È curioso e drammatico vedere come la cosiddetta globalizzazione abbia accorciato e quasi annullato le distanze tra i capitali finanziari e allungato a dismisura quelle tra gli uomini. Una volta – non secoli, pochi decenni fa – succedeva esattamente il contrario.
Prendete quello che sta accadendo nell’Iran dove un regime dittatoriale che nasconde il proprio marciume e la propria crudeltà dietro supposte volontà divine sta facendo stragi dei suoi avversari politici, confinandone alcuni, arrestandone molti altri, soprattutto parenti di coloro che più teme e che più desidera poter ricattare, ammazzandone alcuni per strada durante la repressione delle manifestazioni, uccidendone di più in carcere e dichiarando tranquillamente che gli oppositori saranno messi a morte.
L’Iran è lontano, si dirà. Non è così: l’Iran è vicino come era vicino il Cile nei primi anni Settanta, come lo era l’Ungheria nel 1956, come lo era Praga nel 1968. Siamo noi a essere distanti. Siamo noi a non capire più che la democrazia, ma soprattutto la libertà, rischiano la morte dappertutto se in qualche posto può essere cancellata senza troppi problemi.
In altri tempi si scendeva in strada a protestare con la piena coscienza che ben difficilmente le proteste delle nostre città avrebbero potuto smuovere i dittatori – di destra o di sinistra che fossero – ma lo si faceva sia per salvaguardare la propria dignità umana, sia per fare pressione sui nostri governanti che, a loro volta, potevano sentirsi maggiormente pungolati a intervenire a livello internazionale nella sempre difficilissima difesa dei perseguitati.
Oggi c’è un diffuso e terribile silenzio che fa pensare che dell’Iran non importi nulla a nessuno. E, invece, dovrebbe interessare a tutti perché la libertà degli iraniani è la stessa libertà di ogni altri cittadino del mondo.
Sarebbe il caso di dimostrarlo con i fatti. Proviamo a ricordarci che scendere in piazza non è ridicolo: è doveroso.
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