sabato 3 febbraio 2018

Riscoprendo Bobi Bazlen

Talvolta, per comprendere appieno la portata di un libro che ci si accinge a leggere in vista di una presentazione, conviene cominciare dalla fine; e per “Bobi Bazlen. L’ombra di Trieste”, scritto da Cristina Battocletti, il primo esame in tal senso non è soltanto promettente, ma anche un po’ preoccupante in quanto fa capire che l’impegno profuso dall’autrice reclama una grande attenzione anche da parte del lettore.
Lunghissimo l’indice dei nomi citati e davvero ponderosa la bibliografia che, oltre a libri, carteggi, saggi, articoli, film e documentari, comprende anche il riferimento a una trentina di interviste effettuate appositamente. Ma se tutto questo riguarda la preparazione del libro e la sua normale realizzazione, a colpire e a sorprendere è quella parte che Cristina Battocletti ha voluto chiamare “Legenda”, nel senso più propriamente etimologico del termine: cose da leggere. Cose che teoricamente rientrano nel novero degli apparati, visto che arrivano anche dopo i ringraziamenti, ma che, invece, non devono essere trascurate in quanto vi sono «confermate o sconfessate le leggende che si sono formate attorno a Bobi Balzen e di cui è facile innamorarsi», come sottolinea l’autrice che chiaramente ha costruito i vari capitoletti proprio durante il corso della scrittura primaria, incuriosendosi di certi aspetti più o meno bizzarri, o misteriosi, e cercando di sceverare il reale dal fantasioso, e di dare ragione di alcuni particolari che, a prima vista, tante ragioni non sembrerebbero avere.

Però, come non sempre accade, in questo caso alla complessità della ricerca propedeutica, che ha impegnato un paio di anni, corrisponde una lettura piacevole, basata su una prosa scorrevole e talvolta sorprendente sulla quale, però, tornerò più avanti, mentre adesso vorrei cominciare la presentazione vera e propria dei quattro protagonisti che danno vita a questo volume edito dalla Nave di Teseo che merita la nostra gratitudine non soltanto per l’attenzione con la quale sceglie le opere da pubblicare, ma anche per il merito avuto nell’intraprendere la propria avventura editoriale ribellandosi a quell’unificazione di una grossa fetta dell’editoria che sicuramente arricchisce chi la realizza, ma altrettanto sicuramente finisce per impoverire il panorama letterario e, quindi, il mondo culturale di un intero Paese.

Il primo protagonista, di cui c’è evidenza nel titolo di copertina, è Bobi Bazlen, il personaggio della cui biografia il libro si occupa e il cui nome per molti anni è stato conosciuto quasi soltanto dagli addetti ai lavori. E anche per la maggior parte di loro è rimasto un involucro importante, ma sostanzialmente vuoto. Di lui generalmente si sapeva che, con Luciano Foà, aveva fondato l’Adelphi, che aveva collaborato con altri editori, tra cui Bompiani ed Einaudi e che, soprattutto aveva contribuito a far conoscere in Italia le opere di Italo Svevo, ma anche di Franz Kafka, Robert Musil, Carl Jung, cominciando a riempire con impegno quel vuoto intellettuale che si era creato con l’autarchia fascista, e facendo così emergere un intero mondo di autori e libri favolosi.

Di padre tedesco, cristiano ma non cattolico, che praticamente non conobbe visto che morì l’anno dopo sua nascita, e di madre ebrea, Bobi Bazlen fu vittima delle persecuzioni razziali, anche se era stato battezzato e aveva in mano un decreto che lo dichiarava «non appartenente alla razza ebraica». Ma anche nelle sue vicende legate alla criminale follia del razzismo nazista, come nel resto della vita, Bazlen è rimasto in secondo piano: ha operato, ma senza apparire in maniera evidente. È riuscito a sfuggire ai rastrellamenti grazie alle anziane proprietarie di una sala da tè romana dove passava intere giornate con libri e amici. Poi non è entrato ufficialmente nella Resistenza, ma ha creato la Banca del Fior di Loto, una specie di fondo in cui si potevano mettere i propri averi e poi prelevare quello che serviva quando se ne presentava il bisogno; come per corrompere un secondino. E poi è stato lui a sollecitare Ferruccio Fölkel a scrivere per primo della Risiera di San Sabba, sollevando per tutti quel pesante velo di silenzio che avvolgeva l’unico campo di sterminio esistito in Italia. E forse proprio nel vergognoso comportamento di tanti triestini nei confronti degli ebrei si trova il motivo principale del dolore che Trieste gli ha impreso nell’anima e che lo ha fatto allontanare e restare lontano dalla sua città.

Dopo, cessate le necessità indotte dalla guerra, il restare sottotraccia per il grande pubblico, ma mai per gli amici, è stata ancora la cifra principale della sua vita: del resto, come lui stesso disse, «Io sono una persona per bene che passa quasi tutto il suo tempo a letto, fumando e leggendo». A lui la fama, in definitiva, non interessava, sia perché aveva la piena coscienza di poter svolgere appieno la propria preziosa funzione anche senza scrivere libri, o senza apparire sui titoli dei giornali, sia in quanto, probabilmente, oltre una certa misura, non avrebbe saputo affrontarla, o, almeno, gli avrebbe causato più noie che gioie. E quindi, ben lungi dal cercarla, sembra quasi aver preferito difendersene.

Infatti, la sua figura pur ricchissima di aneddotica, resta tra le meno conosciute del Novecento italiano. Cercar di capirlo, pur con la spinta e con i vari appigli fornitici da Cristina Battocletti, è un po’ come tentare di arrampicarsi su uno scoglio che sorge dal mare, ripido e coperto di alghe scivolose: riesci a salire per qualche decimetro, ma poi quasi sempre poi torni a scivolare in giù. E devi ricominciare da un altro punto di attacco.

È giudizio comune che Bobi Bazlen sia stato uno di coloro che maggiormente hanno influenzato la cultura italiana nel Dopoguerra, ma, come dicevo, è rimasto sempre nell’ombra. Nel cercare nuovi capolavori ha approfittato del fatto di padroneggiare il tedesco, l’italiano, l’inglese e il francese, eppure ha saputo guardare anche a pochi passi da dove si trovava. Era un solitario, ma legato alle amicizie. E nelle amicizie era inquieto e appassionato, generoso e costante, ma talvolta diventava impietoso e persino cattivo, tanto da distruggere il rapporto. Era affascinato da astrologia e oroscopi, ma aveva una cultura vastissima anche in campi di grande concretezza. Viveva in un mondo intriso di ebraismo e di cristianesimo, ma ha abbracciato taoismo e filosofie orientali. Non appena scopriva un talento, o dispensava uno stimolo letterario, insisteva con passione per rendere subito concreta questa sua illuminazione, ma spesso la realizzazione è arrivata soltanto postuma. È stato fortemente amato da maestri come Eugenio Montale, Adriano Olivetti, Umberto Saba, Giacomo Debenedetti, Italo Calvino, ma altrettanto fortemente detestato da altri personaggi di primo piano, come Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia. Ed egli, immerso in un mondo apparentemente ricco soltanto di libri, ha ricambiato amore e fastidio con la stessa partecipazione e passione perché le persone lo hanno interessano non meno delle pagine che divorava in continuazione alla ricerca di qualcosa di bello e di nuovo.

Il fatto è che Bobi Bazlen ha voluto essere sempre libero, senza alcun punto di riferimento costante: «Non un matrimonio, non un figlio, non un contratto di lavoro stabile, non una casa di proprietà», ricorda l’autrice. Ed è anche questa mancanza di punti fermi a rendere più facilmente libera e ondivaga la sua vita; talmente ondivaga da renderla per molti incomprensibile.

Cristina giustamente dedica una parte consistente del suo scritto alle vicende amorose di Bazlen, complicate e contraddittorie proprio come la sua vita. Sta di fatto, comunque, che di donne da amare, magari in imprevedibili poligoni amorosi, dotati di un numero variabile di lati, Bazlen non ha potuto stare senza, proprio come non è riuscito a vivere – e non è un paragone esaltante per le donne che gli sono state vicine – senza libri, sigarette e lettere da scrivere e da spedire compulsivamente. Si fidanza con Duska Slavik, la lascia e poi la spinge verso il marito di Gerti, la donna musa di Montale nelle sue poesie. Fugge a Milano con Linuccia Saba, figlia del poeta triestino, e per lei in un anno consuma parte delle cospicue eredità ricevute dal padre e dallo zio. Linuccia si legherà poi a Carlo Levi, e per questo si rompono i rapporti con Umberto Saba. Poi c’è Gerti, figlia di un banchiere austriaco, viaggiatrice seriale, fotografa dilettante, altra musa di Montale con il quale Bobi rompe (e ricomporrà solo dopo alcuni anni) sempre a causa di donne. In questo caso si tratta di Drusilla Tanzi, sorella della madre di Natalia Ginzburg, sposata con un critico d’arte e diventata la compagna di Montale che ha contemporaneamente un rapporto con la critica letteraria Irma Brandeis, mentre Drusilla tenta due volte il suicidio. Si inaridisce anche il rapporto epistolare con Gerti proprio quando l’ex fidanzata di Bobi, Duska, si mette con Carlo Tolazzi, marito di Gerti, da cui avrà due figli. Un caos, insomma, terribilmente difficile da seguire per chi non ha dimestichezza con il gossip e fa fatica a fissare nella memoria tanti nomi. Anche perché il suo mondo femminile non si ferma qui: a Roma ha relazioni importanti con Silvana Rodogna, moglie di Vittorio Loriga, psicoanalista, e con Bianca Garufi, amata da Pavese. E infine c’è il rapporto con Ljuba Blumenthal, ebrea romena, conosciuta nel 1929, e sposata con Julius Flesch che poi impazzirà e morirà deportato ad Auschwitz. Nel 1951 Ljuba sposa un chimico inglese; Bobi pensa di andare a Londra per starle accanto, anche se non ha i soldi necessari. Ma, prima di poterlo fare, muore a Milano nel 1965 in una camera d’albergo poco distante dalla sua Adelphi.

Nella sua vita una parte importante è rivestita anche dalla psicanalisi, sicuramente molto letta e pensata; non altrettanto certamente praticata come paziente. E in più Bazlen ha lasciato di sé pochissime tracce, e postume: “Note senza testo”, “Lettere editoriali” e un libro, “Il capitano di lungo corso”, che ha risentito moltissimo dell’influenza di Carlo Michelstädter.

Al nome di Bazlen, insomma, possono essere legati tantissimi aggettivi, spesso in contrasto tra loro, senza mai giungere a un ritratto fermo e certo: ci si deve limitare a osservare una specie di fotografia un po’ fuori fuoco che, però, non disturba, ma, anzi, attira, in quanto è una spinta continua alla scoperta di nuovi particolari su un uomo al quale comunque dobbiamo grande gratitudine perché per lui era agevole – come dice l’autrice – capire immediatamente quali fossero «i grandi libri senza i quali l’umanità sarebbe stata un po’ più sola», come scrive la Battocletti, o stabilire la “primavoltità” di un’opera.

La seconda protagonista di questo libro, sempre citata in copertina, è indubbiamente Trieste, città dove Bazlen è nato e si è formato. E ha fatto benissimo Cristina a insistere nel cercare proprio a Trieste le chiavi di lettura per comprende meglio il fenomeno Bazlen. Forse alcuni non sono stati d’accordo su questa scelta, ma evidentemente non si sono accorti che, non essendosi sforzati di entrare nell’anima di questa strana città, non hanno avuto la possibilità di utilizzare certi filtri fondamentali per traguardare il protagonista.

Cristina, invece, l’ha fatto e non ha pensato di cavarsela dicendo che Trieste è una città unica perché è città di frontiera, sospesa tra due mondi, dall’incerta e insieme solidissima identità; perché la sua anima è multiforme e multiculturale, oltre che mitteleuropea. Sono tutti stereotipi validi, ma del tutto insufficienti a illustrare quella coltura di cultura che si è sviluppata in una città in cui gli estremismi sono ben più estremi che altrove: e mi riferisco a comunisti e fascisti senza il minimo ripensamento; a italiani che non sanno una sola parola di sloveno e a sloveni si fanno capire in italiano per necessità, ma con esplicito fastidio; a cattolici, ebrei, protestanti, musulmani, atei che non vogliono nemmeno sentir parlare di altre chiese e di altre religioni. Eppure tutti riescono a convivere e a dare vita a una “cultura” – forse termine inadeguato e contemporaneamente eccessivo – in cui ognuno può sentirsi parte di un medesimo tutto. Che comunque resta inseparabile, come un’ombra, appunto.

Pare impossibile, ma il trucco è semplice: basta essere orgogliosi di se stessi, ma capire che anche gli altri possono provare il medesimo orgoglio. Forse è più facile spiegarsi con un esempio tessile nel quale trama e ordito sono composti da fili di diversi colori che nessuno si sogna di cambiare tentando mescolanze nel corpo dello stesso filo perché sanno che sarà poi il tessuto che uscirà dal telaio ad avere un nuovo colore, diverso da quelli originari, eppure capace di contenerli tutti valorizzando qualche caratteristica di ognuno.

Insomma, la forza della cultura che ha incubazione a Trieste, e di cui Bobi Bazlen è stato emblematico messaggero, consiste in una mescolanza che incredibilmente rispetta le pur intransigenti caratteristiche individuali; in una specie di inattualità che non si cura delle mode, pur restando sempre contemporanea; nella coscienza che, in definitiva, è proprio la non triestinità il vero connotato della triestinità perché praticamente non ci sono triestini che, visto il continuo andirivieni di gente, abbiano genitori e nonni nati nella stessa Trieste e non ci sono triestini che, assieme al latte, non abbiano poppato culture e tradizioni diverse. E hanno succhiato anche storia perché anche i triestini, come tutti gli altri esseri umani, sono fatti di tempo, ma forse se ne accorgono più di altri perché il tempo a Trieste ha lasciato profonde ferite e una grande quantità di rimpianti inestricabilmente mischiati a tantissimi rimorsi. E proprio nel sentirsi frutto della storia, Bazlen ha avuto la capacità di trovare il vero valore del tempo umano in cui il presente non è quel cannibale che conosciamo oggi, ma soltanto ciò che dovrebbe essere sempre: un impalpabile punto di passaggio tra ciò che è stato e ciò che sarà. Un attimo che diventa importante soltanto se sappiamo coglierlo, assaporarlo e valorizzarlo, tanto da farlo spiccare in mezzo a miriadi di cose, trasformandolo in un ricordo indelebile

Ancora una cosa su Trieste. Cristina, in una “Legenda” dice che «Bobi a volte incespicava in errori in italiano: «Mi ho fatto dare” – spiega – è una tipica traduzione dal tedesco». Vero, ma molto più importante è che è anche una traduzione dal dialetto triestino prima che il fascismo tentasse di italianizzarlo: “Me go fato dar”. Perché è ben vero che Bazler ha studiato al Realgymnasium, scuola di lingua tedesca dell’Impero austroungarico, ma è altrettanto vero che, come per tutti i triestini, la sua lingua principale è diventata quel dialetto che è nato come lingua franca per far comprendere tra loro le svariate nazionalità che vivevano nel porto più importante dell’Impero asburgico e che ancora adesso è usata così: la si parla dappertutto, anche negli uffici pubblici non per affermazione della propria identità, ma per gentilezza verso gli altri, per farsi capire da tutti. E la cosa diventa talmente naturale che per me, triestino, a ben più di quarant’anni di distanza dal mio trasferimento a Udine, se sento un accento triestino nelle vicinanze, è ancora difficile non cominciare a parlare subito in dialetto. Ed è esilarante, oltre che chiaramente esemplificativo in questo senso, sentire spesso parlare un triestino grammaticalmente e sintatticamente perfetto – ammesso e non concesso che esistano grammatica e sintassi triestine – e con un pesantissimo accento pugliese, napoletano, o siciliano.

Ed è sempre da quella Trieste, che abbandona quasi definitivamente poco più che trentenne, che deriva il gusto di una letteratura che non vive del combattimento tra contenuto e forma, che non cerca virtuosismi stilistici, ma palpita dal bisogno dello scrittore di comunicare – nel senso etimologico di mettere in comune – i propri sentimenti, le proprie emozioni, i propri ideali.

Della terza protagonista non c’è traccia nella copertina, ma innerva tutto il libro, ogni sua pagina: è la cultura che è base fondamentale per qualsiasi forma del fare che non si rassegni a essere sterile, velleitaria e molto probabilmente destinata al fallimento. È quella cultura che diventa sinonimo di libertà, e, quindi, anche di possibilità di avvicinarsi ai lontani; e ai diversi. Che offre la capacità di individuare a prima vista l’originale, il colpo di genio, quello che Bazlen chiama “primavoltità” che, a prima vista sembra un neologismo casuale e che, invece, credo sia stato costruito scientemente perché il suo suffisso indica un caratteristica reale, mentre “primavolezza” indicherebbe meglio una forma di apparenza, o “primavoltitudine” non garantirebbe la certezza, ma soltanto la probabilità.

E chiudiamo con la quarta protagonista, di cui c’è di nuovo traccia in copertina perché è l’autrice che vi compare con il suo nome. Non è piaggeria, ma credo veramente che Cristina abbia affrontato una sfida estremamente difficile e ne sia uscita vincitrice scrivendo qualcosa che non è un saggio, ma ne ha la medesima autorevolezza, non è una narrazione di cui possiede, però, la scorrevolezza. Non si limita a parlare di Bazlen, ma tenta di immedesimarsi in lui per interpretare quello che ha fatto e che, senza questo sforzo, rischierebbe di restare una collezione di stranezze.

E un plauso va anche alla sua capacità camaleontica di adeguare il suo stile alle necessità di ciò che sta scrivendo. In “Figlio di nessuno” ha saputo contenere e smussare quelle ruvidità che soltanto un ultracentenario spigoloso e ancora lucidissimo, come Boris Pahor, può permettersi. Ne “La mantella del diavolo” ha usato una lingua che poteva sembrare strana per la sua ricchezza, e che invece era fondamentale per una descrizione che non si fermasse alla superficie di persone, fatti e luoghi, ma affondasse ben al di sotto della scorza dell’apparenza per riuscire a dare al lettore anche un’immagine della loro sostanza. In “Bobi Bazlen” gioca tutte le carte del suo giornalismo capace di far convivere fatti e stile, impegno di comprensione e piacere della lettura, capace di rendere comprensibile e attraente qualsiasi tipo di saggistica.

Insomma, credo proprio che a Bobi Bazlen questo libro sarebbe piaciuto. E sono sicuro che piacerà anche a voi.

Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

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