Se ci pensate, appare del tutto
evidente che i quattordici morti della funivia del Mottarone andrebbero
annoverati tra le vittime del lavoro. L’unica differenza, rispetto al
solito, è che questa volta a essere ammazzati dall'incuria e
dall'egoismo di chi dovrebbe essere responsabile della sicurezza non
sono stati gli operai, ma i clienti. E questa non è nemmeno la prima
volta: basterebbe pensare al ponte Morandi trotalmente privo di
manutenzione e alle 43 persone che vi hanno perso la vita precipitando
nel vuoto. O, per andare più indietro nel tempo al disastro del Vajont,
causato dalle criminali decisioni della SADE, con oltre duemila vittime;
alla colata di fango, provocata da un insensato disboscamento, che ha
travolto Sarno e oltre 160 suoi abitanti; alle frane che si abbattono
ripetutamente su abitazioni; alle migliaia di vittime provocate da
dissesti geologici indotti dall’uomo; e l’elenco potrebbe continuare a
lungo.Il forchettone che ha bloccato il freno di sicurezza
A Stresa si è addirittura inserito nel freno di sicurezza un aggeggio che lo bloccava. A Genova si è fatto finta di non sapere che la struttura era al collasso. Come nel passato, in entrambi i casi le sciagurate decisioni che hanno portato alla morte di tante persone sono state dettate dalla voglia di far soldi, dalla smania di ottenere un maggiore guadagno operando esasperati risparmi che si realizzano con la mancanza di manutenzione e l'inosservanza delle regole.
In questa nostra Italia stiamo
assistendo a un macello quotidiano che mediamente fa contare quasi tre
morti al giorno. E in un disinteresse quasi assoluto, interrotto, di
tanto in tanto, per la maggior parte della gente, da qualche lacrima per
avvenimenti che ci appaiono più commoventi di altri, come quello della
giovane mamma Luana, ingoiata e fatta a pezzi a Prato da un orditoio
tessile cui era stata tolta una paratia di sicurezza. O quando troppe
uccisioni si ammassano in pochi giorni. com'è avvenuto per i due operai
morti a Pavia soffocati da un gas fuoriuscito da un tubo rotto mentre
loro erano senza maschere di sicurezza.
Lasciamo pur perdere che storicamente non c’è mai stata gratitudine per gli operai, anche se sono stati loro a costruire case, fabbriche e templi, a forare montagne ed erigere ponti, a costruire dighe, macchine e utensili di ogni tipo, ma è assurdo che anche noi giornalisti, che teoricamente dovremmo raccontare la realtà, continuiamo a parlare di “incidenti sul lavoro”. Non sono quasi mai incidenti. Gli incidenti, infatti, sono avvenimenti inattesi. Questi no: sono addirittura tanto abituali da farli apparire come inevitabili, mentre sarebbero evitabilissimi, con norme adeguate, con macchinari non manomessi e non eccessivamente vetusti, con un’adeguata formazione di un personale non turbinosamente cambiato per mantenere la precarietà di chi lavora, con maggiori controlli attualmente impossibili per la carenza di controllori.
Ma soprattutto sarebbero evitabili con un maggiore senso etico che, invece, manca. Pensate ai fatti di Stresa: tre sono finora gli indagati, uno dei quali reo confesso tra lacrime inutili. Ma probabilmente sono di più quelli che, lavorando all’impianto, non potevano non essersi accorti che qualcosa non andava. Eppure sono stati zitti, un po’ come molte volte è accaduto nella storia quando tanti hanno fatto finta di non vedere anche orrori che hanno insanguinato l’umanità.
Sono stati zitti perché il posto di lavoro, soprattutto in periodo di crisi appare troppo importante per poter venir messo a repentaglio dalla vendetta di un datore di lavoro. E, del resto, quando di lavoro ce n’è poco, o, meglio, pochi sono i posti decentemente garantiti, sono sempre di più quelli che si sentono costretti ad accettare condizioni di lavoro inaccettabili, sia materialmente, sia moralmente.
E, dunque, perché non risparmiare sulle misure di sicurezza quando c’è tanta gente disponibile, per fame, ad adattarsi a quasi tutto? E, del resto, come chiedere alle industrie di spendere per la sicurezza in momenti di crisi, se nel contempo si autorizza a licenziare mentre l’esperienza insegna che di questa norma si avvarranno non soltanto le ditte davvero in crisi, ma anche quelle che vorranno diminuire le spese per incrementare i guadagni?
Non basta scrivere leggi severe e non sono sufficienti neppure le condanne e le pene, sempre che poi trovino piena applicazione: il problema è etico e, quindi, culturale. In una società sana, infatti, nessuno dovrebbe essere neppure sfiorato dall’idea di poter mettere a rischio la vita altrui. Anche perché quando le vittime, come a Stresa, come a Genova, possono essere pure i clienti, allora nessuno può sentirsi più al sicuro: nemmeno coloro che a casa loro decidono di scommettere credendo di rischiare soltanto le vite degli altri.
Torniamo al problema dell’etica dei limiti che dovrebbero essere chiari e inviolabili, mentre, invece, sono aleatori e adattati ai propri presunti bisogni. Forse, ammesso che qualcuno ci pensi, questo spostamento di vittime sacrificali dai lavoratori ai clienti potrebbe far sentire coinvolti anche coloro che si ritengono immuni dai rischi che fanno correre agli altri.
Però, invece, occorrerebbe che lo Stato, la scuola, la politica, ognuno di noi cittadini - tutti, insomma - sentissero l’obbligo di insegnare e testimoniare che un comportamento etico è necessario per il bene della società e, quindi, per il bene di tutti.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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