giovedì 5 giugno 2025

Sicurezza, ma per chi?

Che sia un “decreto sicurezza” non c’è alcun dubbio, ma bisogna capire questa sicurezza a chi sarebbe garantita. Perché per il governo in carica problemi e rischi dovrebbero diminuire in quanto, in teoria, le nuove norme dovrebbero ridurre drasticamente il dissenso e le relative manifestazioni. Per i cittadini, invece, i problemi cresceranno visto che alcuni diritti previsti dalla Costituzione sono ostacolati con la minaccia di arresti e detenzioni.

In teoria nessuno potrebbe più protestare, se non a tavola tra amici, al telefono, o via internet, visto che il governo si scatena contro le manifestazioni pubbliche, anche se già alcune procure hanno affermato che, per esempio, non si può procedere contro le occupazioni delle scuole perché il fatto non costituisce reato in quanto gli studenti che prendono temporaneo possesso degli edifici scolastici protestando e manifestando starebbero soltanto esercitando un diritto garantito dalla Costituzione nell’articolo 17, quello di “riunione” e “manifestazione”. In più le occupazioni studentesche non costituiscono reato di interruzione di pubblico servizio poiché «gli studenti devono essere considerati soggetti attivi della comunità scolastica e partecipi alla sua gestione».

Ma il cosiddetto “decreto sicurezza”, in realtà, è una specie di “decreto manette” non soltanto perché restringe alcune libertà che la Costituzione ha affermato esplicitamente e che il fascismo esplicitamente aveva negato: è soltanto una nuova tappa in un percorso di progressivo autoritarismo che diventa sempre più evidente e che comincia a urtare la sensibilità anche di tante persone non particolarmente impegnate.

In questo quadro tra poco sarà chiaro, perché diventerà effettivo, anche il peso delle scelte del ministro Piantedosi sulla scuola. Non saranno promossi, né ammessi agli esami, infatti, coloro che in condotta non avranno ottenuto almeno il 6. Giusto, si potrebbe dire; ma, a ben guardare, non è proprio così. E, se non si avrà almeno un 9, non si potrà ottenere il massimo dei voti.

È evidente che, rispetto al passato, Valditara ha voluto rendere il voto in condotta numericamente un po’ più aderente a quelli delle altre materie, ma la sostanza del concetto di condotta non cambia. Se guardiamo a un passato non tanto remoto, era evidente il valore simbolico del 7 in condotta, fissato dall'allora ministro Giovanni Gentile e dal governo Mussolini nel 1923: era un voto più alto rispetto agli altri di molte pagelle, ma nella condotta si pretendeva la perfezione del 10, o quasi. Il 9 era accettato, ma con malcelato disappunto, l’8 ti faceva guardare come un potenziale piccolo delinquente e comunque un rompiscatole che voleva discutere, il 7 era tanto basso da condannarti agli esami di riparazione in tutte le materie.

E questo perché? Forse perché il comportarsi bene è più importante del conoscere l’italiano, il latino, la matematica, una lingua straniera? Assolutamente no. E, infatti, non si potrebbe capire il perché di una simile severità se si pensasse alla buona condotta come sinonimo di buona educazione. 

Tutto diventa, invece, platealmente comprensibile se buona condotta diventa sinonimo di disciplina. E la differenza tra disciplina ed educazione è enorme. La disciplina è il rigoroso rispetto delle regole. L’educazione, invece, è il rispetto delle persone.

 La differenza è fondamentale perché l’educazione è un modo di porsi davanti agli altri, mentre la disciplina è il rispetto di dettami che possono essere fissati da chiunque, magari nella legalità, ma non necessariamente con giustizia. E il rispetto resta doveroso anche se le regole cambiano soltanto perché più comode per chi detiene – pro tempore, si spera – il potere e le applica soltanto a coloro che non sono ossequienti. La severità tanto rivendicata da Meloni, Salvini e complici va, infatti, a corrente alternata. Sullo sgombero “immediato” delle case occupate illegalmente, per esempio, ci piacerebbe capire quale significato danno all’aggettivo “immediato” visto che Casapound occupa un intero palazzo romano da ventidue anni e non mi sembra che lo sgombero sia già in atto.

Domenica e lunedì si voterà per un referendum che ha il compito di cancellare cinque leggi sul lavoro e sulla cittadinanza che considero ingiuste, ma che può anche lanciare, raggiungendo il quorum, un potente messaggio contro chi crede di poter fare sempre quello che vuole tramutando una democrazia rappresentativa in una democrazia delegata. Quindi andate a votare e fate di tutto per convincere più gente possibile ad andare alle urne perché la democrazia, per salvarsi, ha un assoluto bisogno di gente che creda che sia possibile una democrazia reale e non quel simulacro che ci ostiniamo a chiamare così.

martedì 3 giugno 2025

Gli acrobati delle norme e delle parole

L’articolo 48 della Costituzione dice: «Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico». È un testo chiarissimo, ma è già da un bel po’ di anni sul diritto-dovere di voto si esercitano i nostri migliori acrobati delle norme e delle parole.

Sui primi quattro aggettivi da abbinare al sostantivo “voto” c’è poco da dire: coloro che tentano di aggirare i concetti di personale, eguale, libero e segreto, vengono denunciati penalmente. Quello su cui i tanti furbi del nostro panorama politico effettuano le giravolte più pericolose, non per loro ma per la democrazia, è il concetto di “dovere civico”. Ne parlano come se l’aggettivo civico togliesse valore al concetto di “dovere”, mentre, invece, lo rende ancora più cogente perché sottolinea che questo dovere riguarda l’intera comunità, e cioè tutti i cittadini, perché senza senso civico nessuna comunità può restare viva, compresa una repubblica e, a maggior ragione, una democrazia che è struttura mirabile, ma delicatissima.

Va detto che in questo caso il non adempiere a un dovere, pur riguardando tutti, può essere privo di gravi conseguenze per un normale cittadino in quanto potrebbe addurre svariatissime scusanti che finirebbero per impedire ogni sanzione in quanto sarebbe impossibile accompagnarle con un giudizio: per esempio l’assenza al voto di un malato sarebbe giustificata, ma da provare.

Questo, però, non può non valere per i rappresentanti delle istituzioni che, come dice l’articolo 54 della Costituzione, oltre ad avere gli stessi doveri degli altri cittadini, visto che a loro «sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore». E non c’è alcuna disciplina, né alcun onore nel suggerire che il voto non è un “dovere civico”.

A suo tempo avevo scritto contro il comportamento dell’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che, da senatore a vita, nel 2016, prima del voto sulle estrazioni di idrocarburi, aveva detto che sperare che il referendum fosse non valido per il mancato raggiungimento del quorum non è antidemocratico o anticostituzionale.

Oggi, però Meloni e complici fanno ancora peggio non soltanto invitando esplicitamente a non andare al voto, ma addirittura non rinunciando nemmeno alla possibilità di una fotografia di propaganda in più: «Vado a votare, ma non ritiro la scheda: è una delle opzioni», ha detto Giorgia Meloni.

La fantasia dei costituenti non arrivava neanche lontanamente a pensare che il diritto di voto, che contemporaneamente definivano “dovere civico”, per ottenere il quale decine di migliaia di italiani avevano sacrificato la propria vita, potesse essere non soltanto trascurato, ma addirittura irriso.

Ma sicuramente non avevano neppure previsto che a guidare il governo della Repubblica Italiana un giorno sarebbero stati dei personaggi che pervicacemente si rifiutano di affermare di essere antifascisti. E che hanno ragione di farlo perché antifascisti non sono.

Andare a votare, soprattutto in questo caso, è doveroso come “dovere civico”, ma “dovere civico” è anche spingere più gente possibile ad andare alle urne, a prendere le schede e a esprimere il proprio voto, qualunque esso sia.

 

domenica 1 giugno 2025

Repubblica non è sinonimo di democrazia

Quando l’uso di determinate parole diventa abituale, il rischio che si corre è quello di non percepire più la complessità della loro natura e, quindi, la realtà del loro significato.

Il 2 giugno, per esempio, in Italia si festeggia la nascita della Repubblica e la data si riferisce al referendum in cui il popolo italiano ha deciso di non volerne più sapere del re, e così, per molti la parola “repubblica” è diventata semplicemente il contrario di “monarchia” e contemporaneamente, vista la situazione del momento, ha assunto anche il ruolo di sinonimo di “democrazia”.

Eppure etimologicamente la non obbligata corrispondenza tra i due termini è più che evidente: repubblica significa cosa pubblica, mentre democrazia vuol dire potere del popolo e non sempre nella realtà le cose sono coincise. Molte sedicenti repubbliche, soprattutto quelle che nella dizione ufficiale sono accompagnate da aggettivi specificativi, non sono state assolutamente democratiche, ma ostaggi di tiranni, dittatori, capi religiosi. Ma anche molte altre hanno visto separare sempre di più la realtà repubblicana da quella democratica.

Se ci fermiamo al nostro Paese, la cosa poteva aver senso nel 1946 e nei primi decenni successivi, ma con il passare degli anni la situazione è drasticamente cambiata e repubblica e democrazia sono diventate sempre meno coincidenti.

Provate a pensarci. Quella volta la percentuale del popolo che decideva, cioè quello che andava a esprimere il proprio voto nelle elezioni di ogni tipo, raramente scendeva sotto il 90 per cento. Oggi ci si considera soddisfatti se si riesce a superare il 50 per cento e così nelle ultime elezioni, quelle del 2022 la coalizione che ha vinto e che ancora oggi governa ha ottenuto il 43,7 per cento dei suffragi dei votanti che sono stati il 63,9 per cento degli aventi diritto di voto. Questo vuol dire che, a fronte di un 30,2 per cento di voti sul totale del corpo elettorale, con il premio di maggioranza previsto dalla legge, governa con il 59,25 per cento dei seggi alla Camera e il 57,5 per cento al Senato.

Questo con il proporzionale puro non accadeva: le maggioranze si costituivano per strada e magari cambiavano all’interno della stessa legislatura, ma avevano davvero il diritto di chiamarsi maggioranza nei riguardi della popolazione italiana e non soltanto dei due rami del Parlamento.

A peggiorare la situazione, riducendo lo spazio della discussione, e quindi del possibile dissenso, si è aggiunta la drastica riduzione dei parlamentari motivata da risibili ragioni di risparmio, mentre si gettano via miliardi a puro scopo di propaganda elettorale.

Democrazia, poi, vuol dire scelta e la scelta può essere tale soltanto nel caso la si possa effettuare con sufficienti informazioni a disposizione. Sempre negli anni Quaranta e immediatamente successivi, le voci da cui la popolazione poteva apprendere quello che stava succedendo erano moltissime e presentavano punti di vista diversi che potevano aiutare nel comprendere a quale forza politica si era più vicini. Oggi le voci della carta stampata si sono ridotte di molto e alcune sono veri e propri bollettini di propaganda; le televisioni, soprattutto quelle controllate dai governi di turno si fanno notare più per le cose che tacciono che per quelle che dicono; il web è preda di chiunque voglia fare propaganda, o, ancor peggio, voglia far passare per vere realtà inesistenti, o situazioni diametralmente opposte a quello che realmente succede.

Potremmo andare avanti a lungo nel parlare di come il concetto di democrazia sia andato in crisi nel nostro Paese, e non soltanto con l’attuale governo, ma già da alcuni decenni, soprattutto nel nome di quella “governabilità” che ha come vero significato quello che appariva su un cartello dei tram di una volta: “Non parlare al manovratore”. E – non può in alcun modo consolarci – ma in altri Paesi sta già andando decisamente peggio, tanto che in una Nazione democratica, in cui il governo è davvero l’espressione del popolo al potere, alcune alleanze internazionali oggi sarebbero fortemente messe in dubbio.

Il fatto è che se si vuole davvero festeggiare la Repubblica, lo si può fare soltanto riconquistando la democrazia. E una prima occasione può essere colta già tra una settimana andando a votare ai referendum. Io voterò cinque Sì, ma l’importante in questo momento è smentire coloro che non vogliono che si vada a votare: a loro la democrazia non solo dà fastidio, ma fa addirittura spavento.

giovedì 29 maggio 2025

I sei referendum

Probabilmente nel leggere il titolo di questo “Eppure…” avrete pensato che io abbia fatto un errore perché i quesiti referendari per i quali si voterà domenica 8 e lunedì 9 sono cinque. Lo so benissimo e su tutte le cinque schede barrerò la casella con il “Sì” per abrogare leggi che considero ingiuste e sbagliate.

Lo farò per ridare il diritto al reintegro ai licenziati senza giusta causa, per togliere penosi limiti di risarcimento imposti ai giudici per la stessa circostanza, per proibire contratti a termine senza serie motivazioni, per non permettere che negli appalti la ditta principale si lavi le mani nei confronti della sicurezza e per non far aspettare molto più di dieci anni chi si merita la cittadinanza italiana.

Ma nei seggi elettorali si procederà anche a un altro voto referendario, anche se non sarà data alcuna scheda per esprimerlo e se il suo risultato non avrà immediati effetti pratici. La sesta consultazione sarà effettuata con la semplice partecipazione al voto che è esplicitamente avversata dalla quasi totalità dell’attuale maggioranza parlamentare che vuole approfittare dell’articolo 75 della Costituzione che prescrive che nei referendum abrogativi «La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi».

È un articolo che oggi sentiamo fortemente penalizzante nei confronti di chi chiede di abrogare una legge ingiusta, ma che verso la fine degli anni Quaranta, quando raramente l’affluenza scendeva sotto il 90 per cento, appariva non soltanto legittimo, ma quasi doveroso.

Oggi, a percentuali di votanti che non raramente non arrivano al 50 per cento, riuscire a raggiungere il quorum vorrebbe dire sconfessare il governo in carica, quello che si impegna a far andare deserta la consultazione.

E non si tratterebbe di sconfessarlo soltanto sui cinque quesiti, ma si tratterebbe soprattutto di affermare che l’Italia non intende continuare a vergognarsi delle azioni e delle decisioni di Meloni e complici non soltanto dal punto di vista politico, ma anche e soprattutto da quello umano.

Ho detto che andrò a votare per dire Sì ai cinque quesiti, ma lo farò soprattutto per dire No a un governo e a una maggioranza i cui membri restano seduti quando la minoranza chiede di alzarsi in piedi per rendere omaggio alle decine di migliaia di bambini e di altri innocenti uccisi a Gaza dalle bombe di quel criminale di guerra che si chiama Netanyahu. Per dire No a una presidente del consiglio che mai ha detto una sola parola per condannare il primo ministro di Israele, amico di quel Trump che la Meloni vede come il suo miglior alleato anche quando decide cose nocive per l’Europa. Per dire No a un governo che in Europa fa votare contro le proposte di decisioni sostanziali sul piano del commercio per indurre Netanyahu a interrompere una strage che fa ribollire il sangue a chiunque abbia ancora in sé qualcosa di umano.

Quindi, vi prego, domenica 8 e lunedì 9 andate a votare per cinque Sì, ma soprattutto per un implicito No che non avrebbe conseguenze immediate, ma che ci consentirà almeno di salvare la nostra dignità personale e che ci permetterà di dire che noi non siamo complici di colui che ammazza e affama un popolo intero soprattutto per difendere sé stesso ed evitare quei processi che lo aspettano da anni e neppure di quelli che, sostenendolo, hanno le mani lorde di sangue.

In questo caso il voto, oltre che un diritto, è anche un dovere. Ricordatevelo e ricordatelo anche a tutti coloro con cui avete a che fare.

giovedì 15 maggio 2025

L’assurda speranza dell’inferno

Almeno altri ottanta morti mercoledì, di cui 22 sono bambini. Un altro centinaio nella notte successiva. Dopo gli orrori commessi da Hamas il 7 ottobre del 2023, a Gaza l’esercito israeliano continua nella sua opera di strage giustificandosi, proprio come dicevano quelli che hanno sterminato gli ebrei sotto il regime di Hitler, «Non faccio altro che eseguire gli ordini».

E, intanto, quello che non fa l’esercito lo fa la fame, la sete, la mancanza di medicine, perché è da almeno due mesi che nella Striscia non entrano più aiuti, e il fatto che gli ospedali non ci siano praticamente più, se non a livello di macerie. Altri ottanta morti che fanno sempre più avvicinare alla terribile cifra di quasi 50 mila civili ammazzati da soldati con la stella di David sulla divisa. E qualcuno ama ancora cavillare sulla parola “genocidio”.

Ma Gaza non basta perché anche nella Cisgiordania stanno accadendo cose indicibili ben testimoniate dalle immagini di “No Other Land”, che ha vinto l’Oscar per la categoria documentari. Di questo si parla poco perché i morti sono molti di meno, ma l’obbiettivo finale è il medesimo: cacciare tutti i palestinesi dalla terra in cui abitano da secoli e alla quale sentono di appartenere. E i metodi sono, come sempre, violenti: ruspe che abbattono case e scuole, cementificazione dei pozzi d’acqua e tagli delle tubature idriche e, se qualcuno protesta, un colpo di pistola a bruciapelo da parte di quelli che hanno l’impudenza di farsi chiamare coloni.

E intanto, mentre finalmente c’è davvero tantissima gente che comincia a indignarsi e a non sentirsi antisemita se è contraria a Netanyahu e ai crimini che gli hanno procurato un mandato di cattura da parte della Corte penale internazionale, nel nostro Parlamento alla presidente del consiglio Meloni viene quasi un’ernia cerebrale nello sforzo di dire che in alcune cose non è proprio d’accordo con il rais israeliano e resta seduta con tutti i suoi seguaci quando viene rivolto un invito a tutti i presenti ad alzarsi in piedi in segno di dolente rispetto nei confronti delle migliaia di morti.

Io non ho una fede certa e so soltanto che in vita non potrò mai sapere, ma davanti a quelle immagini di bombe che polverizzano civili inermi – i cosiddetti danni collaterali, quasi parificati ai vetri delle finestre in frantumi – di bambini mutilati, di madri e padri che portano in braccio fagotti di tela bianca che contengono i corpicini senza vita dei loro figlioletti (pensate se quei bambini fossero i vostri), dei volti emaciati per mancanza di cibo, del mare di macerie, mi scopro a pregare Dio di esistere e di dare vita a quell’inferno nel quale spero possano patire in eterno Netanyahu, i suoi complici, i suoi obbedienti carnefici e anche tutti coloro che non soltanto non fanno nulla per indurlo a fermarsi, ma addirittura negano la realtà  per meschini e supposti motivi di alleanza.

 

mercoledì 14 maggio 2025

La lezione uruguayana

José Alberto Mujica se n’è andato sei giorni prima di compiere novant’anni. Era l’ex guerrigliero tupamaro che nel 2010 è diventato presidente dell'Uruguay, un Paese che, come molti dell’America latina ha visto passare la storia sotto dittature non sempre militari, ma invariabilmente molto lontane da ogni elementare forma di democrazia.

Negli anni Sessanta Mujica entra nel Movimento di Liberazione Nazionale – Tupamaros e partecipa alla guerriglia uruguayana. Catturato, trascorre oltre dieci anni in carcere, molti dei quali in isolamento. Ne esce senza rancore, diventando un raro modello di politico etico, umile e profondamente umano che lo fa apprezzare, per la sua capacità di dialogo, dalla maggior parte degli elettori del suo Paese, che lo scelgono come presidente, e ammirare da centinaia di milioni di donne e uomini in tutto il mondo.

È stato noto per la vita lontana dal lusso: Mujica viveva in una modesta casa di campagna e si spostava su un Maggiolino di quasi quarant’anni fa. È stato uno strenuo combattente contro la corruzione e ha dato vari esempi del fatto che viveva nello stesso modo in cui pensava e parlava. Donava, tra l’altro, il 90% del suo assegno da presidente a organizzazioni non governative che aiutano i più disagiati.

Vorrei ricordare due sue frasi che mi sembrano fondamentali per capire e affrontare la tetra notte che stiamo attraversando e che prima o poi dovrà pur finire.

La prima: «Sono consapevole di appartenere a una generazione che se ne va, che si congeda. La lotta continua e deve sopravvivere». E, infatti una delle sue maggiori preoccupazioni è stata quella di dedicare buona parte delle sue energie a non far apparire sé stesso come un leader insostituibile, di quelli che ritengono necessario mettere il proprio nome nel simbolo del partito che, in definitiva, ha come primo compito, quello di mantenere il capo al potere. Infatti il suo partito, quando lui ha smesso di essere presidente e si è ritirato nella sua casetta, ha continuato a comportarsi nello stesso modo non dimenticando un comandamento di Mujica: «Lo sviluppo non può essere contrario alla felicità. Deve essere a favore della felicità umana; dell’amore sulla Terra, delle relazioni umane, dell’attenzione ai figli, dell’avere amici, dell’avere il giusto». E il successo sociale, politico ed elettorale continua a sorridergli.

L’altra frase che dovrebbe essere scolpita nella testa di chiunque governi non “pro domo sua”, è: «Dobbiamo investire primo sull’istruzione, secondo sull’istruzione, terzo sull’istruzione. Un popolo istruito ha le migliori possibilità nella vita ed è difficile che si faccia ingannare dai bugiardi e dai corrotti». Ed è stato uno strenuo difensore dell’istruzione e della cultura perché, sottolineava, «sono le basi per difendere quei diritti che sono stati conquistati con tanto sangue e tanta fatica e che continuano a essere messi in pericolo».

Questo mio scritto è un pensiero rivolto a Mujica? In parte, perché è soprattutto un pensiero rivolto all’Italia, dove da decenni di felicità non si parla più, ma soltanto di ricchezza e di guadagno, dove sempre da decenni il settore in cui vengono effettuati costanti tagli è quello dell’istruzione e della cultura, in cui il nuovo maccartismo di Giorgia Meloni e complici impone di tagliare fuori coloro che non fanno cose che esplicitamente gradite al loro governo.

A José Pepe Mujica un reverente e commosso saluto; a voi la calorosa raccomandazione non soltanto di andare a votare al referendum dell’8 e 9 giugno, ma anche e soprattutto di impegnarsi a far andare a votare più gente possibile. Quelli che affiancano la Meloni sanno benissimo che la loro unica speranza di non perdere clamorosamente davanti ai quesiti sulla dignità del lavoro e contro la fobia nei confronti di chi non è figlio di italiani è quella che non si raggiunga il quorum. Votare è sempre un’alta forma di resistenza civile-

domenica 11 maggio 2025

La schifosa legge del silenzio

Talvolta il silenzio è molto più fragoroso delle parole. Talvolta l’assenza è terribilmente più clamorosa della presenza. Sarebbe da ciechi non aver notato che l’attuale maggioranza della Regione Friuli Venezia Giulia non ha ritenuto di partecipare, neppure con una singola presenza ufficiale, all’inaugurazione di vicino/lontano, né alla serata dedicata al premio Terzani nella quale il riconoscimento è stato attribuito alla memoria degli oltre duecento giornalisti palestinesi che sono stati uccisi dalle bombe, dai droni, dai proiettili dell’ l’IDF (una sigla inizialmente sincera e poi divenuta tristemente sarcastica, visto che significa “Forze di difesa israeliane”).

Per l’esattezza, uno studio della statunitense Brown University ha calcolato che dal 7 ottobre 2023, il giorno dell’orrendo massacro perpetrato da Hamas, a Gaza sono stati ammazzati almeno 232 giornalisti, più di quanti ne siano morti sommando i colleghi uccisi nella guerra civile americana, nelle due guerre mondiali, nella guerra di Corea, nella guerra del Vietnam, nelle guerre in Jugoslavia e nella guerra in Afghanistan dopo l’11 settembre. Il tutto in un quadro generale che parla di quasi 50 mila morti palestinesi di cui circa 20 mila erano bambini.

Com’è possibile una simile mancanza di pietas? Come si fa a negare quello che sta succedendo a Gaza? Si pensa davvero di poterlo cancellare con il silenzio? Era stato l’orrore per la connivenza nel silenzio lo stimolo che ha portato David Goldhagen a scrivere, riferendosi alla seconda guerra mondiale, “I volonterosi carnefici di Hitler”, libro molto apprezzato da tutti in Israele e avversato soltanto dalle destre estreme nel resto del mondo.

È evidente che questa assenza si spiega nel conformarsi anche della maggioranza di questa Regione all’attuale maggioranza pro tempore del nostro Paese. Ma qui la critica non trae forza dall’avversità politica, bensì dalla differenza del concetto di umanità che viene sottomesso alle presunte opportunità di alleanze che non hanno più il significato di una volta e che non possono restare totalmente invariate davanti non a normali mutamenti politici, ma a veri e propri stravolgimenti di tutti quei patti che sono stati firmati dalle varie nazioni per dare stabilità e umanità, appunto, ai rapporti internazionali con lo scopo principale – di cui, però, non si ricorda più quasi nessuno – di evitare la guerra che è la negazione di ogni concetto di civiltà.

Condannare il genocidio di Gaza – e finiamola di giocare anche su queste parole – e questo silenzio che tenta di nasconderlo non è opposizione politica: è semplicemente dignità umana. Papa Francesco è stato chiaro definendo come «ignobile» quello che sta succedendo e che, come ha scritto Anna Foa, altra ebrea come Goldhagen e come tanti israeliani ed ebrei che non accettano la bestialità di Netanyahu, assomigli molto a un sanguinoso suicidio di Israele.

Ed è ridicola l’accusa di antisemitismo che viene sparsa quasi in automatico contro chi parla contro l’attuale ras di Israele. Io ho orrore per Salvini e per tutti coloro che lo hanno assecondato nei suoi cosiddetti “decreti sicurezza” che hanno l’evidente, dichiarato e unico scopo di rendere più difficile, quasi impossibile, il soccorso in quell’immenso cimitero marino che è diventato il Mediterraneo. Come ho orrore per Minniti che ha venduto buona parte dei migranti agli aguzzini libici per regalare teorica tranquillità, ma soprattutto angosciante rimorso, all’Italia. Se non li posso vedere, se parlo contro di loro, sono forse anti-italiano? Evidentemente no: ritengo che gli anti-italiani siano loro. Esattamente come per me è Netanyahu a essere anti-israeliano. E ancora più evidente è il fatto che parlando male di lui non divento assolutamente antisemita. Non è mica che, con quello che penso di Salvini, io sia diventato anti-lombardo.

Giorgia Meloni ama ripetere «Dio, patria e famiglia». Già sul suo concetto di patria e di famiglia avrei un bel po’ da ridire, ma di che Dio sta parlando? Francesco ha detto: «Credo in Dio, non in un Dio cattolico; non esiste un Dio cattolico, esiste Dio». Ma il Dio dell’attuale presidente del consiglio pro tempore mi sembra un Moloch. Di che dio crudele sta parlando?

Del resto tutto questo non deve stupire perché quella del silenzio e dell’impedire l’informazione è un’arma che questa destra usa abitualmente, disertando le conferenze stampa, tacendo su alcune realtà e travisando molti numeri dei quali tace la reale consistenza. E, oggi, stando rigorosamente zitti sui referendum dell’8 e 9 giugno e puntando a non far raggiungere il quorum, unico sistema per evitare di risultare sonoramente sconfitti.

E noi cosa possiamo e dobbiamo fare? Dobbiamo quantomeno parlare, scrivere, manifestare per infrangere il silenzio, perché sempre più gente sia conscia di quello che sta succedendo e agisca di conseguenza. Parlare, scrivere, manifestare è una doverosa forma di resistenza civile.

Non posso dire agli esponenti della destra che «Una risata vi seppellirà»: non siamo più nel ’68 e non c’è proprio nulla da ridere, ma posso loro assicurare che faremo di tutto perché possano affogare nelle nostre lacrime.

 PS - Se lasciate dei commenti, vi prego di firmarli perché altrimenti li vedo firmati da "Anonimo" e mi è impossibile impostare un dialogo che mi sembrerebbe davvero utile. Grazie.