittima delle persecuzioni 
razziali, anche se era stato battezzato e aveva in mano un decreto che 
lo dichiarava «non appartenente alla razza ebraica». Ma anche nelle sue 
vicende legate alla criminale follia del razzismo nazista, come nel 
resto della vita, Bazlen è rimasto in secondo piano: ha operato, ma 
senza apparire in maniera evidente. È riuscito a sfuggire ai 
rastrellamenti grazie alle anziane proprietarie di una sala da tè romana
 dove passava intere giornate con libri e amici. Poi non è entrato 
ufficialmente nella Resistenza, ma ha creato la Banca del Fior di Loto, 
una specie di fondo in cui si potevano mettere i propri averi e poi 
prelevare quello che serviva quando se ne presentava il bisogno; come 
per corrompere un secondino. E poi è stato lui a sollecitare Ferruccio 
Fölkel a scrivere per primo della Risiera di San Sabba, sollevando per 
tutti quel pesante velo di silenzio che avvolgeva l’unico campo di 
sterminio esistito in Italia. E forse proprio nel vergognoso 
comportamento di tanti triestini nei confronti degli ebrei si trova il 
motivo principale del dolore che Trieste gli ha impreso nell’anima e che
 lo ha fatto allontanare e restare lontano dalla sua città.
Dopo, cessate le necessità indotte 
dalla guerra, il restare sottotraccia per il grande pubblico, ma mai per
 gli amici, è stata ancora la cifra principale della sua vita: del 
resto, come lui stesso disse, «Io sono una persona per bene che passa 
quasi tutto il suo tempo a letto, fumando e leggendo». A lui la fama, in
 definitiva, non interessava, sia perché aveva la piena coscienza di 
poter svolgere appieno la propria preziosa funzione anche senza scrivere
 libri, o senza apparire sui titoli dei giornali, sia in quanto, 
probabilmente, oltre una certa misura, non avrebbe saputo affrontarla, 
o, almeno, gli avrebbe causato più noie che gioie. E quindi, ben lungi 
dal cercarla, sembra quasi aver preferito difendersene.
Infatti, la sua figura pur 
ricchissima di aneddotica, resta tra le meno conosciute del Novecento 
italiano. Cercar di capirlo, pur con la spinta e con i vari appigli 
fornitici da Cristina Battocletti, è un po’ come tentare di arrampicarsi
 su uno scoglio che sorge dal mare, ripido e coperto di alghe scivolose:
 riesci a salire per qualche decimetro, ma poi quasi sempre poi torni a 
scivolare in giù. E devi ricominciare da un altro punto di attacco.
È giudizio comune che Bobi Bazlen 
sia stato uno di coloro che maggiormente hanno influenzato la cultura 
italiana nel Dopoguerra, ma, come dicevo, è rimasto sempre nell’ombra. 
Nel cercare nuovi capolavori ha approfittato del fatto di padroneggiare 
il tedesco, l’italiano, l’inglese e il francese, eppure ha saputo 
guardare anche a pochi passi da dove si trovava. Era un solitario, ma 
legato alle amicizie. E nelle amicizie era inquieto e appassionato, 
generoso e costante, ma talvolta diventava impietoso e persino cattivo, 
tanto da distruggere il rapporto. Era affascinato da astrologia e 
oroscopi, ma aveva una cultura vastissima anche in campi di grande 
concretezza. Viveva in un mondo intriso di ebraismo e di cristianesimo, 
ma ha abbracciato taoismo e filosofie orientali. Non appena scopriva un 
talento, o dispensava uno stimolo letterario, insisteva con passione per
 rendere subito concreta questa sua illuminazione, ma spesso la 
realizzazione è arrivata soltanto postuma. È stato fortemente amato da 
maestri come Eugenio Montale, Adriano Olivetti, Umberto Saba, Giacomo 
Debenedetti, Italo Calvino, ma altrettanto fortemente detestato da altri
 personaggi di primo piano, come Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia. 
Ed egli, immerso in un mondo apparentemente ricco soltanto di libri, ha 
ricambiato amore e fastidio con la stessa partecipazione e passione 
perché le persone lo hanno interessano non meno delle pagine che 
divorava in continuazione alla ricerca di qualcosa di bello e di nuovo.
Il fatto è che Bobi Bazlen ha voluto
 essere sempre libero, senza alcun punto di riferimento costante: «Non 
un matrimonio, non un figlio, non un contratto di lavoro stabile, non 
una casa di proprietà», ricorda l’autrice. Ed è anche questa mancanza di
 punti fermi a rendere più facilmente libera e ondivaga la sua vita; 
talmente ondivaga da renderla per molti incomprensibile.
Cristina giustamente dedica una 
parte consistente del suo scritto alle vicende amorose di Bazlen, 
complicate e contraddittorie proprio come la sua vita. Sta di fatto, 
comunque, che di donne da amare, magari in imprevedibili poligoni 
amorosi, dotati di un numero variabile di lati, Bazlen non ha potuto 
stare senza, proprio come non è riuscito a vivere – e non è un paragone 
esaltante per le donne che gli sono state vicine – senza libri, 
sigarette e lettere da scrivere e da spedire compulsivamente. Si fidanza
 con Duska Slavik, la lascia e poi la spinge verso il marito di Gerti, 
la donna musa di Montale nelle sue poesie. Fugge a Milano con Linuccia 
Saba, figlia del poeta triestino, e per lei in un anno consuma parte 
delle cospicue eredità ricevute dal padre e dallo zio. Linuccia si 
legherà poi a Carlo Levi, e per questo si rompono i rapporti con Umberto
 Saba. Poi c’è Gerti, figlia di un banchiere austriaco, viaggiatrice 
seriale, fotografa dilettante, altra musa di Montale con il quale Bobi 
rompe (e ricomporrà solo dopo alcuni anni) sempre a causa di donne. In 
questo caso si tratta di Drusilla Tanzi, sorella della madre di Natalia 
Ginzburg, sposata con un critico d’arte e diventata la compagna di 
Montale che ha contemporaneamente un rapporto con la critica letteraria 
Irma Brandeis, mentre Drusilla tenta due volte il suicidio. Si 
inaridisce anche il rapporto epistolare con Gerti proprio quando l’ex 
fidanzata di Bobi, Duska, si mette con Carlo Tolazzi, marito di Gerti, 
da cui avrà due figli. Un caos, insomma, terribilmente difficile da 
seguire per chi non ha dimestichezza con il gossip e fa fatica a fissare
 nella memoria tanti nomi. Anche perché il suo mondo femminile non si 
ferma qui: a Roma ha relazioni importanti con Silvana Rodogna, moglie di
 Vittorio Loriga, psicoanalista, e con Bianca Garufi, amata da Pavese. E
 infine c’è il rapporto con Ljuba Blumenthal, ebrea romena, conosciuta 
nel 1929, e sposata con Julius Flesch che poi impazzirà e morirà 
deportato ad Auschwitz. Nel 1951 Ljuba sposa un chimico inglese; Bobi 
pensa di andare a Londra per starle accanto, anche se non ha i soldi 
necessari. Ma, prima di poterlo fare, muore a Milano nel 1965 in una 
camera d’albergo poco distante dalla sua Adelphi.
Nella sua vita una parte importante è
 rivestita anche dalla psicanalisi, sicuramente molto letta e pensata; 
non altrettanto certamente praticata come paziente. E in più Bazlen ha 
lasciato di sé pochissime tracce, e postume: “Note senza testo”, 
“Lettere editoriali” e un libro, “Il capitano di lungo corso”, che ha 
risentito moltissimo dell’influenza di Carlo Michelstädter.
Al nome di Bazlen, insomma, possono 
essere legati tantissimi aggettivi, spesso in contrasto tra loro, senza 
mai giungere a un ritratto fermo e certo: ci si deve limitare a 
osservare una specie di fotografia un po’ fuori fuoco che, però, non 
disturba, ma, anzi, attira, in quanto è una spinta continua alla 
scoperta di nuovi particolari su un uomo al quale comunque dobbiamo 
grande gratitudine perché per lui era agevole – come dice l’autrice – 
capire immediatamente quali fossero «i grandi libri senza i quali 
l’umanità sarebbe stata un po’ più sola», come scrive la Battocletti, o 
stabilire la “primavoltità” di un’opera.
La seconda protagonista di questo 
libro, sempre citata in copertina, è indubbiamente Trieste, città dove 
Bazlen è nato e si è formato. E ha fatto benissimo Cristina a insistere 
nel cercare proprio a Trieste le chiavi di lettura per comprende meglio 
il fenomeno Bazlen. Forse alcuni non sono stati d’accordo su questa 
scelta, ma evidentemente non si sono accorti che, non essendosi sforzati
 di entrare nell’anima di questa strana città, non hanno avuto la 
possibilità di utilizzare certi filtri fondamentali per traguardare il 
protagonista.
Cristina, invece, l’ha fatto e non 
ha pensato di cavarsela dicendo che Trieste è una città unica perché è 
città di frontiera, sospesa tra due mondi, dall’incerta e insieme 
solidissima identità; perché la sua anima è multiforme e multiculturale,
 oltre che mitteleuropea. Sono tutti stereotipi validi, ma del tutto 
insufficienti a illustrare quella coltura di cultura che si è sviluppata
 in una città in cui gli estremismi sono ben più estremi che altrove: e 
mi riferisco a comunisti e fascisti senza il minimo ripensamento; a 
italiani che non sanno una sola parola di sloveno e a sloveni si fanno 
capire in italiano per necessità, ma con esplicito fastidio; a 
cattolici, ebrei, protestanti, musulmani, atei che non vogliono nemmeno 
sentir parlare di altre chiese e di altre religioni. Eppure tutti 
riescono a convivere e a dare vita a una “cultura” – forse termine 
inadeguato e contemporaneamente eccessivo – in cui ognuno può sentirsi 
parte di un medesimo tutto. Che comunque resta inseparabile, come 
un’ombra, appunto.
Pare impossibile, ma il trucco è 
semplice: basta essere orgogliosi di se stessi, ma capire che anche gli 
altri possono provare il medesimo orgoglio. Forse è più facile spiegarsi
 con un esempio tessile nel quale trama e ordito sono composti da fili 
di diversi colori che nessuno si sogna di cambiare tentando mescolanze 
nel corpo dello stesso filo perché sanno che sarà poi il tessuto che 
uscirà dal telaio ad avere un nuovo colore, diverso da quelli originari,
 eppure capace di contenerli tutti valorizzando qualche caratteristica 
di ognuno.
Insomma, la forza della cultura che 
ha incubazione a Trieste, e di cui Bobi Bazlen è stato emblematico 
messaggero, consiste in una mescolanza che incredibilmente rispetta le 
pur intransigenti caratteristiche individuali; in una specie di 
inattualità che non si cura delle mode, pur restando sempre 
contemporanea; nella coscienza che, in definitiva, è proprio la non 
triestinità il vero connotato della triestinità perché praticamente non 
ci sono triestini che, visto il continuo andirivieni di gente, abbiano 
genitori e nonni nati nella stessa Trieste e non ci sono triestini che, 
assieme al latte, non abbiano poppato culture e tradizioni diverse. E 
hanno succhiato anche storia perché anche i triestini, come tutti gli 
altri esseri umani, sono fatti di tempo, ma forse se ne accorgono più di
 altri perché il tempo a Trieste ha lasciato profonde ferite e una 
grande quantità di rimpianti inestricabilmente mischiati a tantissimi 
rimorsi. E proprio nel sentirsi frutto della storia, Bazlen ha avuto la 
capacità di trovare il vero valore del tempo umano in cui il presente 
non è quel cannibale che conosciamo oggi, ma soltanto ciò che dovrebbe 
essere sempre: un impalpabile punto di passaggio tra ciò che è stato e 
ciò che sarà. Un attimo che diventa importante soltanto se sappiamo 
coglierlo, assaporarlo e valorizzarlo, tanto da farlo spiccare in mezzo a
 miriadi di cose, trasformandolo in un ricordo indelebile
Ancora una cosa su Trieste. 
Cristina, in una “Legenda” dice che «Bobi a volte incespicava in errori 
in italiano: «Mi ho fatto dare” – spiega – è una tipica traduzione dal 
tedesco». Vero, ma molto più importante è che è anche una traduzione dal
 dialetto triestino prima che il fascismo tentasse di italianizzarlo: 
“Me go fato dar”. Perché è ben vero che Bazler ha studiato al 
Realgymnasium, scuola di lingua tedesca dell’Impero austroungarico, ma è
 altrettanto vero che, come per tutti i triestini, la sua lingua 
principale è diventata quel dialetto che è nato come lingua franca per 
far comprendere tra loro le svariate nazionalità che vivevano nel porto 
più importante dell’Impero asburgico e che ancora adesso è usata così: 
la si parla dappertutto, anche negli uffici pubblici non per 
affermazione della propria identità, ma per gentilezza verso gli altri, 
per farsi capire da tutti. E la cosa diventa talmente naturale che per 
me, triestino, a ben più di quarant’anni di distanza dal mio 
trasferimento a Udine, se sento un accento triestino nelle vicinanze, è 
ancora difficile non cominciare a parlare subito in dialetto. Ed è 
esilarante, oltre che chiaramente esemplificativo in questo senso, 
sentire spesso parlare un triestino grammaticalmente e sintatticamente 
perfetto – ammesso e non concesso che esistano grammatica e sintassi 
triestine – e con un pesantissimo accento pugliese, napoletano, o 
siciliano.
Ed è sempre da quella Trieste, che 
abbandona quasi definitivamente poco più che trentenne, che deriva il 
gusto di una letteratura che non vive del combattimento tra contenuto e 
forma, che non cerca virtuosismi stilistici, ma palpita dal bisogno 
dello scrittore di comunicare – nel senso etimologico di mettere in 
comune – i propri sentimenti, le proprie emozioni, i propri ideali.
Della terza protagonista non c’è 
traccia nella copertina, ma innerva tutto il libro, ogni sua pagina: è 
la cultura che è base fondamentale per qualsiasi forma del fare che non 
si rassegni a essere sterile, velleitaria e molto probabilmente 
destinata al fallimento. È quella cultura che diventa sinonimo di 
libertà, e, quindi, anche di possibilità di avvicinarsi ai lontani; e ai
 diversi. Che offre la capacità di individuare a prima vista 
l’originale, il colpo di genio, quello che Bazlen chiama “primavoltità” 
che, a prima vista sembra un neologismo casuale e che, invece, credo sia
 stato costruito scientemente perché il suo suffisso indica un 
caratteristica reale, mentre “primavolezza” indicherebbe meglio una 
forma di apparenza, o “primavoltitudine” non garantirebbe la certezza, 
ma soltanto la probabilità.
E chiudiamo con la quarta 
protagonista, di cui c’è di nuovo traccia in copertina perché è 
l’autrice che vi compare con il suo nome. Non è piaggeria, ma credo 
veramente che Cristina abbia affrontato una sfida estremamente difficile
 e ne sia uscita vincitrice scrivendo qualcosa che non è un saggio, ma 
ne ha la medesima autorevolezza, non è una narrazione di cui possiede, 
però, la scorrevolezza. Non si limita a parlare di Bazlen, ma tenta di 
immedesimarsi in lui per interpretare quello che ha fatto e che, senza 
questo sforzo, rischierebbe di restare una collezione di stranezze.
E un plauso va anche alla sua 
capacità camaleontica di adeguare il suo stile alle necessità di ciò che
 sta scrivendo. In “Figlio di nessuno” ha saputo contenere e smussare 
quelle ruvidità che soltanto un ultracentenario spigoloso e ancora 
lucidissimo, come Boris Pahor, può permettersi. Ne “La mantella del 
diavolo” ha usato una lingua che poteva sembrare strana per la sua 
ricchezza, e che invece era fondamentale per una descrizione che non si 
fermasse alla superficie di persone, fatti e luoghi, ma affondasse ben 
al di sotto della scorza dell’apparenza per riuscire a dare al lettore 
anche un’immagine della loro sostanza. In “Bobi Bazlen” gioca tutte le 
carte del suo giornalismo capace di far convivere fatti e stile, impegno
 di comprensione e piacere della lettura, capace di rendere 
comprensibile e attraente qualsiasi tipo di saggistica.
Insomma, credo proprio che a Bobi Bazlen questo libro sarebbe piaciuto. E sono sicuro che piacerà anche a voi.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

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