Un 25 aprile senza manifestazioni pubbliche e cortei può apparire indebolito, svuotato dei suoi significati più profondi, dell’insegnamento che se un popolo lotta davvero per i suoi diritti, nessuno alla fine potrà sottrarglieli. Eppure questa seconda Festa della Liberazione celebrata in tono apparentemente minore a causa delle limitazioni imposte dal Covid, ci ha dato grandi momenti di riflessione che dovranno, o almeno dovrebbero, accompagnarci nel prossimo futuro.
Cominciamo dal presidente del Consiglio, Mario Draghi, che, se in certi comportamenti non ha assolutamente convinto, in altri non è stato inferiore alle pur pretenziose attese e in altri ancora ha saputo sorprendere tutti, come quando, dopo la visita al museo della Liberazione di via Tasso, a Roma, ha affermato che «constatiamo con preoccupazione, l’appannarsi dei confini che la storia ha tracciato tra democrazie e regimi autoritari, qualche volta persino tra vittime e carnefici; vediamo crescere il fascino perverso di autocrati e persecutori delle libertà civili, soprattutto quando si tratta di alimentare pregiudizi contro le minoranze etniche e religiose». E ha proseguito spazzando via in un colpo solo decenni di ipocrisie sia da parte di chi voleva appropriarsi anche della Resistenza, sia da parte di quelli che, pur di non avere problemi, tacevano il fatto che la Resistenza non è di tutti, non può essere di tutti. Ha affermato, infatti, che «dobbiamo anche ricordarci che non fummo tutti, noi italiani, “brava gente”. Dobbiamo ricordare che non scegliere è immorale».
E a proposito di dire le cose come stanno, a non molta distanza Papa Francesco, dopo aver ricordato che «130 migranti sono morti in mare. Sono persone, sono vite umane che per due giorni interi hanno implorato invano aiuto: un aiuto che non è arrivato», stava dicendo che «È il momento della vergogna! Preghiamo per questi fratelli e sorelle e per tanti che continuano a morire in questi drammatici viaggi. Anche preghiamo per coloro che possono aiutare, ma preferiscono guardare da un'altra parte. Preghiamo in silenzio per loro».
Forse è stata proprio la lontananza dai discorsi ufficiali pronunciati davanti a grandi quantità di gente a permetterci di non sentire i tanti discorsi vuoti di coloro che vorrebbero cancellare i ricordi dei misfatti perpetrati dal nazifascismo, o che stupidamente spererebbero di annacquarli ricordando invariabilmente che nella terribile storia dello scorso secolo ci sono state anche le foibe, o di coloro che mendicano voti evitando di prendere posizioni nette, rinunciando a pensare e anche ricacciando indietro una vergogna che non possono non sentire.
Sia Draghi, sia Francesco hanno ribadito la medesima conclusione: non si può non scegliere. O si è fascisti, o non lo si è. E se non lo si è, non si può fare a meno di combattere la disumanità di quel credo che mi ripugna definire “politico”. Non si può farne a meno perché il silenzio altro non è che complicità, perché il delegare ad altri i propri doveri forse non è illegale, ma sicuramente non è umano. Perché accettare di mantenere le proprie posizioni grazie al sostegno di nostalgici del fascismo e del nazismo è accettare di dividere le responsabilità di quello che può accadere.
Per capirci, è possibile che non si sentano corresponsabili delle migliaia di morti in mare coloro che sorridono quando Salvini riesce a bloccare le operazioni di soccorso in mare, o quando poi, Minniti da una parte e Di Maio e l’Europa dall’altra, raccontano sfilze di falsità per tentare di convincere altri e per far tacere la propria coscienza?
Tra tutti i diritti, quello alla vita è il diritto fondamentale e, come tutti i diritti, è tale soltanto se è un diritto di tutti. Altrimenti diventa un privilegio. E quelli che tentano di attraversare il Mediterraneo non hanno meno diritto di vivere di qualunque altro essere umano.
Draghi, nel suo discorso, ha avuto ragione in tutto, tranne che nell’uso del tempo: nel «non fummo tutti, noi italiani, “brava gente”» il passato remoto avrebbe dovuto essere sostituito con il presente.
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