È morto, a 87
anni, Elie Wiesel, giornalista, scrittore, Premio Nobel per la pace.
Sopravvissuto alla Shoah, aveva deciso di dedicare la sua vita a
combattere l'oblio, l'indifferenza, la menzogna. Non c’era momento in
cui non parlasse di Dio, in cui non ci discutesse e litigasse, in cui
non lo mettesse sotto processo per quello che aveva lasciato fare. Con
lui aveva un conto aperto da quando nel lager gli era stata sottratta
gran parte della famiglia: «Non dimenticherò mai – aveva detto – quelle
fiamme che consumarono la mia fede per sempre».
Ha combattuto per tutta la vita
contro le crudeltà e le dittature, ha sempre tenuto in gran conto i
valori e gli ideali; quindi le ideologie, ma diventando un loro
implacabile nemico non appena mostravano segni di degenerazione. Ha
voluto con forza che l’Onu approvasse una risoluzione che giudicasse il
terrorismo come un crimine contro l'umanità.
Mentre troppi non pensano più perché
ritengono che la velocità sia il bene supremo, la sua mancanza diventa
ancora più pesante. Desidero ricordarlo offrendogli la presentazione che
nel giugno del 2004 sono stato chiamato a fare, da monsignor Duilio
Corgnali, nel duomo di Tarcento, de “Il processo di Shamgorod” per una
settimana di cultura intitolata “Il silenzio di Dio”.
Mi rendo conto che la lunghezza del
testo è abnorme per una comunicazione via internet, ma credo che per me
sia più importante ricordare Elie Wiesel che rispettare i dettami del
web. Comunque era giusto avvertirvi che il testo è davvero lungo. Eccovi
quello che ho detto quella sera.
––––
Credo che nel vedere la quantità di
gente che sta decretando il successo di questa Settimana internazionale
della cultura di Tarcento, la prima cosa da sottolineare sia che Il
Silenzio di Dio – ammesso che esista davvero – porta a far parlare, a
far ascoltare, a far ragionare. Il che – di questi tempi – già mi sembra
una specie di piccolo miracolo, capace di far sorridere di contentezza.
Ma lasciamo perdere i sorrisi e
arriviamo alle cose serie. Perché questa occasione è per me
terribilmente seria. Parlare, in un duomo, su un tema come quello de “Il
silenzio di Dio”, mentre sta per andare in scena “Il processo di
Shamgorod”, di Elie Wiesel, è una situazione che non può non mettermi in
crisi. Sia perché io – laico e fortemente dubitante – parlo da una
specie di pulpito, sia, soprattutto, perché il processo di Shamgorod è
un processo a Dio; e presentarlo e rappresentarlo in un luogo consacrato
può sembrare una bestemmia.
Può sembrare una bestemmia, come una
bestemmia può essere sembrata a molti uno degli scritti più sofferti e
più conosciuti di un altro grande del pensiero, Hans Jonas che nel suo
“Il concetto di Dio dopo Auschwitz”, forse non ha istruito un vero e
proprio processo, ma ha sicuramente messo in piedi una penetrante
requisitoria che contemporaneamente è stata anche una sofferta arringa
difensiva.
Eppure, se questi due scritti
possono essere considerati bestemmie, allora tutti noi abbiamo
bestemmiato ogni volta che ci siamo chiesti perché è stato permesso che
un bambino morisse di leucemia, o di morte bianca, o di qualsiasi altra
cosa possa portare via una vita che deve ancora sbocciare compiutamente.
Tutti noi abbiamo bestemmiato quando ci siamo chiesti non soltanto
perché un pedofilo abbia potuto fare quello che ha fatto, ma anche
perché, prima, egli abbia potuto diventare ciò che è diventato. Tutti
noi abbiamo bestemmiato quando ci siamo chiesti come sia stato possibile
permettere a gente come Hitler, Mussolini, Stalin, Pol Pot e, per
venire ai giorni nostri, anche a Osama Bin Laden, a Sharon, a Busch, e a
una sfilza di persone che sarebbe troppo lungo elencare, di detenere il
potere di far uccidere tanti altri uomini da non poterne tenere un
conto esatto. O come sia stato possibile permettere di far arrivare al
potere altri individui che forse non hanno ammazzato con le armi, ma
hanno ucciso con la fame e con le umiliazioni.
Sono tutte bestemmie queste? È molto
difficile rispondere. Sarei portato a dire di no; a sostenere che
queste non sono bestemmie, in quanto sono le limitate e irrazionali
reazioni di un uomo a quelli che sentiamo come tradimenti. Ma forse
proprio per questo sono bestemmie. Oppure, piuttosto, questo nostro
continuo processo a Dio – che costruiamo ogni giorno e che ogni giorno
può avere una sua udienza – lo giustifichiamo con il “Silenzio di Dio”. È
una locuzione che è balzata all’attenzione di tutti quando Giovanni
Paolo II ha lanciato un grido di dolore: «Oltre alla spada e alla fame,
c’è una tragedia maggiore, quella del silenzio di Dio, che non si rivela
più e sembra essersi rinchiuso nel suo cielo, quasi disgustato
dell’agire dell’umanità». È una locuzione che ottimamente è stata
indicata come tema di questo che è stato definito “Festival del
pensiero”, anche se, a dire il vero, questo può apparire eccessivo
perché il pensiero non può abbracciare tutto, non può spingersi oltre
certi confini, non può giustificare, non può spiegare qualsiasi cosa.
“Il silenzio di Dio”. Monsignor
Duilio Corgnali ha scritto, in maniera assolutamente condivisibile, che
il silenzio non è mancanza di parole: il silenzio è mancanza di rumore.
Ebbene: allora il silenzio forse non esiste, perché il rumore lo
sentiamo quasi dappertutto. Lo abbiamo trovato sul Golgota, lo abbiamo
trovato nel pogrom che ha cancellato la popolazione ebraica del paesino
polacco di Shamgorod nel febbraio del 1649 e lo abbiamo trovato ad
Auschwitz, quando Elie Wiesel, ne “La Notte”, dice: «Dietro di me udii
il solito uomo domandare: Dov’è dunque Dio? E io sentivo in me una voce
che rispondeva: Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca...», a una
forca, sulla quale invano si rifiutava di morire un bambino impiccato
dai nazisti.
In questi tre casi – e in tanti
altri – il rumore c’era. Mancavano forse le parole, ma il rumore era
forte e assordante come una sirena d’allarme. Stridente. Anzi, per usare
il termine più esatto, lacerante: perché ci ha lacerato cuore, cervello
e anima. E questo rumore esiste anche in tutto quello a cui ho già
accennato: nelle morti naturali e accidentali dei bambini,
nell’infanticidio, nella pedofilia, nel rendere schiavi gli altri, nel
fare guerre, nel fare terrorismi, nell’essere razzisti ed eterofobi,
nell’essere egoisti e nel rifiutare solidarietà, nell’affamare la gente,
nel calpestare tutti i diritti altrui pur di aumentare i propri
guadagni.
Il male, insomma, è un grande
costruttore di rumori e forse, in realtà, questi rumori sono talmente
violenti da coprire le parole che in sottofondo, invece, magari
continuano a esserci, ma che noi non riusciamo a percepire forse più per
nostra distrazione che per loro debolezza.
Ma allora, se noi non sentiamo più
le parole di Dio, questo deve essere imputato a lui, oppure significa
che siamo noi a non sentire, a non credere? Il silenzio di Dio, in
definitiva, può mettere in dubbio la nostra fede? Ovviamente non lo so,
ma credo che questo non possa accadere a chi ha la fortuna di possederla
davvero; e io non sono tra quelli. Perché immagino che la fede non sia
il risultato di un rendiconto finale tra una colonna del dare e una
dell’avere; che non possa dipendere dal risultato delle nostre preghiere
perché, ovviamente, Dio non deve mica ripagare le nostre preghiere come
un commerciante che, ricevuto il denaro, consegna la merce al cliente.
Credo che la vera fede non possa essere quell’acritica e cieca
superstizione dogmatica che è alla base di ogni fondamentalismo, perché
se rifiuta ogni interrogativo non la sento come una vera fede, ma solo
come una superstizione, un professare il nulla.
Credo che spesso si tenda ad
accusare la laicità confondendola con la secolarizzazione. Se la
secolarizzazione, infatti – almeno nella connotazione indicata da Max
Weber – vuole riferirsi a una deliberata espulsione di riferimenti
religiosi dalla vita sociale, molto diverso è il concetto di laicità,
perché in diverse questioni aperte nella concezione della vita e della
storia, delle istituzioni e della politica, laicità e fede non si
oppongono pregiudizialmente. Anzi, laico può essere sia il credente, sia
il non credente, mentre entrambi, invece, possono esprimere il più
vuoto dogmatismo. Laico, insomma, è il credente non superstizioso,
aperto alla ricerca, agli interrogativi, desideroso di confrontarsi con
Dio e con gli altri uomini, anche con coloro che si ritengono non
credenti. E così è laico ogni non credente che sviluppa senza
assolutizzazioni il proprio relativo punto di vista, la propria ricerca e
il proprio dialogo, anche con il credente.
Insomma, la fede, quella che io
tenderei a considerare più vera, quella che più mi piacerebbe avere in
dono, mi appare invece molto vicina a un continuo processo a Dio e a noi
stessi. Mi sembra un continuo mutare tra credere e dubitare; ritengo
debba essere capace di mettere in discussione tutto rifiutando in
maniera assoluta la superbia di quella che potremmo definire la sindrome
“del popolo eletto”, di colui che pensa di essere superiore perché è
sempre convinto di possedere la verità. Una volta Carlo Maria Martini,
arcivescovo emerito di Milano, parlando della “Cattedra dei non
credenti”, una specie di seminario aperto a pensatori e uomini di
scienza non toccati dalla fede, disse più o meno così: «Ci sono i non
credenti a cui non interessa pensare per tentare di conoscere e quelli
che si macerano e si sforzano di scoprire quello che non è possibile
scoprire, ma che non per questo si rassegnano a non pensare. Ecco – ha
continuato Martini – io con loro riesco a discutere benissimo perché
sono abituato a sentir discutere quotidianamente nella mia anima la
parte di me che crede con quella che non crede».
E lo stesso concetto era già stato
espresso con grande umanità ed efficacia da Turoldo: «Pensavo di essere
solo a combattere, invece c’era tutta una Chiesa sommersa che
inconsapevolmente ti imponeva di essere fedele, di non cedere: una
Chiesa di credenti e di non credenti. Sì, perché io non ho mai saputo
con certezza quali siano i confini tra credenti e no, quali i confini di
una Chiesa che non fosse solo una costruzione giuridica; ma che fosse
prima di tutto una realtà di spiriti, di creature viventi. Pensavo di
essere io a durare, invece erano loro a farmi durare: perché non si può
tradire chi crede anche per te».
Ma i processi intentati da Wiesel e
da Jonas contro Dio risentono chiaramente del fatto che gli ebrei vedono
in Dio il Signore della storia, che trovano già nell’al di qua il luogo
della creazione, della giustizia e della salvezza divina, che meno sono
disposti a trincerarsi dietro l’ineffabilità delle decisioni divine
perché loro, dopo una millenaria pratica di studio e di intensa e
continua frequentazione della Torah, hanno instaurato con Dio un
rapporto che è diventato quasi da pari a pari. Ti fanno notare che nel
Deuteronomio è scritto: «Amerai il Signore con tutto il tuo cuore, con
tutto il tuo spirito, con tutte le tue forze» e che non c’è scritto
«adorerai». E su questa base la confidenza, l’intimità, il colloquio tra
ebreo e Dio a volte, per un osservatore esterno, sfiora l’insolenza. È
per questo che Abramo ha discusso con Dio in favore di Sodoma e ne è
uscito vincente; anche se è stata Sodoma, poi, a perdere. È per questo
che sono loro e non i cristiani, e tanto meno i musulmani, a permettersi
di processarlo per le nefandezze che ha lasciato fare agli uomini.
Molto significativo in questo senso
mi sembra un brano di un testamento rinvenuto in una soffitta di
Varsavia, scritto da un ebreo in attesa di essere trovato dai nazisti –
che già gli avevano ucciso moglie e cinque figli – alla fine della
rivolta del Ghetto: «II Dio d’amore – scrive – ha comandato di amare
ogni essere creato a sua immagine; ma nel suo nome veniamo assassinati
senza pietà, giorno dopo giorno, da duemila anni». E continua: «Credo
nel Dio d’Israele, anche se ha fatto di tutto perché non credessi in
Lui. Credo nelle Sue leggi, anche se non posso giustificare i Suoi atti.
Il mio rapporto con Lui non è più quello di uno schiavo verso il suo
padrone, ma di un discepolo verso il suo maestro. Chino la testa davanti
alla Sua grandezza, ma non bacerò la verga con cui mi percuote. Io lo
amo, ma amo di più la Sua Legge, e continuerei a osservarla anche se
perdessi la mia fiducia in Lui. Dio significa religione, ma la Sua Legge
rappresenta un modello di vita, e quanto più moriamo in nome di quel
modello di vita, tanto più esso diventa immortale».
Questo rapporto con Dio per
cristiani e musulmani è difficilmente concepibile. Eppure i tre credi
monoteisti hanno in comune il Dio del Sancta Sanctorum, quel luogo
dell’antico tempio di Gerusalemme dove si diceva aleggiassero lo spirito
e il nome segreto di Dio; quel Sancta Sanctorum che era vuoto perché
soltanto il vuoto può alludere all’essenza inafferrabile e
incomprensibile di Dio. E quel luogo così segreto e così inaccessibile
non può essere dimenticato ancora oggi perché, in pratica, ha dato
origine a tutte le chiese cristiane, alle moschee islamiche e alle
sinagoghe ebree della diaspora. Senza quel vuoto assoluto e
profondissimo nessun tempio potrebbe esistere.
Ma le tradizioni delle tre religioni
sono davvero molto complesse e tra i credenti il gioco si snoda e si
aggroviglia attraverso i temi dell’unità e della diversità, mentre a
rendere ancora più complicato il quadro intervengono anche le posizioni
del laicismo, dell’ateismo, dell’agnosticismo.
Pietro Citati, mettendo a confronto
le tre religioni ha scritto: «Se una volta siamo stati creati da Dio,
oppure l’abbiamo creato noi (la differenza è irrilevante), ora giochiamo
con lui». Lasciamo perdere gli altri concetti di questa densissima
frase e soffermiamoci per un momento sull’affermazione che «la
differenza è irrilevante» chiedendoci se questo assunto possa essere
considerato come vero.
Se fosse davvero così, verrebbe da
pensare che siamo stati noi, a seconda delle nostre abitudini, delle
nostre tradizioni, a creare Dio, o meglio, degli dei diversi. Perché se
fosse stato lui a creare noi, ci avrebbe dato un unico faro spirituale e
ci avrebbe risparmiato molti orrori che non sono identificabili
soltanto con le mattanze esportate, come le crociate, la jihad, la
shoah, ma anche con quelle intestine, come l’inquisizione o le stragi
avvenute in Algeria. La terza ipotesi è ritenere che Dio abbia creato
noi e, contemporaneamente ci abbia lasciato non soltanto la totale
libertà di creare lui vestendolo dei panni che più ci sembravano adatti,
ma anche il pieno libero arbitrio di negare la sua esistenza, magari
sostituendolo con altri dei. Perché, poi, nessuno riesce, se non con
grandi sforzi, a vivere senza avere di fronte a sé una figura, o un
obbiettivo superiore.
È difficile, insomma, sostenere che
l’affermazione di Citati sia giusta, o sbagliata. Più semplicemente mi
appare inutile, perché si arrotola su se stessa riportandoci al punto di
partenza senza offrirci nemmeno un punto di appoggio non solo per
risolvere l’irrisolvibile dubbio sull’esistenza di Dio, ma neppure per
avvicinarci a coloro che lo sentono in maniera diversa da noi. E questo
sarebbe importantissimo.
Perché chi crede in un Dio unico
corre un pericolo grandissimo in quanto inevitabilmente è indotto a
pensare che il suo regno debba essere attuato hic et nunc, qui e ora. Su
questa terra e, ovviamente, con il massimo rigore e con assoluta
purezza di leggi e riti. Qualsiasi rinvio nel tempo, o compromesso di
sostanza, sarebbero configurabili come un tradimento gravissimo: il più
alto tradimento possibile perché perpetrato ai danni dell’entità più
alta possibile. Ebbene, questa idea è quella che aleggia al di fuori
della locanda di Shamgorod durante la folle festa di Purim; e nessuna
idea è stata più pericolosa; nessuna ha portato a maggiori disastri
nella storia universale.
Tzvetan Todorov ha messo questo
concetto perfettamente a fuoco con una folgorante intuizione che ha
racchiuso in quella che, con splendida sintesi filosofica e semantica,
ha chiamato la “tentazione del bene”, cioè la certezza di possedere il
concetto di bene, di vederlo incarnato in noi, collegata con l’assoluta
determinazione di volerlo imporre agli altri, anche con la forza, anche a
costo di seminare violenza e morte. E purtroppo, paradossalmente, la
storia insegna che ha fatto molto più male, e su più larga scala, la
tentazione del bene che quella del male.
A questo punto non possiamo non
chiederci se in Dio può albergare la stessa cattiveria che vediamo
quotidianamente esplicarsi nel mondo che conosciamo, ma Jean-Jacques
Rousseau già nel Settecento ha risposto a questo quesito dicendo che «di
tutti gli attributi di una divinità onnipotente, la bontà è quello
senza il quale non la si potrebbe neppure concepire».
Ecco. Ricollegandomi proprio a
questo pensiero, vorrei rendervi partecipi di una riflessione legata a
una serie di domande che si agitano nella mia mente fin da quando ero
bambino e frequentavo il catechismo; perché nelle grandi religioni
monoteiste – anche se allora consideravo soltanto la mia – c’è qualcosa
che mi ha sempre infastidito: quello che non riesco a definire in
maniera diversa e più descrittiva de “il cipiglio del Signore”. E mi
chiedo: perché uno che mi crea deve poi guardarmi sempre con i
sopraccigli aggrottati? Perché deve passare una certa pur piccola parte
dell’eternità a scrutarmi, pronto a cogliermi in fallo e poi a punirmi?
Perché nessuno dei tanti e bravi artisti che hanno lavorato al sacro lo
ha mai immaginato e dipinto con gli angoli della labbra rivolti all’insù
e con gli occhi sorridenti? Perché nel mondo musulmano addirittura non
può essere raffigurato?
In una ricerca di qualche anno fa ho
letto che i riferimenti al riso di Dio contenuti nell’Antico Testamento
sono ventinove, ma che soltanto in due di questi casi si tratta di
situazioni davvero gioiose. Le altre ventisette sono, invece, momenti di
disprezzo, o di dileggio nei confronti di empi e peccatori. Del resto
solo un Dio serioso può spiegare bene certi eccessi ebraici, cristiani e
musulmani. Perché nulla come una risata può sgretolare qualsiasi
fondamentalismo.
Provate a pensare a un Dio
sorridente, come io lo sogno. Sorridente pur scrutando le difficoltà di
una vita terrena che per troppi è come un terribile percorso a ostacoli.
In questo Dio si può scorgere un sorriso di indulgenza davanti a chi
sbaglia, un sorriso di soddisfazione se qualcosa di buono viene
realizzato, un sorriso di incoraggiamento quando qualcuno si muove per
fare qualcosa che merita di essere fatto, un sorriso di dolcezza per chi
riesce a scambiare amore con un proprio simile, un sorriso di
solidarietà per chi vive lo strazio del dolore. Un sorriso che, se non
offende, ne fa sempre nascere un altro e che può contribuire in maniera
più efficace di un mare di parole a cambiare questo mondo dando corpo a
speranze realizzabili.
Se pensassimo a un Dio silenzioso e
che non sorride, sarei portato a pensare che la sua attenzione davanti
agli orrori di Shamgorod, a quelli di Auschwitz, sia tesa soltanto a
colpire – ma non in questo mondo – i colpevoli; e non ad avere pietà
delle vittime e a lenire il loro dolore. Un Dio capace di sorridere è
l’unico che ci può far uscire da una spirale discendente che porta a una
disperazione terrena, e al grave peccato della disperazione nella
salvezza eterna. Il Dio sorridente è l’unico che mi sembra possa essere
dietro una creazione che non sia priva di senso, che non lasci
annichiliti e disperati davanti alla non coincidenza tra peccato, colpa e
male. Armand Salacrou scrisse: «L’esistenza di una creazione senza Dio,
senza scopo, mi sembra meno assurda che la presenza d’un Dio perfetto,
che crea un uomo imperfetto per fargli correre i rischi di una punizione
infernale».
Un’obiezione – o più spesso
un’accusa – che sempre viene fatta davanti a questa visione del sacro è
quella che rischiamo di trovarci tra le mani un Dio di plastilina che
noi forgiamo e modelliamo a seconda dei nostri desideri. Può anche
essere, ma lavorando la plastilina noi operiamo sulla forma, non sulla
sostanza. Esattamente com’è accaduto con le sacre scritture che non
soltanto sono state scritte da mani umane, pur ufficialmente sotto
ispirazione divina, ma che in molti casi sono state scelte scartandone
altre con criteri nei quali l’uomo, con le sue limitatezze, ha pur
sempre avuto una grande parte.
Perché per chi, come me, è ricco più
di scetticismi che di certezze, i rapporti con Dio sono attraversati da
due tipi di dubbi. Il primo, più importante, riguarda proprio il
dilemma tra esistenza e non esistenza; il secondo, meno rilevante, ma
non meno capace di ingenerare incertezze, riguarda il sospetto che
almeno parte delle opere di devozione delle varie religioni, derivino
dalla fantasia di qualcuno a un certo punto della storia. Insomma: mi
piacerebbe fare qualcosa per ringraziare Dio; e anche per ingraziarmelo.
Ma chi mi assicura che questi riti non siano inutili orpelli come lo
furono i sacrifici di buoi, o di altri animali?
E allora due sono le soluzioni che
possono – anzi devono – convivere. La prima è essere convinti che nelle
devozioni non sia importante la forma, ma soltanto la sostanza, il
sentire. La seconda è individuare Dio nel prossimo. Se poi Dio esiste,
tanto meglio. Ma se non esiste, comunque si è fatto qualcosa di buono
per sollevare qualcuno, per far mediamente progredire l’umanità. Se poi
tutto questo possa bastare, in tutta sincerità non lo so.
Comunque, davanti al teorico
Silenzio di Dio possiamo renderci perfettamente conto di che strano
animale sia l’uomo. Pretende che gli sia concesso il libero arbitrio e,
nello stesso tempo, di essere difeso da Dio, facendo cancellare, in
pratica, il libero arbitrio agli altri. Se mi fosse concessa la scelta
tra libertà e tranquillità, non avrei dubbi: preferirei la libertà e la
responsabilità della scelta. Perché il limitare la malvagità altrui
dipende da noi tutti. Con le norme che ci siamo dati, ma soprattutto con
la buona volontà, perché onestà non è saper svicolare tra legge e legge
restando formalmente non condannabili; onestà è vivere seguendo la
convinzione che il bene proprio e quello altrui sono la meta alla quale
tendere. E da questo impegno nessuno può sentirsi escluso.
Anche in quest’ottica spesso
teorizziamo che divino e umano debbano essere tenuti separati. Eppure
proprio ragionando sul Golgota, su Shamgorod, su Auschwitz e su tutte le
altre cause di nostre possibili bestemmie, ci rendiamo conto che divino
e umano in certi momenti sono inevitabilmente vicinissimi e che
probabilmente si toccano molto più facilmente nel male che nel bene.
Perché è nel male che sentendo l’assenza di Dio, ne percepiamo
l’esistenza. O, almeno, la desideriamo. Avvertiamo la necessità di un
ente supremo proprio quando gli imputiamo la latitanza.
E, quindi, torniamo a Shamgorod.
Albert Camus ne L’uomo in rivolta, ha scritto che «l’uomo non è del
tutto colpevole, poiché non ha cominciato la storia; né del tutto
innocente, perché la continua». Ne consegue che Dio, che ha anche la
responsabilità di averla fatta cominciare, dovrebbe essere colpevole.
Ma, per capire meglio il nostro grado di colpevolezza e il dramma
scritto da Wiesel, non possiamo dimenticare che noi cristiani abbiamo
l’alibi dell’esistenza del demonio, mentre per gli ebrei il diavolo è
un’altra cosa. La religione ebraica professa l’assoluta unicità del
creatore, cui non si può contrapporre alcun altro potere maligno. Che il
male esista è un fatto che rientra nell’esperienza dell’uomo, che è
rappresentato nelle leggende e nelle credenze popolari, ma che non ha
importanza dogmatica.
Il demonio ebraico – e Shamgorod lo
dimostra bene – non possiede una propria forza. È capace di sedurre, di
sobillare, di spaventare, ma devono essere altri a far il male per conto
suo: devono essere gli umani ad agire.
E allora ci rendiamo conto che, in
realtà, Il processo di Shamgorod che vedremo adesso, non è soltanto il
processo a Dio, bensì un processo contro tutti noi.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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