martedì 1 giugno 2021

Il concetto di festa

Repubblica Domani, 2 giugno, Festa della Repubblica. Ma se il concetto di “festa”, inteso come celebrazione di una data, come quella della nascita, può andar bene per una persona, o per un’organizzazione, è del tutto inadeguato, se non addirittura fuorviante, per una realtà come uno Stato democratico.

Ricordare, infatti, la data del referendum del 1946, quello che vide gli italiani scegliere la forma istituzionale repubblicana e abbandonare quella monarchica è necessario, ma non sufficiente, perché se è vero che quel giorno deve essere ricordato con orgoglio ancor prima che con gioia, è altrettanto incontestabile che di quei sacrifici, di quei sentimenti, di quelle persone che resero possibile l’arrivo della democrazia in Italia ci restano quasi soltanto i ricordi. E spesso sono ormai pallidi e indistinti.

La storia insegna che nessuno ha mai regalato la democrazia. La democrazia è stata sempre prima conquistata e poi difesa. Quando non la si è difesa con l’impegno personale, civile e sociale, è prima appassita e poi morta; o, spesso, è stata sostituita da altre cose che hanno sempre voluto mantenere il medesimo nome, ma ne hanno invariabilmente stravolto la sostanza. La conquista è stata effettuata dai nostri padri. La difesa sarebbe stata compito nostro. E uso il condizionale perché, alla lunga, mi riesce veramente difficile dissentire dalla frase cantata da Giorgio Gaber in “La razza in estinzione”: «La mia generazione ha perso».

A rivedere quello che è successo negli ultimi decenni, non possiamo sfuggire a delle domande che mi sono già fatto, ma che è giusto ripetere fino alla nausea. Come abbiamo fatto a permettere di tradire così tanto quei sacrifici? Come abbiamo fatto a deludere tanti sogni? Come abbiamo fatto a disattendere così tanto quelle speranze? Non ci possono essere scuse, ma la constatazione della sconfitta, fortunatamente non coincide obbligatoriamente con la perdita della speranza. Anzi, può essere la base di partenza per riprendere a salire dopo gli scivoloni e le cadute.

Ricordo che Luciano Canfora, in “La natura del potere” aveva scritto che ogni democrazia – sia essa embrionale, come durante una rivolta popolare, o raffinata come in una repubblica che si è data regole precise – tende a diventare sempre più organizzata, centralizzata e autoritaria; a negare, cioè, le ragioni per cui è sorta. Ed Ekkehart Krippendorff, in “Lo Stato e la guerra”, aveva rincarato la dose negando che uno Stato possa rimanere indenne dalla spinta verso la violenza nei confronti di chi ritiene più deboli.

Verrebbe quasi da pensare che ci si debba trovare di fronte a un obbligato circolo vizioso nel quale ogni liberazione debba essere inevitabilmente seguita da un deterioramento che peggiora sempre di più fino a quando non diventa necessaria un'altra liberazione, quasi sempre traumatica e comunque sempre temporanea.

Verrebbe da pensare così, ma soltanto se si trascura un fatto che balza, invece, agli occhi con tutta evidenza: che il decadimento prende il via quando comincia l’appagamento, quando la democrazia comincia a perdere il punto fondamentale della sua essenza, cioè la voglia del “demos”, del popolo, di esercitare il “kratos”, il potere; quando si comincia a dare tutto per scontato; quando si comincia a credere che i diritti possano essere considerati acquisiti; quando si delega tutto ad altri perché si pensa di aver già fatto quello che si doveva e che tocchi agli altri il compito di andare avanti. Quando davanti alle ingiustizie ci limitiamo a criticarle, ma senza più indignarci veramente e, quindi, reagire.

Per noi la Resistenza per antonomasia è la lotta antifascista su cui sono nate la nostra Repubblica e la nostra Costituzione, ma sappiamo benissimo che nazisti e repubblichini chiamavano i partigiani “Banditen” e che, già prima mandavano al confino, o peggio, coloro che contestavano le loro scelte.

Nel dialogo platonico del "Critone", Socrate preferisce perdere la vita piuttosto che minare l’autorità dello Stato opponendosi clamorosamente, con la fuga, a una legge, pur ritenuta ingiusta. Nell’"Antigone" di Sofocle, la protagonista sostiene con fierezza che non al potere bisogna obbedire, ma alla propria coscienza e va incontro alla pena capitale sostenendo con forza che è giusto disobbedire a una legge sbagliata a costo di perdere la vita. Socrate e Antigone ci portano agli estremi opposti dello spettro di possibilità: obbedienza cieca all’ordine costituito e resistenza inflessibile di coscienza.

Perché, a ben guardare, il dilemma nella resistenza non è, come potrebbe sembrare, tra obbedire e non obbedire. Il vero dilemma etico è tra obbedire e disobbedire. Lo vediamo anche nei nostri giorni; ogni giorno. E resistere, dunque, non è solo possibile, ma in certi casi è doveroso.

Come è doveroso cominciare seguendo lo spirito dell’articolo 21 della nostra Costituzione, al quale a San Daniele sono stati dedicate tre giornate di approfondimento. «Tutti – recita – hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». Più che un diritto sarebbe un dovere e sarebbe anche un buon modo per rendere davvero una festa, e non soltanto una celebrazione, il 2 giugno.

Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

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