giovedì 19 novembre 2020

Orgoglio e rimorso

Normalmente si indica l’intelligenza come la caratteristica che distingue gli esseri umani dagli animali. Ma, al di là del fatto che certe forme di intelligenza esistono anche in diverse specie non umane, credo che siano altre, e di tipo emozionale, le caratteristiche che mettono in luce, senza ombre di dubbi, la differenza. Tra queste un posto di rilievo spetta all’orgoglio e al rimorso, sentimenti di cui negli animali non si trova traccia.

Ogni essere davvero intelligente, infatti, ha il suo orgoglio ed è in grado di misurarlo grazie alla propria capacità di conquistalo, mantenerlo e, se del caso, riconquistarlo. È l’orgoglio che rivela la fiducia nei propri mezzi e spinge il genere umano verso tutte le conquiste, materiali e intellettive. Questo – la storia lo ha sempre messo in rilievo – vale per tutti, anche per i prigionieri e per gli schiavi. E l’orgoglio, per quanto strano a prima vista possa apparire, è strettamente legato alla capacità di sviluppare il sentimento del rimorso, al saper ammettere, insomma, anche con se stessi, i propri errori, soprattutto quando sono causa di problemi e di danni agli altri.
In questi nostri tempi, sia l’orgoglio, sia il rimorso stanno attraversando un periodo di obnubilamento. Ma, se l’affievolirsi dell’orgoglio lascia perplessi, è l’evidente e progressivo sparire del rimorso a sconvolgere perché indica, oltre al dominio dell’indifferenza, un’evidente incapacità di collegare le proprie azioni con le conseguenze che ne derivano, rendendo drammatica la cesura tra noi e il resto del mondo, ma anche quella, che avviene in noi stessi, tra istinto e ragionamento, tra individualismo e appartenenza a una comunità.

È stato proprio il Covid a mettere in luce questa situazione che non può non ricordare quella frase di Hobbes, «Homo homini lupus», che eravamo stupidamente convinti si aver esorcizzato non in tutta la società, ma quasi. Invece non è così.

Abbiamo visto e stiamo ancora vedendo stuoli di persone che hanno negato e negano l’evidenza della pandemia, pur davanti a migliaia di morti, quasi che se sulla pelle non appaiono delle pustole, non si può credere a una malattia. Continuiamo a notare persone che girano senza mascherina, o con naso e bocca comunque scoperti, quasi a voler dimostrare una propria supposta invulnerabilità. Abbiamo sentito che in Svizzera il governo confederale ha deciso di estromettere dai reparti di terapia intensiva i troppo anziani e i troppo malati, con una minuziosa definizione di quei “troppo” che, oltre a essere opinabile, è sicuramente disumana. Abbiamo assistito attoniti a vere e proprie guerriglie urbane per ribadire un fantomatico “diritto all’aperitivo”. Stiamo vivendo giornate in cui da più parti si praticano fortissime pressioni per far togliere, o almeno diminuire, le proibizioni legate ai colori giallo, arancione e rosso, che non sono stabilite per sadico masochismo, ma perché è l’unico modo per riuscire a contenere una pandemia che, in questa seconda ondata, è diventata addirittura più veloce e virulenta che nella prima.

Ecco: quello di cui si nota la quasi totale assenza è proprio il rimorso. Eppure è incontrovertibile il fatto che i morti di questi giorni sono la grave conseguenza, forse inconsapevole, ma comunque frutto di colpevole leggerezza, di tutte le sciocchezze compiute in estate, quando molti si sono illusi che tutto fosse finito, mentre altri, per pura speculazione politica inneggiavano alla libertà – ma soltanto alla propria, non a quella di tutti – per aizzare gli animi contro coloro che dovevano, assolutamente dovevano, prendere provvedimenti restrittivi.

Oggi non si percepisce alcuna traccia di rimorso tra i politici sardi che hanno deciso scientemente di correre qualche rischio pur di non far chiudere le discoteche a ferragosto, né traccia di rimorso si scorge in Salvini che ha dato dei mentecatti a tutti coloro che, mettendosi la mascherina, non facevano i “virili” come lui, grande imitatore di quell’intelligentone di Trump. Non c’è traccia di rimorso nei presidenti di regione che stanno tentando di trattare sui 21 parametri utilizzati per definire il colore delle varie zone, e non per renderli più precisi, ma per ridurne la severità. Stiamo parlando ancora e sempre un numero imprecisato di vite umane da sacrificare sull’altare di una logica di mercato che ci ostiniamo a chiamare economia, ma che è totalmente avulsa da ogni forma di socialità e solidarietà. Fortunatamente è proprio tra coloro che sono costretti alla chiusura, o alla limitazione dell’attività lavorativa che si sentono le frasi più aderenti alla drammaticità del momento, che si rendono conto che molte morti sono state causate da semplici imprudenze.

È assurdo sentire che la scienza può dire quello che succede, ma poi è la politica a decidere se i dati certi vanno presi in considerazione, o meno. Sarebbe come affermare che per legge si può prendere in mano una sbarra di metallo rovente; se poi ci si scotta sono fatti di chi si scotta, non di chi gli permette di scottarsi, o addirittura incita a farlo.

Se vediamo che soltanto in Italia ogni giorno ormai muoiono oltre cinquecento persone, non possiamo far finta di non vedere, né possiamo non ripensare criticamente a se abbiamo fatto tutto il possibile per far rallentare il contagio, sia operando su noi stessi, sia sugli altri. Difficile? Certamente perché è necessario mettere in discussione le premesse del nostro modello di vita e di sviluppo, e considerare come criteri, il limite, l’uguaglianza, la giustizia sociale e la redistribuzione delle opportunità e delle risorse disponibili. Difficile, ma obbligatorio.

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