Come quasi tutte
le tragedie, anche quella di Genova ha finito per scavare solchi
profondi nella consapevolezza delle nostre coscienze. Il terribile
dolore per l’inconcepibile numero delle vittime e per le sofferenze dei
loro cari; l’assoluta incredulità per quello che è successo; l’indignato
sgomento per coloro che hanno dovuto vivere per decenni sotto
l’incombere di un’enormità di cemento, ferro e traffico e che ora sono
senza casa e con pochissimo della loro vita; il profondo disprezzo per
chi ha tenuto tanto d’occhio l’importanza dei dividendi da distribuire
tra gli azionisti da relegare in secondo piano le necessità della
sicurezza; l’irrefrenabile schifo per gli sciacalli che, prima ancora
che lo sgomento potesse cominciare a sedimentarsi, hanno tentato di
approfittare politicamente del dramma; la rancorosa incredulità che ci
sia ancora qualcuno che possa pensare di decantare i pregi delle
privatizzazioni.
Ma dalla tragedia esce anche
un’altra considerazione tutt’altro che secondaria e che, anzi, è forse
il problema maggiore, quello che sta alla base di tutti le altre
difficoltà che ci angustiano. Consiste nel fatto che, mentre abbiamo
sviluppato enormemente la capacità di accumulare informazioni e di
realizzare cose, non abbiamo sviluppato di pari passo quella di
ragionare; che, mentre abbiamo progredito a dismisura nella scienza e
nella tecnologia, non abbiamo migliorato per nulla, e anzi siamo
regrediti, nella capacità di prevedere dove ci porterà il futuro; che
crediamo ancora nelle “magnifiche sorti e progressive”, ma siamo
diventati talmente miopi da non riuscire a immaginare se davvero sono
“magnifiche” e, comunque, dove ci potrebbero condurre; che ascoltiamo,
leggiamo, impariamo e pensiamo talmente poco che siamo diventati
incapaci di coordinare i vari segnali e indizi che potrebbero far capire
su che strada ci si sta incamminando e a quali risultati si finirà per
arrivare. Meravigliosi o drammatici che siano. Comunque stravolgenti.
È anche in questo senso che il
disastro del ponte Morandi è emblematico, perché il crollo ancora una
volta ha travolto e trascinato con sé non la fiducia nella scienza, ma
quella nella capacità da parte di chi può decidere di ascoltare quello
che la scienza dice. È già successo da poco con la criminale e
drammatica vicenda dei vaccini diventata farsesca con la trovata di una
signora, evidentemente diventata ministro per caso, che ha voluto
prendere in giro tutti gli italiani – ma, senza accorgersene, anche se
stessa – coniando l’assurdo concetto di “obbligo flessibile”, o “obbligo
volontario”. È stato confermato adesso, quando è apparso evidente che i
rischi insiti in quella struttura erano già stati abbondantemente
segnalati e che addirittura si era più volte, ma sempre parzialmente,
tentato di tamponarli; senza contare che altrettanto spesso era stato
anche segnalato che dagli anni Sessanta a oggi il traffico si è
moltiplicato a dismisura, sia in termini di passaggi, sia di peso
complessivo, sia, quindi, di sollecitazioni che andavano a stressare
ulteriormente le strutture portanti del manufatto che già di per sé
apparivano minate da alcune carenze di base.
Se questo non seguire la strada
logica è accaduto – e accade continuamente – con la scienza e la
tecnologia, è evidente che con ancor meno discernimento si affrontano
argomenti meno solidi e certi, nei quali, almeno a prima vista, si pensa
che tutti possano dire tutto e il contrario di tutto. E così assistiamo
a cosiddetti uomini politici, che dovrebbero essere di primo piano, che
sproloquiano di azioni da intraprendere, ritenendosi giudici più che
governanti, senza aver neppure mai letto i contratti che quelle azioni
permettono, negano, o rendono obbligatorie. E lo fanno con l’unico
obbiettivo di cercar di lucrare qualche voto in più in un’inesausta
ricerca non di governare un Paese, ma di farsi governare da quella parte
di Paese che è maggiormente influenzabile dall’apparente assonanza dei
discorsi politici con le reazioni più immediate e viscerali davanti a
qualsiasi avvenimento.
Da sempre si dice che la qualità di
una democrazia dipende dalla qualità delle persone che vanno al voto, ma
appare sempre più importante un corollario fondamentale di cui una
volta non si parlava nemmeno, tanto appariva scontato: coloro che vanno
al voto non devono trovarsi davanti a una scelta impossibile. E oggi la
scelta appare quasi impraticabile perché appare limitata tra coloro che
del loro pressapochismo, dell’ignoranza e dell’inesperienza fanno un
vanto, quelli che si muovono sospinti da razzismi e aliofobie assortiti,
da odi e paure e dalla convinzione che vada ripristinata la legge del
più forte, e quelli che, se non sono temporaneamente ipnotizzati
dall’ego smisurato del capo del momento, preferiscono passare il loro
tempo a costruire ipotetiche e complesse partite a scacchi interne,
piuttosto che affrontare il mondo reale che li circonda e davanti al
quale non vanno oltre un tiepido balbettio nel timore di irritare
qualcuno.
Dopo il crollo del ponte Morandi, ci
vorrà un po’ di tempo, ma sicuramente si realizzerà una nuova opera che
lo sostituirà, almeno nelle funzioni. Speriamo che la stessa cosa
accada, che nasca qualcosa di nuovo e valido anche per rimediare al
crollo della politica italiana. In queste condizioni, infatti, la scelta
del meno peggio non può più bastare a mettere in pace la coscienza di
nessuno.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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