martedì 31 gennaio 2017

La riscossa del meno peggio

Non è sempre vero che invertendo l’ordine dei fattori il prodotto non cambia. In matematica il concetto vale immancabilmente, ma in politica, per esempio, quasi mai. In questo campo, infatti, e segnatamente nella sinistra, si è passati dal concetto che era necessario vincere per rendere concreti i propri ideali, alla pratica di proclamare come obbiettivi gli ideali della presunta maggioranza, anche se non di sinistra, per riuscire a vincere.

Il risultato, assolutamente non sorprendente, è stato quello che moltissimi degli elettori di sinistra hanno preferito disertare le urne perché non trovavano più nulla di convincente per cui votare e, così, nel continuo diminuire di votanti, è stata proprio la sinistra a perdere maggiori punti percentuali, mentre la destra, pur non vedendo aumentare i propri suffragi, si è trovato con cifre percentuali decisamente migliori.

Se, però, finora la destra ha messo in campo vincitori più folkloristici che pericolosi (Berlusconi, per esempio, era decisamente più occupato a salvaguardare le proprie aziende e le proprie “serate eleganti” che a governare nella maniera in cui i suoi elettori si sarebbero aspettati), ora i pericoli populisti diventano più tangibili: Grillo o Salvini in Italia, Le Pen in Francia, Wilders in Olanda, Frauke Petry in Germania hanno concrete possibilità di raggiungere uno scranno di governo.

Ed è in quest’ottica che il successo di Trump, ma soprattutto le sue prime esecrabili azioni da Presidente degli Stati Uniti diventano importanti. Se da un lato, infatti, rianimano gli estremismi xenofobi, aliofoibi, e autoritari, dall’altro finiscono per sollecitare forme di resistenza civile di cui si era perduta quasi ogni traccia.

Ma c’è anche una terza possibilità: che coloro che non erano andati a votare ritenendo che l’ipotesi Trump esistesse soltanto nei libri di quart’ordine di fantapolitica, ora si pentano non di non aver fatto il possibile per elevare il livello della politica e, quindi, dei candidati, e che, temendo un altro successo di uno come Trump, si limitino a entrare nei seggi per scegliere il meno peggio.

Sono anni che la maggior parte dei cittadini – e non soltanto quelli italiani – stanno votando per il meno peggio, rassegnati che il meglio non sarà mai in campo. Ma il fatto che oggi, questo meglio, non lo si veda ancora all’orizzonte, non vuol dire che il suo arrivo sia impossibile. Sempre che siano di nuovo i cittadini a fare politica e a controllare che i loro voti – legge elettorale permettendo – vengano ben utilizzati da chi è stato eletto a rappresentarli.

A pensarla così probabilmente è ancora una minoranza, ma ogni minoranza sa che non riuscirà a vincere, ma potrà convincere. E, allora, sì che la vittoria sarà raggiungibile. L’esperienza del referendum costituzionale, in questo senso, è inequivocabile.

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mercoledì 25 gennaio 2017

Lo sberleffo della Consulta

La Corte costituzionale ha deciso: dell’Italicum resta in piedi il premio di maggioranza, mentre vengono cancellati il ballottaggio, i capolista bloccati e la possibilità di scelta nelle pluricandidature.

Non è soltanto la cancellazione della «legge elettorale che – così diceva con prosopopea Renzi – tutta l’Europa ci invidia e che in molti ci copieranno», ma quello della Consulta appare addirittura come uno sberleffo a Renzi, Boschi e compagnia perché la Corte concede loro soltanto il mantenimento del premio di maggioranza se una lista ottiene il 40 per cento nell’unico turno di voto, e l’ipotesi è talmente residuale da apparire come una presa in giro nei confronti di coloro che tra il 4 dicembre e oggi si sono visti sminuzzare e distruggere tutti i loro piani di cambiare l’Italia portandola a diventare – pur senza mai dirlo – una Repubblica presidenziale con tutti rischi che questo status – pensate agli Stati Uniti – comporta.

Inoltre – e non è certamente l’aspetto meno importante – la Consulta ha messo in rilievo che «all’esito della sentenza, la legge elettorale è suscettibile di immediata applicazione».

Ovviamente bisognerà attendere le motivazioni per capire meglio alcuni particolari, ma la sentenza è chiara. «La Corte – scrive una nota della Consulta - ha respinto le eccezioni di inammissibilità proposte dall’Avvocatura generale dello Stato. Ha inoltre ritenuto inammissibile la richiesta delle parti di sollevare di fronte a se stessa la questione sulla costituzionalità del procedimento di formazione della legge elettorale, ed è quindi passata all’esame delle singole questioni sollevate dai giudici».

Nel merito, continua la nota, la Corte «ha rigettato la questione di costituzionalità relativa alla previsione del premio di maggioranza al primo turno e ha invece accolto le questioni relative al turno di ballottaggio, dichiarando l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che lo prevedono». Inoltre, «ha accolto la questione relativa alla disposizione che consentiva al capolista eletto in più collegi di scegliere a sua discrezione il proprio collegio d’elezione. A seguito di questa dichiarazione di incostituzionalità, sopravvive comunque, allo stato, il criterio residuale del sorteggio». Infine, ha dichiarato «inammissibili o non fondate tutte le altre questioni».

Insomma, in soldoni, adesso ci si trova di fronte a un sistema proporzionale, con qualche forma di sbarramento, che può diventare maggioritario soltanto nel remotissimo caso che una lista superi il 40 per cento. Dico “lista” in quanto il testo dell’Italicum parla espressamente di liste ed esclude le coalizioni; e su questo aspetto non sembra che la Corte si sia espressa.

A questo punto, anche se «la legge elettorale è suscettibile di immediata applicazione», appare inevitabile che il Parlamento ci metta mano, sia perché ad alcuni il proporzionale proprio non va giù, sia in quanto le possibili e probabili disparità di risultato tra Senato e Camera (quantomeno per le diverse quote di sbarramento) sarebbero molto rilevanti e, quindi, in contrasto con i paletti fissati dal Presidente della Repubblica.

Anche altre sarebbero le considerazioni da fare, ma sono due quelle che balzano subito agli occhi. Oggi, per la Camera e per il Senato, ci sono due leggi elettorali entrambe codificate direttamente dalla corte Costituzionale che ha cancellato delle leggi furbesche e truffaldine votate dal Parlamento. L’attuale pronuncia della Consulta si è resa necessaria anche perché il governo Renzi non ha nemmeno preso in considerazione l’ipotesi che la volontà popolare fosse diversa da quella del capo e che, dunque, volesse mantenere in vita il Senato.

Due considerazioni che fanno un’evidenza: la riforma più importante per l’Italia sarebbe quella di veder eleggere finalmente persone in grado di saper legiferare e non soltanto di obbedire alle volontà del capo di turno, più incline a tentare di trasformare in legge i propri desideri che ad attenersi ai dettami della Costituzione.

E lo hanno ribadito anche i giudici costituzionali che hanno rimandato proprio al Parlamento il compito di creare procedimenti di costituzione delle leggi elettorali meno esposti al capriccio del teorico potente di turno.

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giovedì 12 gennaio 2017

Il vincolo di mandato

Si è molto parlato della doppia giravolta fatta da Grillo a Bruxelles, dapprima per lasciare gli antieuropeisti di Farange e passare agli ultraeuropeisti liberali di Verthofstadt e poi, respinto da questi ultimi perché la base si era ribellata all’idea di accogliere Grillo, per tornare a capo chino da Farange. Ma più che del fatto in sé, buffamente triste, o gli immediati commenti del comico genovese, buffamente esilaranti, merita analizzare quello che è accaduto dopo, visto che due eurodeputati grillini, un po’ schifati dalle prodezze del capo, hanno deciso di diventare ex e hanno aderito, uno al gruppo di Matteo Salvini e Marine Le Pen, l’altro a quello dei Verdi. A prescindere dal giudizio sulle loro scelte e da quanto queste loro decisioni abbiano rivelato della composita anima – se così si può dire – e delle innegabili venature di destra di quel movimento, il punto importante consiste nel fatto che a entrambi Grillo ora chiede, in base al regolamento interno del movimento firmato prima delle elezioni, di versare alle casse del movimento stesso 250 mila euro a testa come penale.

Lasciamo pur perdere quanto possa essere valido quel pezzo di carta – lo deciderà, eventualmente, qualche tribunale – ma molto più importante è annotare che la pretesa di Grillo va palesemente contro l’articolo 67 della Costituzione che recita: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato».

Ovviamente l’articolo si riferisce esplicitamente a Camera e Senato, anche perché il Parlamento europeo nel 1948 era ancora molto di là da venire, però non sembra possibile che nella stessa nazione ci possano essere due applicazioni diametralmente opposte per un medesimo concetto.

Ma è sullo stesso articolo 67 che merita soffermarsi perché, a causa della trasmigrazione continua di deputati e senatori da un partito all’altro – nella maggior parte dei casi a seconda del tornaconto personale – si è cominciato a dire sempre più frequentemente che bisognerebbe introdurre proprio il vincolo di mandato.

E allora, per capire perché l’articolo 67 va difeso nella sua forma attuale, tornano utili proprio le figure di Grillo e di Renzi – ma anche quelle di Berlusconi e di Salvini – che sono dimostrazioni emblematiche di come si sia passati dal concetto di partito inteso come raggruppamento di persone che hanno un orientamento politico e sociale simile, a quello di partito che assomiglia sempre di più a un comitato elettorale nel quale è fondamentale il nome del capo i cui cambiamenti di umore, o di strategia, diventano tendenzialmente obbligatori per tutti gli iscritti e gli eletti.

Proviamo a domandarci se sia giusto che un parlamentare 5stelle eletto con l’idea di lavorare contro l’euro e anche contro l’Europa unita, non possa sentirsi tradito quando Grillo decide di portare tutto il suo movimento nel raggruppamento probabilmente più europeista di tutti.

E proviamo a domandarci anche se sia giusto che un parlamentare PD eletto secondo il programma elettorale di Bersani debba stare in silenzio e obbedire a un presidente del Consiglio e segretario di partito che ha cambiato totalmente programma abbandonando totalmente molte idee di sinistra e abbracciando, invece, tante idee di destra.

In definitiva, cancellando l’articolo 67 forse si riuscirebbe a limitare la detestabile trasmigrazione di deputati e senatori presi individualmente, ma si stabilirebbe che interi partiti potrebbero spostarsi in blocco sullo scacchiere politico a seconda delle volontà del capo. Sicuramente in ossequio ai voleri del leader del momento in quel partito, ma in totale dispregio del voto espresso dagli elettori che magari – proprio come nel caso del PD – avevano scelto di votare così perché convinti da un programma poi completamente cancellato.

E non vale tirare in campo il fatto che, per esempio, in Germania i rappresentanti del Bundesrat, il Senato delle autonomie tedesco, votano con vincolo di mandato, perché il caso è profondamente diverso: loro non sono eletti dal popolo, ma sono nominati direttamente dai governi di ogni Land ed esprimono il loro voto non seguendo le indicazioni del proprio partito, bensì del governo della terra da cui provengono e, così, in realtà, sono dei portavoce importanti per portare avanti le diverse esigenze territoriali.

In Italia il problema assumerebbe contorni profondamente diversi e solleverebbe terribili problemi di democraticità in quanto si stabilirebbe il diritto di tante piccole dittature, una all’interno di ogni partito e svanirebbe definitivamente ogni residuo di quel concetto di rappresentatività che, come ha già sottolineato la Corte Costituzionale, dovrebbe essere alla base di ogni legge elettorale non incostituzionale.

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mercoledì 11 gennaio 2017

I referendum e la politica

Una certa delusione è innegabile, ma le regole sono regole e se si vuole scavallarle puntando a ottenere in un colpo solo più di quello che era lecito chiedere, allora è inevitabile che si finisca per restare con un po' di amaro in bocca.

La Corte Costituzionale, infatti, ha considerato legittimi i referendum abrogativi in materia di lavoro richiesti, con tre milioni e 300 mila firme, dalla Cgil, riguardo alle parti del cosiddetto Jobs Act sui voucher e il lavoro accessorio, nonché sulle limitazioni introdotte sulla responsabilità solidale in materia di appalti, mentre ha deciso di rigettare quello che riguardava le modifiche all'articolo 18 sui licenziamenti illegittimi.

Quest’ultimo era sicuramente il fulcro politico dell’iniziativa, ma il quesito proposto non si limitava a puntare a tornare alla situazione quo ante rispetto alla riforma voluta da Renzi, ma voleva ampliare la «tutela reintegratoria nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo», estendendola a tutte le aziende con oltre cinque dipendenti, contro il tetto dei 15 dipendenti del vecchio articolo 18. Si trattava, insomma, quasi di un referendum propositivo per creare una nuova legge di iniziativa popolare. Praticamente scontato e non politico, quindi, il giudizio della Corte.

E questa è una considerazione davvero importante, anche ragionando su quanto è avvenuto il 4 dicembre, giorno in cui la volontà dei cittadini si è imposta in maniera netta su quella della politica, non perché il concetto di democrazia rappresentativa abbia perso di validità, ma in quanto ormai, grazie anche a leggi elettorali incostituzionali, il mondo del Parlamento ha contatti davvero troppo tenui con i cittadini italiani.
 

Il punto principale, insomma, se non si vorrà continuare a essere chiamati alle urne sempre più spesso per contrastare e abolire leggi malfatte, consiste nel fatto che il rapporto tra elettori ed eletti deve tornare a essere quello a cui pensavano i nostri padri costituenti: diretto, trasparente e rispettoso. Tre qualità di cui oggi si ha quasi soltanto il ricordo.

E, allora, se è obbligatorio che chi viene eletto ricordi sempre che deve rendere conto del proprio operato a chi lo ha eletto, è altrettanto necessario che chi va alle urne si renda conto che il momento del voto non è un “sine cura”, ma, anzi, è importantissimo e fondamentale per fissare il grado di democraticità e di efficienza del nostro sistema istituzionale.

Per chiarire ancora meglio questo concetto, merita ricordare alcune delle parole pronunciate da Barack Obama ieri sera, a Chicago, nel suo ultimo discorso pubblico da Presidente degli Stati Uniti: «La nostra democrazia è minacciata quando la consideriamo garantita. Quando stiamo seduti a criticare chi è stato eletto, e non ci chiediamo che ruolo abbiamo avuto nel lasciarlo eleggere. Il più importante incarico in una democrazia è il vostro; è il mestiere del cittadino. Non solo quando ci sono le elezioni, non solo quando i vostri interessi sono in gioco». «E se siete stanchi di discutere con degli estranei su Internet – ha poi aggiunto – provate a incontrarne qualcuno in carne e ossa. Candidatevi per un incarico pubblico. Mettetevi in gioco, scendete in campo».

In quest'ottica, tornando alla parte del Jobs Act che ha abolito l’articolo 18, anche dopo la pronuncia della Corte Costituzionale continua a essere inaccettabile e continua a massacrare alcuni di quelli che sono considerati diritti fondamentali. Ma è ora di rendersi conto che piuttosto che continuare a rivolgersi all’istituto del referendum per emendare una politica inadeguata, molto meglio sarebbe operare perché la politica diventi adeguata. Se questo avverrà, le garanzie che erano contenute nell’articolo 18 torneranno sicuramente a esistere.

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