Il tumultuoso dibattito che ha accompagnato, accompagna e continuerà ad accompagnare la somministrazione del vaccino AstraZeneca, ora si è inevitabilmente esteso, e si allargherà ulteriormente, anche al Johnson&Johnson.
Da una parte continueranno a schierarsi, oltre ai soliti novax e ai complottisti, anche coloro che considerano insicuri questi ausili anti-Covid realizzati dalla scienza in tempi così ridotti da sembrare fantascientifici; dall’altro gli scienziati continueranno a sgolarsi nel ripetere che nessuna medicina, nemmeno l’aspirina, è priva di rischi e che, rispetto a questi vaccini, rischiamo molto di più ogni volta che usciamo di casa, sulle scale, per strada, in automobile o a piedi, in treno o in aereo. Eppure lo facciamo senza pensarci. E ripetono anche – e indubbiamente a ragione – che le migliaia di persone che da gennaio in qua hanno perso la vita nel nostro Paese, se fossero state vaccinate, oggi sarebbero praticamente tutte ancora qui con noi.
Ma dall’altra parte per molti il timore istintivo della sfortuna resta più forte di ogni ragionamento e a ben poco serve ripetere che se in Italia si vaccinassero tutti i 60 milioni di abitanti, neonati compresi, e se fosse vero che certe morti per trombosi dipendono davvero dall’iniezione antivirus, a tenere per buone le percentuali tra vaccinati e casi di decessi sospetti, i morti nell’intera penisola per causa vaccinale, sarebbero all’incirca cinquanta, almeno mille volte meno dei decessi già causati dal virus nella seconda ondata.
Però quello che colpisce è che questo acceso e quotidiano dibattito è quasi sempre clamorosamente monco: manca, infatti, una parte importante non soltanto per indirizzare le scelte di ognuno, ma soprattutto perché illustra tangibilmente come sia cambiato il nostro mondo. A latitare totalmente, infatti, è la considerazione fondamentale che maggiore è il numero dei vaccinati, minore diventa la possibilità per il virus di contagiare altri esseri umani.
Se, come più volte abbiamo detto, ci troviamo in una fase di snodo, in un momento in cui necessariamente sta avvenendo un cambio di epoca, va sottolineato che le previsioni non possono essere certamente rosse: l’“io” ha riconquistato molti punti sul “noi”. Ce n’eravamo già accorti da moltissimi cambiamenti politici e sociali, ma questo, e soprattutto il fatto che neppure se ne parli, sembra essere una conferma con poche speranze di appello.
Ancora una volta abbiamo dimenticato il significato evangelico della parola “prossimo” alla quale spesso si dà un valore divergente dalla sua sostanza etimologica. Ci si ricorda della frase «Ama il prossimo tuo come te stesso» e inevitabilmente si pensa a questo prossimo come a una persona lontana, diversa, per amare la quale bisogna sforzarsi e sacrificarsi un po’. E invece “prossimo” significa davvero “vicino” in quanto tutti gli esseri umani sono come fossero vicini a noi.
Il caso del Covid è esemplare: pensare a evitare di poter contagiare il prossimo non significa, infatti, soltanto difendere chi si incontra magari per caso, ma vuol dire anche e soprattutto ergersi per prima cosa a baluardo delle persone con cui si vive, che si amano e da cui si è riamati, della cui malattia, o addirittura della morte, non si vorrebbe mai essere, sia pur involontariamente, responsabili..
Forse proprio pensando a questo si può cominciare a percepire che la differenza tra “io” e “noi” è determinante per indirizzare il futuro non soltanto della specie, ma anche del nostro minuscolo, e pur importantissimo, intorno.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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