lunedì 20 giugno 2016

Non solo numeri

Se, dopo le elezioni, i numeri sono importanti per capire chi ha vinto e chi ha perso, le dichiarazioni del dopovoto sono fondamentali per valutare se il responso delle urne è stato utile a far comprendere ai perdenti il perché di quel risultato. Ebbene, a prima vista, sembra che a Renzi questa batosta non sia servita a nulla, né come segretario che dovrebbe guardare al fronte interno del PD, né come presidente del Consiglio che dovrebbe curarsi soprattutto del bene del Paese.

Cominciamo dai numeri. Sulla debacle di Roma c’è ben poco da dire e quella di Napoli si era già materializzata addirittura al primo turno. A Bologna vince un sindaco che renziano davvero non è e che comunque è stato costretto ad andare al ballottaggio in una città tradizionalmente di sinistra; il miracolo non è riuscito a Cosolini, sia perché Trieste tanto di sinistra non è, sia in quanto il sindaco uscente si è barcamenato tra renziani e antirenziani. Restano la vittoria di Milano, in cui Sala ce l’ha fatta soltanto perché Pisapia gli è rimasto sempre vicino a garantire che rappresentava anche la sinistra, e la sconfitta di Torino il cui risultato è il più utile per capire davvero la dinamica di queste amministrative. Fassino, infatti, ha perso pur essendo stato, a detta di tutti, un ottimo sindaco. Al ballottaggio ha ottenuto più o meno gli stessi voti del primo turno, mentre la Appendino ha sommato i voti grillini a quelli di destra. Voglia di far perdere il centrosinistra? Certamente sì, ma anche e soprattutto incapacità di far andare a votare i tantissimi elettori di sinistra che a Torino esistono ancora, ma che non riescono più a fare la croce sul simbolo di un partito che di sinistra più non è.

Davanti a tutto questo, cosa fa Renzi? Per prima cosa anticipa, come chiaro ulteriore segnale di guerra, la convocazione della direzione nazionale da lunedì 27 a venerdì 24, giorno in cui era già stata convocata l’assemblea delle forze della sinistra PD. Poi se ne esce con una frase molto chiarificatrice: «Non è mancata la sinistra, perché la sinistra non c’è. Non c’è stato, invece, lo sfondamento al centro», a significare che per lui non è importante quella parte di elettorato che ha sempre rappresentato l’anima del primo PD, ma quella nuova che gli ha assicurato l’elezione a segretario del partito, carica dalla quale gli è stato facile andare all’attacco e alla defenestrazione di Letta per arrivare dove da sempre voleva arrivare.

Ma anche altre dichiarazioni sono molto importanti per comprendere meglio quale persona ci troviamo davanti: «La sconfitta a Torino e Roma – dice – è senza attenuanti. Ma lo ripeto: non è un voto nazionale, bensì locale. Non cambio certo idea perché abbiamo perso e chiaramente non mi dimetto, né da Palazzo Chigi, né da segretario del Pd. La minoranza chiede il congresso? Si accomodino. Tanto ci vuole un po' di tempo e non si può fare prima del 2 ottobre».

Perché cita questa data? Semplice perché adesso ufficializza che vorrebbe anticipare il più possibile, per tutta una serie di motivi, la data del referendum che considera decisivo per il suo destino, che definisce «la partita con la P maiuscola», come se veramente la cosa più importante fosse il suo destino politico e non il futuro democratico dell’Italia. E, infatti, dicono che ai suoi fedeli abbia ribadito: «Se perdo il referendum, il congresso non mi tocca. Se vinco nessuno tocca me».

Il primo motivo dell’anticipo riguarda la decisione della Corte Costituzionale sul ricorso presentato dal tribunale di Messina che ha sollevato forti dubbi di costituzionalità contro la nuova legge elettorale, l’Italicum, che ha notevoli rassomiglianze, sia sul premio di maggioranza, sia sui troppi nominati, con il famigerato Porcellum, già dichiarato incostituzionale proprio su questi due punti. Ove la sentenza di incostituzionalità dovesse arrivare prima del referendum costituzionale, dal punto di vista di Renzi sarebbe un ulteriore forte indebolimento di una posizione già scarsa di capacità razionali in un confronto diretto con i sostenitori del no.

Il secondo motivo è strettamente collegato a quest’ultimo aspetto. Infatti per il sì la debolezza di argomentazioni che vadano al di là di quella che sostiene che sarebbe più facile governare, induce inevitabilmente ad accelerare il più possibile i tempi, anche tentando di ridurre al massimo le occasioni di informazione e di confronto sui temi della sciagurata riforma costituzionale e dell’ancor più sciagurato combinato disposto tra riforma costituzionale e nuova legge elettorale.

Non si sa cosa potrà fare ora Renzi per arginare la delusione di un partito che in buona parte finora aveva accettato il suo dilagante decisionismo perché lo considerava un vincente e che ora deve fare i conti con la doccia gelata di una sconfitta senza attenuanti. E dovrà anche stare attento a non perdere i tanti sostegni che aveva avuto dalla destra che è sempre alla ricerca dell’uomo forte e che adesso, dopo aver perduto Berlusconi, rischia di perdere anche Renzi.

Taluni dicono che, per recuperare la fronda interna, potrebbe accettare di cambiare l’Italicum, ma neppure quello può essere cambiato prima del 2 ottobre e inoltre, oltre a essere una confessione di debolezza, apparirebbe davvero troppo evidente che le regole che vuole fare e disfare non sono mai per il bene dell’Italia, ma, pur se in una visione veramente miope, per il bene suo.

Le prossime due o tre settimane saranno decisive per molti, anche tra le schiere dei renziani. Ci piacerebbe sapere, per esempio, se, dopo aver guardato le cose dalla parte del bene del Paese e non dalla parte del bene di Renzi, il ministro Franceschini direbbe ancora che votare NO al referendum costituzionale «è un vero atto contro il Paese», o se il deputato Coppola se la sentirebbe ancora di sostenere che «chi dice no è un irresponsabile».

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