sabato 30 maggio 2015

Lezioni di legalità

È verissimo: Renzi non accetta lezioni di legalità da nessuno. E, purtroppo, si vede.
La vicenda delle elezioni in Campania è quella destinata ad approfondire ulteriormente un vallo tra il cosiddetto centrosinistra di Renzi e tantissimi di coloro che hanno votato per le idee del centrosinistra – quello di una volta – per tanti anni. Perché questa volta, ancora una volta, non si tratta di scelte politiche legate a una visione del mondo (se Renzi ama gli industriali, o meglio Marchionne, e non i lavoratori, o se non sopporta i sindacati – tanto per dirne due – queste sono dimostrazioni che per lui il vocabolo “sinistra” è soltanto uno specchietto per le allodole), ma di scelte – diciamo così politiche – che continuano a demolire proprio il concetto di legalità e di democrazia continuando, ma con ben maggiore efficacia, sulla strada tracciata da Silvio Berlusconi.

Al pari di Berlusconi, infatti, Renzi vede la legalità, come una strada a due binari: uno senza possibili deviazioni riservato agli altri; un altro pieno di scambi da far scattare per gli amici e per coloro che conviene tenersi buoni in un determinato momento. La legge Severino è eccessivamente severa e ha dei concreti sospetti di anticostituzionalità? Può essere, ma in questo momento è legge e De Luca, anche se può portare voti a Renzi, continua a essere un cittadino come gli altri che le leggi devono continuare a rispettarle finché non riescono a convincere la maggioranza del Paese che è giusto cambiarle.

Sempre Renzi, poi, continua nell’opera di demolizione delle istituzioni e, quindi, anche della Costituzione. Dopo lo scempio che si profila con il combinato disposto della nuova legge elettorale e la progettata eliminazione del Senato, adesso vuole distruggere la credibilità dell’intera Commissione antimafia perché presidente è la Bindi che lui accusa di aver stilato la lista degli “impresentabili” non perché impresentabili davvero sono, ma soltanto per seguire una faida interna del PD. Immagino che Dell’Utri si stia ancora massaggiando le mani dopo i frenetici applausi per la tentata demolizione di un organismo istituzionale che ha portato un po’ di pulizia in questo disgraziato Paese.

E poi è Renzi e non Rosy Bindi a distruggere il gradimento nei confronti del PD di tantissimi del centrosinistra che non riescono più, pur con tutta la buona volontà, a turarsi il naso, e a provocarne la mutazione dell’elettorato causando il loro allontanamento e sollecitandone e accettandone la sostituzione con tanti che una volta votavano convintamente Berlusconi.

E non è neppure trascurabile il danno che ne esce lasciando in questo caso spazi di legalità a coloro – Lega, Forza Italia e anche 5 stelle – che in molti altri casi di quella stessa legalità si fanno un baffo, o addirittura incitano a non rispettarla, se va contro i loro interessi elettorali.

La annuente ministra delle Riforme Maria Elena Boschi ha detto che «le polemiche di questi giorni non aiutano a far sentire i cittadini più vicini alla politica e alla gestione del loro territorio». Non le passa per la testa che a far sentire i cittadini così non siano le polemiche di questi giorni, ma le scelte fatte dal suo capo qualche mese fa?

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lunedì 25 maggio 2015

Un colpo al pensiero unico

Della vittoria di Podemos nelle elezioni amministrative di Barcellona e Madrid sono ovviamente contento anche e soprattutto in proiezione verso le elezioni politiche spagnole di novembre che potrebbero far cambiare ulteriormente alcuni atteggiamenti europei, ma quello che più mi ha piacevolmente colpito è il commento del leader di Podemos, Pablo Iglesias, a spoglio concluso: «Il risultato delle elezioni di oggi segna l’inizio della fine del bipartitismo in Spagna» e «il cambiamento ora è irreversibile». 

Insomma, è un primo serio colpo non soltanto filosofico, ma concreto, al mito del bipartitismo che tanto affascina una grande parte della politica italiana e che finora ha posto soltanto le basi per distruggere quello che il tanto vituperato multipartitismo era riuscito a costruire prendendo un’Italia che era soltanto un cumulo di macerie belliche e trasformandola in pochissimi decenni non soltanto in uno dei Paesi industrialmente più potenti del mondo, ma anche, in contemporanea, in una delle nazioni socialmente più avanzate. Oggi, in entrambe le classifiche siamo scesi molto all’ingiù.

Se davvero il successo di Podemos mette in crisi il concetto di bipartitismo in Spagna, figuriamoci cosa potrebbe fare un simile successo in Italia contro il sogno renziano di quel “Partito Nazionale”, unico e potentissimo che nessuna nazione che abbia già avuto esperienze di dittatura – Spagna e Germania in testa – potrebbe mai accettare e che un governo che ha già scarsi concetti di democrazia, al di là della pura conta dei voti quando conviene, potrebbe rendere letale per la nostra democrazia, appunto.

Del resto, è sempre lo stesso Renzi a sognare un sindacato unico che dovrebbe arrivare al teorico scontro con il governo già sfibrato e annacquato dalle preventive trattative interne tra le sue varie anime. Il tutto, mentre Draghi, pensando soltanto ai bilanci delle aziende, delle banche e degli Stati, invita i Paesi europei a spingere sulla contrattazione aziendale privilegiandola rispetto a quella nazionale e, quindi, indebolendo tutti i lavoratori, anche quelli che tanto deboli ancora non erano. Davanti a simili posizioni non molti anni fa le strade e le piazze si sarebbero riempite quasi spontaneamente per la protesta: oggi si registrano posizioni intransigentemente negative di Camusso (Cgil), Landini (Fiom), Barbagallo (Uil), mentre Furlan (Cisl) resta sempre più defilata e nelle varie periferie i concetti di Renzi e Draghi sembrano non sollevare eccessiva indignazione.

Vorrei ribadire, pur molto grezzamente per ragioni di spazio, un vecchio concetto: il maggioritario va decisamente bene alla destra, dove l’arrivo di un capo che decide per tutti è considerata una benedizione; il proporzionale è il sistema di voto della sinistra in cui nessuno rinuncia in partenza a pensare, ma – salvo alcune deprecabili eccezioni – è poi disposto a collaborare per raggiungere obbiettivi comuni.

Costruire nuove realtà politiche restando attaccati ai vecchi capi che amano il decisionismo, o, al contrario, escludendo in partenza dialoghi sia pur difficilissimi, non può che rendere ancor più lisce le strade scelte da gente come Renzi e come Draghi.


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sabato 23 maggio 2015

Il rovesciamento della realtà

Sembra quasi che il principio del rovesciamento della realtà sia diventato, a tutti i livelli e in tutto il mondo, uno dei pilastri su cui si regge quella che ci ostiniamo a chiamare politica, senza neppure specificare che dell’etimologia originale rimane ormai ben poco.
Prendete, per esempio l’Unione Europea e il caso legato al ministro greco delle Finanze, Janis Varoufakis che, a un mese di distanza, ha rivelato che nel vertice di Riga nessuno lo aveva mai accusato di essere «dilettante, perditempo e giocatore d’azzardo» e che, come prova, può presentare una registrazione completa dell’intera seduta. Gli ha risposto lividamente il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbleom non confutando minimamente la smentita di Varoufakis, ma accusando il greco di aver registrato una seduta riservata il cui contenuto non può essere né registrato, né diffuso. Al di là della stranezza del fatto che Dijsselbleom non ritenga importante che qualcuno, tramite la stampa di mezzo mondo, abbia diffamato Varoufakis, e, quindi uno Stato membro, è interessante notare che lo stesso Dijsselbleom non si era minimamente sognato di dire che il contenuto di un vertice non poteva essere diffuso quando qualcun altro aveva diffuso false notizie sulla pretesa umiliazione di Varoufakis.

Per venire all’Italia, molto colpisce l’uscita del ministro dell’Economia Carlo Padoan che ha accusato la Corte costituzionale di non aver valutato il buco che si sarebbe prodotto nel bilancio dello Stato quando ha dichiarato illegittima la legge sul blocco della rivalutazione delle pensioni. Al di là del fatto che la Corte costituzionale è un organo dello Stato istituito appositamente per sorvegliare che non sia tradita la Costituzione e non per sorvegliare i pareggi di bilancio, e che una tale disinvoltura istituzionale da parte di un ministro spiega abbondantemente come il declino democratico di questo Paese appaia sempre più pronunciato, a Padoan non viene in testa che, accusando la Consulta, sta rovesciando la realtà? Non sarebbe stato il caso, invece, di accusare il governo Monti e i suoi ministri di non aver consultato attentamente la Carta fondamentale prima di adottare una legge che, in questa forma, ha degli evidenti riflessi di illegittimità e che avrebbe potuto ottenere gli stessi obbiettivi con una stesura diversa – legata non alla rivalutazione, ma alla fiscalità – che avrebbe, però, fatto dispiacere ai ceti più abbienti, quelli più vicini a quel governo? E che, comunque, la legittimità costituzionale dichiarata da una commissione parlamentare – e quindi politica e usa a obbedire ai capipartito – non è proprio una garanzia di obbiettività di giudizio costituzionale?

Ma, forse, è proprio un problema di comprensione di quello che si sta dicendo, perché altrimenti non si capirebbe come Renzi possa affermare che lui «non prende lezioni da nessuno sulla legalità», proprio durante un'iniziativa elettorale con il candidato alla Presidenza della Campania, Vincenzo De Luca, affermando poi, più tardi, in tv, che il Pd è pulito mentre sono sporche le liste che lo affiancano e sostengono. In pratica, che per lui basta non rubare per poter vivere tranquillamente a fianco di ladri, senza denunciarli.

E, infatti, sulla comprensione, finisce per ammettere: «Non capisco Cgil,Cisl e Uil. Spero che prima o poi si arrivi al sindacato unico». Renzi, infatti, preferirebbe anche un partito unico – lo chiama Nazionale – sempre a patto che alla guida di quel partito ci fosse ovviamente lui. La quasi totalità degli italiani, invece, di partiti unici non vuol più sentir parlare. Se almeno la maggior parte di loro decidesse di tornare a votare e di non astenersi più, allora probabilmente di Renzi avremmo soltanto un ricordo e il centrosinistra potrebbe ricostruire un partito che sia tale non soltanto di nome, ma anche di fatto.

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giovedì 14 maggio 2015

Ma dov'è Bruno Vespa?


Inutile negarlo: mentre davanti a una lavagnetta, con tanto di gesso in mano, cercava di spiegare che la sua riforma della scuola è bella – proprio come quella del lavoro e quella del sistema elettorale – eravamo un po’ distratti perché il nostro subconscio continuava a chiedersi: «Ma dov’è Bruno Vespa?». Sì, perché è stata soltanto l’assenza di Vespa e rendere apparentemente diversa l’esibizione pseudomediatica di Matteo Renzi da quelle inscenate dal suo padre spirituale Silvio Berlusconi quando firmava il “contratto con gli italiani”, oppure illustrava le magnifiche sorti e progressive che sarebbero arrivate con le “grandi opere”, o in altre occasioni ancora.

Leggermente diversa l’apparenza, ma praticamente uguale la sostanza: nessuna. Renzi continua ad approfittare con pragmatismo (o cinismo, a voi la scelta) della distrazione e della creduloneria degli italiani, nonché della talvolta sofferta acquiescenza dei deputati e senatori che continuano a credere che dentro il PD ci sia ancora il PD, per andare avanti sulla sua strada che non è mai quella di coloro che sono direttamente coinvolti nella vicenda in oggetto, eccezion fatta per gli imprenditori e i banchieri.


Bersani non me ne voglia, ma, pur con tutto il rispetto che nutro per lui, adesso dovrebbe rendersi conto che la sua “ditta” non esiste più. Lui ci ha lavorato dentro, a livello dirigenziale per decenni: capisco che è difficile accettarlo anche a livello psicologico, ma come fa a non accorgersi che l’azionariato della ditta è cambiato profondamente e che adesso non produce più cose per la massa della gente, ma soltanto per una ristretta elite. È come se dalla produzione di salumi fosse passata ai nidi di rondine.


Tanto che, a guardare i prodotti che escono dai suoi metaforici cancelli, ma anche i testimonial che fanno pubblicità (è la parola giusta) all’operato di Renzi, come la Boschi e le tante altre donne di governo che appaiono continuamente in televisione, viene nuovamente da chiedersi: «Ma dov’è Bruno Vespa?».

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venerdì 1 maggio 2015

Su due sedie

Almeno le prese in giro dovrebbero avere il buon gusto di risparmiarsele. A leggere l’intervista a Paola De Micheli, minoranza Pd di Area Riformista che ha votato la fiducia al governo sull’Italicum, non si sa se ridere, compatire, o arrabbiarsi. L’ineffabile deputata – casualmente anche sottosegretaria – dice: «I veri anticonformisti siamo noi. Giochiamo la partita più difficile, più scomoda. Vogliamo condizionare l’azione del governo, come fatto finora. E per farlo non bisogna essere obbligatoriamente renziani, o antirenziani». 

Cioè, per dirlo più in chiaro, per condizionare il governo non basta sedersi all’interno del governo stesso, ma bisogna anche evitare di contraddirlo in Parlamento. Con lo stesso ragionamento, Matteotti avrebbe fatto meglio a stare zitto e ad appoggiare Mussolini per condizionarlo, oppure Washington, Jefferson o Franklin avrebbero dovuto restare in sintonia con il governatore britannico piuttosto che dichiarare l’indipendenza americana. E potremmo andare avanti con altri tragici esempi di tutti i tempi e di tutte le nazioni. 

Ma al di là delle scempiaggini che ci fanno capire che, se questi sono gli esponenti della minoranza PD – ma fortunatamente non tutti sono così – per il PD non c’è davvero più futuro non soltanto a livello di sinistra, ma neppure di democrazia, varrebbe la pena che la deputata De Micheli riflettesse per un istante su una piccola realtà. Un po' meno di quaranta deputati PD con ancora intatto il senso della democrazia italiana e della dignità personale – come Gianna Malisani e Gianni Cuperlo della nostra regione e altri non di secondo piano, come Pierluigi Bersani, Rosy Bindi, Pippo Civati, Alfredo D’Attorre, Guglielmo Epifani, Stefano Fassina, Enrico Letta, Barbara Pollastrini e altri ancora – hanno rifiutato di avallare una legge sbagliata come quella imposta da Renzi; legge che, combinata con la riforma del Senato, fa correre terribili rischi democratici. Se non l’avessero fatto oggi la “eroica” Paola De Micheli non potrebbe vantarsi di essere un’illuminata che condiziona – Dio solo sa come – il governo: senza il contraltare dei coerenti di sinistra potrebbe soltanto stare in silenzio tra i pecoroni che quando votano fanno il contrario di quello che dicono.

Il dibattito tra chi vuol far tornare se stesso il PD dal di dentro e chi pensa sia meglio farlo dal di fuori non si è mai esaurito e continua con argomentazioni spesso opposte. Ma su una cosa tutti sono d’accordo: per opporsi al Renzi che ha svuotato il PD dei suoi valori è necessario non votare mai sì ai suoi diktat. Il sì può arrivare soltanto da chi si illude di poter sedere contemporaneamente su due sedie.
 
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