martedì 2 giugno 2020

Repubblica e patria

Qualcuno dovrebbe dirglielo a Salvini, Meloni e loro seguaci, a sovranisti assortiti, gilet arancione, neofascisti e neonazisti, ma anche a fascisti e nazisti di vecchio conio, che oggi, 2 giugno, non hanno nulla da festeggiare perché questa è la Festa della Repubblica, e non quella della Patria; sempre ammesso che a quei signori interessi davvero la patria e non l’esercizio di un potere che permetterebbe loro di dare applicazioni pratiche a razzismo, xenofobia, discriminazioni, fondamentalismi di tutti i generi possibili.

Repubblica e patria, infatti, soltanto apparentemente coincidono e spesso esclusivamente in termini geografici. Perché, solo per fare un esempio, l’Italia di oggi non è certamente uguale a quella del ventennio e il 2 giugno, infatti si festeggia il passaggio dal regno alla repubblica, dalla dittatura alla democrazia; un passaggio reso possibile dal sangue della Resistenza e dalla determinazione di un intero popolo che si è espresso nel referendum del 1946. Quindi se oggi la destra scelte in piazza, lo fa per protestare, non per festeggiare, per attaccare questa Repubblica, non per rafforzarla.

Non basta sventolare tricolori puliti e liberi dallo scudo sabaudo e dall’aquila repubblichina per festeggiare il 2 giugno e l’Italia repubblicana: occorre, invece, rispettarne la Costituzione. Un tricolore, infatti può nascondere molte cose. Pensate soltanto a cosa Bossi e Salvini dicevano ci si dovesse pulire con il tricolore e all’involontaria autoironia con la quale Salvini stesso oggi usa una mascherina tricolore per coprirsi mezza faccia.

La Festa della Repubblica, insomma, è spiritualmente molto vicina alla Festa del 25 aprile: ne è la diretta conseguenza e ne eredita tutti i significati e tutte le aspirazioni tra le quali le prime sono proprio le determinazioni a mantenere pace e democrazia.

Intendiamoci, il concetto di patria è originariamente assolutamente nobile, perché indicava – e nell’antichità soprattutto con un’accezione religiosa – il territorio abitato da un popolo, al quale ciascuno dei suoi componenti sente di appartenere per nascita, lingua, cultura, storia e tradizioni. Ma lo stesso concetto, con la successiva e progressiva politicizzazione non soltanto è profondamente cambiato, ma si è indebolito, parcellizzandosi in tante minuscole frazioni. Se, infatti, continuano a sussistere le caratteristiche della nascita e della lingua comuni, il legame comincia già a deteriorarsi quando si comincia a parlare di cultura e si infrange davanti a storie e tradizioni assolutamente non soltanto non condivise, ma tra le quali ognuna vuole predominare sull’altra con prove di forza e non di convinzione, né, tantomeno, con una determinazione alla convivenza e alla solidarietà.

Non per nulla Fernando Aramburu ha intitolato “Patria” quel suo romanzo nel quale, con struggente travaglio interno e profonda capacità di analisi, descrive i lutti e le lacerazioni portate dal progressivo incattivirsi e parcellizzarsi del concetto di patria che porta a massacrare anche coloro che hanno anche la stessa nascita, lingua, cultura e tradizioni, ma sentono la storia in maniera diversa e credono in una differente scala di valori. Aramburu descrive quella che è stata la situazione dei Paesi Baschi e di come si sia poi arrivati a una pacificazione che si è costruita proprio quando si è capito che nessuna soluzione può scaturire né dall’odio, né dalla convinzione di essere gli unici detentori della verità.

E quello è stato soltanto un esempio di come il concetto di patria sia stato sempre alla base degli infiniti lutti che hanno intristito il mondo: l’Irlanda, l’ex Jugoslavia, le guerre mondiali e locali, le guerre di religione e di conquista, i campanilismi che corrodono come un cancro quella che dovrebbe essere, appunto, una patria comune. Per spiegarmi meglio chiedo aiuto a Umberto Saba che, valutando come un concetto rispettabile possa corrompersi e diventare venefico, così ha scritto: «Patriottismo, nazionalismo e razzismo stanno tra loro come la salute, la nevrosi e la pazzia».

L’unico modo per uscirne è proprio ritrovare le basi di una democrazia ripulita dai mille trucchi e dalle infinite furbizie che finiscono per renderla irriconoscibile e, quindi, sempre più lontana. Il 2 giugno dovrebbe essere proprio questo: non uno sventolio di bandiere che nascondono tante idee diverse, ma un’ostensione di quella Costituzione che è l’unico parametro che dovrebbe definire, per ognuno di noi, se quella in cui viviamo è la nostra patria, oppure no.

Buon 2 giugno, come sempre, soltanto a chi ci crede davvero.


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