Come sempre, il
linguaggio usato dalle persone è fortemente rivelatore della loro
personalità, del loro pensiero, dei loro progetti. «Noi non siamo
contenti», ha detto Renzi commentando i risultati del primo turno delle
amministrative. Può sembrare del tutto normale, anzi, apprezzabile; ma, a
starci attenti, ci si rende conto che per il presidente pro tempore del
Consiglio l’uso della prima persona plurale non è assolutamente
abituale. Normalmente dice: «Ho fatto…», «Ho voluto…», «Il mio
governo…». Questa volta, invece, le frasi sono sul tipo: «Non siamo
riusciti a farci capire…», «Non siamo soddisfatti…». Poi, per separare
ancor più nettamente il risultato negativo dalla propria persona,
annuncia che alla direzione del Pd, dopo i ballottaggi, proporrà il
commissariamento del Pd napoletano, quasi che fosse stato un partito
diverso dal suo a decidere che lo scandalo delle primarie andava
ignorato pur di far candidare la Valente, di strettissima osservanza
renziana.
In realtà Renzi ha ragione quando
afferma che le elezioni locali non devono avere ripercussioni sul
destino del governo nazionale, ma fa finta di dimenticare un particolare
che finora, invece, aveva sfruttato fino in fondo e cioè che lui, oltre
che essere presidente del Consiglio, è anche segretario politico del PD
e che il PD è riuscito a non far eleggere al primo turno nessun proprio
candidato sindaco nelle grandi città, neppure a Bologna; che a Napoli è
rimasto addirittura fuori dal ballottaggio, che a Roma è distanziato
fortemente dai 5 stelle e che se la destra si fosse presentata unita
nella capitale probabilmente Giachetti avrebbe già finito la sua corsa
al primo turno, che anche a Trieste il centrodestra è in forte
vantaggio, che i grillini minacciano il successo dem persino a Torino,
che a Milano inopinatamente la destra è riuscita praticamente a
pareggiare con un PD che ha scelto un candidato inequivocabilmente non
di centrosinistra.
Se, quindi, il Renzi presidente del
Consiglio potrebbe dormire sonni tranquilli, il Renzi segretario del PD
dovrebbe avere le notti popolate da incubi perché in altri tempi e in
partiti normali un simile risultato avrebbe portato – magari attendendo
le due settimane che ci separano dal ballottaggio – alla defenestrazione
di chi ha guidato il partito a un simile disastro.
Ma a impedire tutto questo ci sono
due cose. La prima è il fatto che di congresso si parlerà soltanto il
prossimo anno. La seconda è dovuta al paradosso esistente nello statuto
del PD laddove, all’articolo 3, comma 1, è scritto che «Il segretario
nazionale è proposto dal Partito come candidato all’incarico di
presidente del Consiglio dei ministri». Ne deriva che se Renzi dovesse
lasciare a qualcun altro la carica di segretario del Partito,
automaticamente sarebbe quest’ultimo ad avere diritto, secondo il PD, di
salire a palazzo Chigi.
È ben vero che lo statuto non
specifica se il cambio debba avvenire subito, o possa essere rimandato
nel tempo, magari lasciando al Presidente della Repubblica un potere che
ancora la Costituzione gli attribuisce, ma sarebbe difficile non
ricordare che quando Renzi è diventato segretario, pur dicendo «Stai
sereno», non ha lasciato né tempo, né spazi a Enrico Letta e gli ha
sfilato, con l’aiuto di Napolitano che ha dettato forse non troppo
costituzionalmente alcune sue condizioni, la poltrona di capo del
governo.
Non è che tutto questo possa essere
dimenticato soltanto usando per i verbi la prima persona plurale al
posto della prima persona singolare.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
Nessun commento:
Posta un commento