Se, dopo le
elezioni, i numeri sono importanti per capire chi ha vinto e chi ha
perso, le dichiarazioni del dopovoto sono fondamentali per valutare se
il responso delle urne è stato utile a far comprendere ai perdenti il
perché di quel risultato. Ebbene, a prima vista, sembra che a Renzi
questa batosta non sia servita a nulla, né come segretario che dovrebbe
guardare al fronte interno del PD, né come presidente del Consiglio che
dovrebbe curarsi soprattutto del bene del Paese.
Cominciamo dai numeri. Sulla debacle
di Roma c’è ben poco da dire e quella di Napoli si era già
materializzata addirittura al primo turno. A Bologna vince un sindaco
che renziano davvero non è e che comunque è stato costretto ad andare al
ballottaggio in una città tradizionalmente di sinistra; il miracolo non
è riuscito a Cosolini, sia perché Trieste tanto di sinistra non è, sia
in quanto il sindaco uscente si è barcamenato tra renziani e
antirenziani. Restano la vittoria di Milano, in cui Sala ce l’ha fatta
soltanto perché Pisapia gli è rimasto sempre vicino a garantire che
rappresentava anche la sinistra, e la sconfitta di Torino il cui
risultato è il più utile per capire davvero la dinamica di queste
amministrative. Fassino, infatti, ha perso pur essendo stato, a detta di
tutti, un ottimo sindaco. Al ballottaggio ha ottenuto più o meno gli
stessi voti del primo turno, mentre la Appendino ha sommato i voti
grillini a quelli di destra. Voglia di far perdere il centrosinistra?
Certamente sì, ma anche e soprattutto incapacità di far andare a votare i
tantissimi elettori di sinistra che a Torino esistono ancora, ma che
non riescono più a fare la croce sul simbolo di un partito che di
sinistra più non è.
Davanti a tutto questo, cosa fa
Renzi? Per prima cosa anticipa, come chiaro ulteriore segnale di guerra,
la convocazione della direzione nazionale da lunedì 27 a venerdì 24,
giorno in cui era già stata convocata l’assemblea delle forze della
sinistra PD. Poi se ne esce con una frase molto chiarificatrice: «Non è
mancata la sinistra, perché la sinistra non c’è. Non c’è stato, invece,
lo sfondamento al centro», a significare che per lui non è importante
quella parte di elettorato che ha sempre rappresentato l’anima del primo
PD, ma quella nuova che gli ha assicurato l’elezione a segretario del
partito, carica dalla quale gli è stato facile andare all’attacco e alla
defenestrazione di Letta per arrivare dove da sempre voleva arrivare.
Ma anche altre dichiarazioni sono
molto importanti per comprendere meglio quale persona ci troviamo
davanti: «La sconfitta a Torino e Roma – dice – è senza attenuanti. Ma
lo ripeto: non è un voto nazionale, bensì locale. Non cambio certo idea
perché abbiamo perso e chiaramente non mi dimetto, né da Palazzo Chigi,
né da segretario del Pd. La minoranza chiede il congresso? Si
accomodino. Tanto ci vuole un po' di tempo e non si può fare prima del 2
ottobre».
Perché cita questa data? Semplice
perché adesso ufficializza che vorrebbe anticipare il più possibile, per
tutta una serie di motivi, la data del referendum che considera
decisivo per il suo destino, che definisce «la partita con la P
maiuscola», come se veramente la cosa più importante fosse il suo
destino politico e non il futuro democratico dell’Italia. E, infatti,
dicono che ai suoi fedeli abbia ribadito: «Se perdo il referendum, il
congresso non mi tocca. Se vinco nessuno tocca me».
Il primo motivo dell’anticipo
riguarda la decisione della Corte Costituzionale sul ricorso presentato
dal tribunale di Messina che ha sollevato forti dubbi di
costituzionalità contro la nuova legge elettorale, l’Italicum, che ha
notevoli rassomiglianze, sia sul premio di maggioranza, sia sui troppi
nominati, con il famigerato Porcellum, già dichiarato incostituzionale
proprio su questi due punti. Ove la sentenza di incostituzionalità
dovesse arrivare prima del referendum costituzionale, dal punto di vista
di Renzi sarebbe un ulteriore forte indebolimento di una posizione già
scarsa di capacità razionali in un confronto diretto con i sostenitori
del no.
Il secondo motivo è strettamente
collegato a quest’ultimo aspetto. Infatti per il sì la debolezza di
argomentazioni che vadano al di là di quella che sostiene che sarebbe
più facile governare, induce inevitabilmente ad accelerare il più
possibile i tempi, anche tentando di ridurre al massimo le occasioni di
informazione e di confronto sui temi della sciagurata riforma
costituzionale e dell’ancor più sciagurato combinato disposto tra
riforma costituzionale e nuova legge elettorale.
Non si sa cosa potrà fare ora Renzi
per arginare la delusione di un partito che in buona parte finora aveva
accettato il suo dilagante decisionismo perché lo considerava un
vincente e che ora deve fare i conti con la doccia gelata di una
sconfitta senza attenuanti. E dovrà anche stare attento a non perdere i
tanti sostegni che aveva avuto dalla destra che è sempre alla ricerca
dell’uomo forte e che adesso, dopo aver perduto Berlusconi, rischia di
perdere anche Renzi.
Taluni dicono che, per recuperare la
fronda interna, potrebbe accettare di cambiare l’Italicum, ma neppure
quello può essere cambiato prima del 2 ottobre e inoltre, oltre a essere
una confessione di debolezza, apparirebbe davvero troppo evidente che
le regole che vuole fare e disfare non sono mai per il bene dell’Italia,
ma, pur se in una visione veramente miope, per il bene suo.
Le prossime due o tre settimane
saranno decisive per molti, anche tra le schiere dei renziani. Ci
piacerebbe sapere, per esempio, se, dopo aver guardato le cose dalla
parte del bene del Paese e non dalla parte del bene di Renzi, il
ministro Franceschini direbbe ancora che votare NO al referendum
costituzionale «è un vero atto contro il Paese», o se il deputato
Coppola se la sentirebbe ancora di sostenere che «chi dice no è un
irresponsabile».
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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