mercoledì 29 aprile 2009

La palude del consenso

L’intervento di Alexandre (a proposito, sarebbe bello che tutti si presentassero con nome e cognome) non può rimanere senza risposta in quanto, se mi fa piacere perché sottolinea che il nostro sito è seguito anche in Francia, mi spaventa per alcune cose che vi sono espresse.
Mi fermo soltanto per un istante sul paragone tra Alemanno che viene festeggiato con il saluto fascista da coloro che fino a poco prima hanno frequentato i medesimi circoli politici e un personaggio che casualmente si trova nel medesimo stadio in cui alcuni fascisti danno vita alle loro gazzarre. Un istante, per dire che è del tutto risibile.
E non mi dilungo neppure sulle presupponenti affermazioni che accusano Delanoe di opportunismo politico a seconda della platea davanti alla quale si trova; che sostengono che gli antifascisti e antinazisti sono diventati tali soltanto a vittoria conseguita, mentre i veri resistenti poi sono rimasti in silenzio; che rivelano «la Nazione francese ha saputo riunire le due parti» (non mi risulta, ma ove anche in Francia fosse successo, in Italia non è certamente avvenuto).
Molto più degne di attenzione sono le ultime frasi.
«La scelta di uno, oggi, sarà forse sbagliata domani e vice-versa» è un’espressione fa davvero rabbrividire perché sembra nascondere l’idea che non ci siano differenze etiche tra le varie posizioni. Forse Alexandre non si riferisce ai valori, ma ai risultati nelle elezioni, dimenticando che non sempre chi vince nelle urne è anche chi è nel giusto. Hitler, per esempio, andò al potere grazie a una consultazione elettorale, non con una marcia su Berlino, come aveva fatto, su Roma, Mussolini, il suo esempio da imitare. E poi nelle democrazie chi perde ha il diritto di continuare a lottare perché siano i suoi valori a prevalere, mentre le dittature stanno molto attente a che questo non succeda bloccando la circolazione del pensiero con la corruzione, l’intimidazione, o la forza.
E Alexandre conclude: «È ora di ritrovarvi tutti come nell’inno di Mameli: fratelli d’Italia». Personalmente sento molto il concetto di fratellanza, ma nei confronti di tutti gli esseri umani e non soltanto degli italiani. E, comunque, essere fratelli significa amare il prossimo e preoccuparsene; non vuol dire avere un’idea unica, né rinunciare alla propria se gli altri sono di più.
Anzi, il problema – dobbiamo avere il coraggio e l’umiltà di dirlo – è proprio il fatto che per anni abbiamo buttato via, almeno per una certa parte, i nostri valori: lo hanno fatto i comunisti, i socialisti, i cattolici, i liberali; lo hanno fatto persino i fascisti; perché anche loro avevano dei valori, anche se per me non sono condivisibili. Li abbiamo buttati via illudendoci che senza valori ci saremmo potuti avvicinare l’uno all’altro in una sorta di fatale attrazione in un posto paludoso, indistinto e ritenuto vincente che molti, per comodità, chiamano “centro”, ma che non è più il rispettabilissimo centro politico di una volta. E abbiamo tentato di avvicinarci facendo ressa, cercando di attrarre simpatie, imitando gli altri quando questi stavano vincendo, truccandoci e travisando il nostro volto, perché era più importante catturare simpatie e voti che compiere azioni degne. Ma in definitiva non siamo riusciti ad attrarre nessuno perché il vuoto, dopo un primo senso di disorientante vertigine, non attrae mai nessuno, ma, anzi, dà un senso di repulsione.
E il risultato è che c’è stata sempre meno gente che si è avvicinata alla politica e alla partecipazione al vivere sociale. E contemporaneamente non ci siamo sentiti più vicini agli avversari di una volta perché siamo rimasti completamente estranei. E abbiamo perduto molti amici perché senza valori di riferimento non li riconoscevamo più, né loro riconoscevano noi. E insieme abbiamo perso anche il rispetto di noi stessi.
E soltanto quando abbiamo percepito questo vuoto, quando abbiamo sentito il rodere del rimorso provocato dal nostro peccato di omissione, abbiamo cominciato a riprendere quota, a tornare a pieno titolo umani, a ritenere nuovamente che la nostra vita privata e pubblica non possano esistere senza etica, che la politica non possa esistere senza etica, che il lavoro non possa esistere senza  etica, che l’economia non possa esistere senza  etica, che la finanza, così com’è, non possa esistere e basta.
La democrazia deve essere fatta di etica e dibattito, non di spettacolo e consenso. Non voglio tranciare giudizi su cos'è accaduto in Francia, ma in Italia a lungo non è stato certamente così.

venerdì 24 aprile 2009

La Resistenza non è di tutti

Il sindaco di Parigi, Bertrand Delanoé, afferma in pubblico che gli sarà molto difficile avere rapporti cordiali con il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, perché non può sentirsi in alcun modo vicino a chi ha accettato che la sua elezione e altre sue apparizioni fossero festeggiate da molti con il saluto fascista. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ribadisce che è intollerabile che taluni denigrino e offendano la lotta partigiana che è stata fondamentale per la liberazione dell’Italia dal nazifascismo e molti giornali danno ampio rilievo a questa frase, mentre altri la ignorano, o la affogano tra le miriadi di notizie che riempiono un quotidiano.
Come sempre ci si avvicina al 25 aprile pensando, sessant’anni dopo, di non doverne più parlare. E, invece, ci si rende conto che parlarne ancora non è assolutamente demodé: anzi, ricordarne origini e significato è un dovere e partecipare alle manifestazioni in suo onore è un obbligo di testimonianza.
Perché il 25 aprile, la giornata che celebra la Resistenza non è una festa di tutti. È nata ricordando una profonda divisione tra gli italiani – da una parte fascisti e nazisti e dall’altra coloro che volevano libertà e democrazia – ed esiste per ricordare questa contrapposizione che non è assolutamente da vituperare, né da dimenticare, ma, anzi, è da tenere ben cara perché, fin quando il ricordo di questa contrapposizione vivrà, vorrà dire che esistono ancor vitali anticorpi contro la perdita della democrazia.
Curioso ma non divertente, poi, che il valore della Resistenza sia riscoperto soltanto oggi da coloro che, nella mitologia politica attuale, pensano di essere ormai riusciti a convincere la maggior parte degli italiani che i fascisti non esistono più mentre i comunisti esistono ancora.
Il fatto è che la Resistenza non è di tutti. Anche se sono tanti quelli che hanno tentato e tentano di mescolare le carte puntando a mettere sullo stesso piano coloro che al fascismo si sono opposti e quelli che il fascismo hanno sostenuto. Un’operazione inammissibile e non perché i primi abbiano vinto la guerra e i secondi l’abbiano perduta, ma perché il fascismo è stato le leggi razziali, le spedizioni di aggressione coloniale, l’ingresso in guerra a fianco dell’orrore nazista, l’uccisione di Matteotti, dei fratelli Rosselli, di Amendola e di tanti dissidenti, l’invio al confino – e non in vacanza – di molti che si opponevano perché si rifiutavano di smettere di pensare; è stato la soppressione della libertà di stampa, l’eliminazione della maggior parte dei diritti civili, la dissuasione violenta nei confronti del libero pensiero.
Perché il fascismo è stata la negazione dell’umanità mentre la Resistenza, di quella stessa umanità, è stata la più alta affermazione laica.
La Resistenza non è soltanto di chi l’ha combattuta, ma anche di chi ha saputo farne tesoro, tra cui anche, con buona pace di chi quotidianamente dice il contrario, i comunisti italiani che subito dopo aver finito di combattere, si sono messi assieme a popolari cristiani, socialisti e liberali a edificare concordemente quella Costituzione che ancora oggi è una delle più avanzate del mondo e che è riuscita a creare una mirabile architettura di pesi e contrappesi che qualcuno oggi vorrebbe disequilibrare nel nome di quella cosiddetta “governabilità” che in realtà significa soltanto riduzione dei controlli.
Il 25 aprile serve per ringraziare coloro che per la nostra libertà hanno sacrificato la gioventù e spesso la vita. Anche i comunisti, ma non i fascisti. Serve per guardare al frutto della Resistenza che si estrinseca nella nostra Costituzione. Serve per ricordare chi ha difeso questa Costituzione e i suoi valori; chi ha saputo trasformare quel drammatico modo di vivere e combattere in pacifica pratica quotidiana difendendo la libertà, la democrazia, il lavoro, l’uguaglianza, la dignità, la solidarietà; battendosi per i diritti umani di tutti e non soltanto di determinati, pur vastissimi, gruppi razziali, religiosi o economici; ripudiando la guerra.
La Resistenza non è e non sarà mai di chi a questi valori – anche a uno soltanto di questi valori – si oppone. Di chi può avere le sue idee, ma non può pretendere di impadronirsi anche degli ideali altrui.
La scorsa settimana, parlando con Loris Mazzetti al Festival dell’inchiesta di Pordenone, ho detto che il partigiano Enzo Biagi sui monti dell’Appennino emiliano ha compreso l’enorme valore del “diritto di resistenza” e ne ha fatto tesoro tanto da elaborarlo in “dovere di resistenza” in ogni giornata della sua vita personale e professionale. Il 25 aprile non può appartenere contemporaneamente a Enzo Biagi e a chi lo ha fatto cacciare dalla Rai con un editto dalla Bulgaria.

mercoledì 22 aprile 2009

Il silenzio come arma politica

Un paio delle reazioni ai miei commenti su alcune frasi pronunciate da Berlusconi sul terremoto d’Abruzzo mi inducono ad approfondire un tema già toccato ragionando sui diversi atteggiamenti dei sindacati davanti alla situazione attuale di crisi.
Nelle parole di Silvano Romanese e di Francesco Manzella, infatti, trovo quello che si potrebbe definire un “elogio del silenzio” che non mi sento assolutamente di condividere.
Silvano Romanese, nel suo primo intervento chiede di «non fare politica» e sottolinea che avrei fatto «meglio a starmene zitto». Francesco Manzella, invece, condivide il mio commento, ma soltanto se questo è limitato «ad un’analisi della vita ordinaria».
Fermo restando che ognuno ha diritto alle proprie opinioni, provo a specificare perché, secondo me, elogiare il silenzio non soltanto è sbagliato, ma è addirittura dannoso.
Davanti ad avvenimenti di questo tipo, infatti, il silenzio può corrispondere a due posizioni.
Stare zitti, se si pensa che le frasi siano condivisibili, è un’accettazione di quanto è stato detto e ha, quindi, una valenza politica uguale, anche se contraria, alla critica.
Stare zitti, se si pensa che le frasi non siano condivisibili,manifesta un’indifferenza grave. Se, infatti, adottando il linguaggio del cristianesimo, i protagonisti delle azioni possono essere colpevoli del peccato di opere, gli indifferenti si macchiano scientemente di quello di omissione.
Quando nel Confiteor si dice «...perché ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni» sono convinto che l’ordine delle parole – come in tutti testi della Chiesa – non sia stato messo lì a casaccio, ma che chi lo ha scritto abbia realizzato scientemente un ordine crescente di gravità. L’omissione, il restare inerti, il far finta di non vedere, è probabilmente la colpa più grave, perché è sicuramente un atteggiamento non istintivo, ma deliberato, perché è il trionfo dell’egoismo sul bene generale, della pigrizia sul dovere. Perché si possono permettere danni incommensurabili per piccini desideri di tranquillità.
Per quanto riguarda poi la differenza tra vita “ordinaria” e vita “straordinaria”, non riesco proprio a percepirla dal punto di vista di un comune cittadino che ogni giorno deve confrontarsi con le notizie di disgrazie – naturali o meno – e che dovrebbe quotidianamente porsi l’obbiettivo di fare in modo che queste disgrazie siano evitate, o almeno che le loro conseguenze vengano ridotte.
Ancor meno mi pare accettabile il silenzio da parte della stampa e della magistratura, il cui compito, nelle democrazie, è proprio quello di fare da guardia al rispetto delle regole, di essere garanzia per i cittadini davanti a un potere che spesso ritiene di avere il diritto di essere non giudicabile e che estende la propria non giudicabilità anche al passato.
Il fatto è che la lode a coloro che sono intervenuti per soccorrere, l’indagine su quello che poteva difendere i cittadini e non è stato fatto e il disaccordo davanti a proponimenti chiaramente impossibili da realizzare possono coesistere benissimo.
Il «lasciateci lavorare e ci giudicherete a fine mandato» è la negazione della democrazia che non esiste soltanto al momento del voto, ma vive quotidianamente nel confronto tra le diverse posizioni. Il «dobbiamo fare e non discutere» è ottusità, oppure voglia di scavalcare i controlli, se non si riescono a ridurre le regole. E credo che nell’Italia di questi anni sia la seconda ipotesi quella giusta.

martedì 21 aprile 2009

Il silenzio come arma politica

Un paio delle reazioni ai miei commenti su alcune frasi pronunciate da Berlusconi sul terremoto d’Abruzzo mi inducono ad approfondire un tema già toccato ragionando sui diversi atteggiamenti dei sindacati davanti alla situazione attuale di crisi.
Nelle parole di Silvano Romanese e di Francesco Manzella, infatti, trovo quello che si potrebbe definire un “elogio del silenzio” che non mi sento assolutamente di condividere.
Silvano Romanese, nel suo primo intervento chiede di «non fare politica» e sottolinea che avrei fatto «meglio a starmene zitto». Francesco Manzella, invece, condivide il mio commento, ma soltanto se questo è limitato «ad un’analisi della vita ordinaria».
Fermo restando che ognuno ha diritto alle proprie opinioni, provo a specificare perché, secondo me, elogiare il silenzio non soltanto è sbagliato, ma è addirittura dannoso.
Davanti ad avvenimenti di questo tipo, infatti, il silenzio può corrispondere a due posizioni.
Stare zitti, se si pensa che le frasi siano condivisibili, è un’accettazione di quanto è stato detto e ha, quindi, una valenza politica uguale, anche se contraria, alla critica.
Stare zitti, se si pensa che le frasi non siano condivisibili,manifesta un’indifferenza grave. Se, infatti, adottando il linguaggio del cristianesimo, i protagonisti delle azioni possono essere colpevoli del peccato di opere, gli indifferenti si macchiano scientemente di quello di omissione.
Quando nel Confiteor si dice «...perché ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni» sono convinto che l’ordine delle parole – come in tutti testi della Chiesa – non sia stato messo lì a casaccio, ma che chi lo ha scritto abbia realizzato scientemente un ordine crescente di gravità. L’omissione, il restare inerti, il far finta di non vedere, è probabilmente la colpa più grave, perché è sicuramente un atteggiamento non istintivo, ma deliberato, perché è il trionfo dell’egoismo sul bene generale, della pigrizia sul dovere. Perché si possono permettere danni incommensurabili per piccini desideri di tranquillità.
Per quanto riguarda poi la differenza tra vita “ordinaria” e vita “straordinaria”, non riesco proprio a percepirla dal punto di vista di un comune cittadino che ogni giorno deve confrontarsi con le notizie di disgrazie – naturali o meno – e che dovrebbe quotidianamente porsi l’obbiettivo di fare in modo che queste disgrazie siano evitate, o almeno che le loro conseguenze vengano ridotte.
Ancor meno mi pare accettabile il silenzio da parte della stampa e della magistratura, il cui compito, nelle democrazie, è proprio quello di fare da guardia al rispetto delle regole, di essere garanzia per i cittadini davanti a un potere che spesso ritiene di avere il diritto di essere non giudicabile e che estende la propria non giudicabilità anche al passato.
Il fatto è che la lode a coloro che sono intervenuti per soccorrere, l’indagine su quello che poteva difendere i cittadini e non è stato fatto e il disaccordo davanti a proponimenti chiaramente impossibili da realizzare possono coesistere benissimo.
Il «lasciateci lavorare e ci giudicherete a fine mandato» è la negazione della democrazia che non esiste soltanto al momento del voto, ma vive quotidianamente nel confronto tra le diverse posizioni. Il «dobbiamo fare e non discutere» è ottusità, oppure voglia di scavalcare i controlli, se non si riescono a ridurre le regole. E credo che nell’Italia di questi anni sia la seconda ipotesi quella giusta.

venerdì 17 aprile 2009

Sisma, miracoli ed Europa

Chi ha vissuto in prima persona un terremoto come quello che ha colpito il Friuli nel 1976, non può non sentire dei brividi nell’ascoltare alcune dichiarazioni di chi ha in mano le leve per decidere tipo, modalità e tempi degli interventi.
Già fa rabbrividire sentir Berlusconi dire che «in confronto all’entità del sisma le vittime sono state poche». Se 295 morti sono pochi per un terremoto che internazionalmente è considerato di entità moderata e che ha sprigionato un’energia di quasi trenta volte inferiore a quello del Friuli, allora vuol dire che, o alla vita si dà poco peso, o che per alcuni il concetto di prevenzione in un Paese tra i più sismici al mondo non soltanto è lontano, ma addirittura inesistente.
Ma ancor più sbigottiti si resta davanti alle dichiarazioni successive: «Il governo non intende costruire baraccopoli e men che meno lasciare aperte le tendopoli», concetto rafforzato sempre dal presidente del consiglio sottolineando che «l’obbiettivo primario del governo è che entro la fine dell’estate ci sia la possibilità di chiudere tutte le tendopoli». Laddove per fine dell’estate bisogna intendere agosto (meno di cinque mesi da oggi) visto che a L’Aquila già a settembre il termometro di notte scende al di sotto dello zero.
Davanti a frasi così, i casi sono due.
Nel primo si è portati a pensare a deliri di onnipotenza miracolistica, come la potestà di procrastinare sine die la durata dell’estate (ma come ambizione anche per lui mi sembra eccessiva), o quella di riuscire a ricostruire (o ristrutturare rinforzando) in meno di cinque mesi abitazioni che non siano baracche per oltre sessantamila persone senza casa.
L’esperienza friulana insegna – e lo sottolinea anche il presidente della giunta regionale Tondo che politicamente è in posizioni molto lontane dalle mie – che senza baracche solide e dignitose il Friuli non sarebbe uscito così dalle sue disgrazie.
Nel secondo caso, invece, non a delirio di onnipotenza si deve pensare, ma a semplice e cinico calcolo elettorale: promettiamo pure qualunque cosa, anche la più incredibile, prima delle consultazioni europee e amministrative. Poi si tenterà di non far ricordare le promesse non mantenute anche perché non mantenibili, ma se qualcuno dovesse insistere, pazienza: a elezioni già effettuate non sarà poi tanto importante.
Un’ipotesi malevola dettata da lontananza politica? Può anche essere, ma questa ipotesi non mi sembra assolutamente campata per aria se ricordiamo che lo stesso Berlusconi ha ammesso che, pur di non accorpare il referendum alle elezioni per non far cadere il proprio governo davanti al ricatto leghista, ha accettato di spendere in altra maniera 460 milioni di euro che potevano essere destinati ai terremotati.
L’auspicio che arriva da tutto il Friuli – che l’esperienza di inverni da terremotati l’ha già passata – è che intanto, al di là della propaganda a parole, almeno qualcuno pensi seriamente a realizzare le tanto vituperate “baracche” capaci di riparare dalle intemperie e di assicurare a chi vi abita temporaneamente la necessaria dignità.

Sisma, miracoli ed Europa

Chi ha vissuto in prima persona un terremoto come quello che ha colpito il Friuli nel 1976, non può non sentire dei brividi nell’ascoltare alcune dichiarazioni di chi ha in mano le leve per decidere tipo, modalità e tempi degli interventi.
Già fa rabbrividire sentir Berlusconi dire che «in confronto all’entità del sisma le vittime sono state poche». Se 295 morti sono pochi per un terremoto che internazionalmente è considerato di entità moderata e che ha sprigionato un’energia di quasi trenta volte inferiore a quello del Friuli, allora vuol dire che, o alla vita si dà poco peso, o che per alcuni il concetto di prevenzione in un Paese tra i più sismici al mondo non soltanto è lontano, ma addirittura inesistente.
Ma ancor più sbigottiti si resta davanti alle dichiarazioni successive: «Il governo non intende costruire baraccopoli e men che meno lasciare aperte le tendopoli», concetto rafforzato sempre dal presidente del consiglio sottolineando che «l’obbiettivo primario del governo è che entro la fine dell’estate ci sia la possibilità di chiudere tutte le tendopoli». Laddove per fine dell’estate bisogna intendere agosto (meno di cinque mesi da oggi) visto che a L’Aquila già a settembre il termometro di notte scende al di sotto dello zero.
Davanti a frasi così, i casi sono due.
Nel primo si è portati a pensare a deliri di onnipotenza miracolistica, come la potestà di procrastinare sine die la durata dell’estate (ma come ambizione anche per lui mi sembra eccessiva), o quella di riuscire a ricostruire (o ristrutturare rinforzando) in meno di cinque mesi abitazioni che non siano baracche per oltre sessantamila persone senza casa.
L’esperienza friulana insegna – e lo sottolinea anche il presidente della giunta regionale Tondo che politicamente è in posizioni molto lontane dalle mie – che senza baracche solide e dignitose il Friuli non sarebbe uscito così dalle sue disgrazie.
Nel secondo caso, invece, non a delirio di onnipotenza si deve pensare, ma a semplice e cinico calcolo elettorale: promettiamo pure qualunque cosa, anche la più incredibile, prima delle consultazioni europee e amministrative. Poi si tenterà di non far ricordare le promesse non mantenute anche perché non mantenibili, ma se qualcuno dovesse insistere, pazienza: a elezioni già effettuate non sarà poi tanto importante.
Un’ipotesi malevola dettata da lontananza politica? Può anche essere, ma questa ipotesi non mi sembra assolutamente campata per aria se ricordiamo che lo stesso Berlusconi ha ammesso che, pur di non accorpare il referendum alle elezioni per non far cadere il proprio governo davanti al ricatto leghista, ha accettato di spendere in altra maniera 460 milioni di euro che potevano essere destinati ai terremotati.
L’auspicio che arriva da tutto il Friuli – che l’esperienza di inverni da terremotati l’ha già passata – è che intanto, al di là della propaganda a parole, almeno qualcuno pensi seriamente a realizzare le tanto vituperate “baracche” capaci di riparare dalle intemperie e di assicurare a chi vi abita temporaneamente la necessaria dignità.

martedì 7 aprile 2009

La politica e il sindacato

Tra le tante cose strane che si sono sentite sulla manifestazione romana della Cgil, una mi ha colpito particolarmente: che – hanno accusato i politici del centrodestra e il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni – la manifestazione non è stata sindacale, bensì politica.
Una volta, con una politica che si reggeva su un sistema elettorale proporzionale, questa accusa poteva anche reggere perché tante erano le sfumature di pensiero che una presa di posizione netta faceva impressione. Oggi, con il maggioritario, tutto è cambiato: o sei di qua, o sei di là. Non esiste più una posizione mediana. E, allora: perché si parla di manifestazione sindacale politica? E perché non si parla di inerzia sindacale politica? Di acquiescenza sindacale politica? Di pace sindacale politica? Perché deve essere interpretata politicamente soltanto la lotta e non il silenzio?
Il fatto è che accettare questa logica di identificare tutto e il contrario di tutto con un atteggiamento politico, nel senso di schieramento partitico, vorrebbe dire realizzare un ingabbiamento che immobilizzerebbe e ucciderebbe il sindacato impedendogli qualsiasi presa di posizione.
Invece da questa logica devono assolutamente sfuggire i concetti di solidarietà e di libertà che sono sempre stati alla base del sindacalismo e che, nei decenni, hanno permesso di migliorare di molto le condizioni di vita dei lavoratori.
E spuntata mi appare anche l’accusa rivolta alla Cgil di appiattirsi sulle posizioni del centrosinistra e di osteggiare le idee del centrodestra. Accade esattamente il contrario: è il sindacato ad avere una propria concezione sulla difesa e la progressiva emancipazione – perché in tanti casi ancora di emancipazione si tratta – e sono i partiti politici ad accettare o a rifiutare questa posizione. Se al centrosinistra sembra più logico essere vicino all’idea della Cgil di preoccuparsi per chi sta peggio e non arriva a fine mese, mentre per il centrodestra questo è secondario rispetto alla sofferenza delle aziende, il problema non è della Cgil, bensì dei politici.
Che poi le accuse alla Cgil arrivino non soltanto da ministri, sottosegretari, senatori e deputati del centrodestra, ma anche da Bonnani, questo è un fatto che lascia l’amaro in bocca e che ci fa chiedere come mai Bonanni ritenga di non essere lui stesso a prendere posizioni politiche.
Inoltre il richiamare i lavoratori a esprimere tutti insieme le proprie posizioni – diciamolo pure, politiche – ha anche un grande valore sociale perché, in un’epoca i cittadini non possono più nemmeno esprimere le preferenze su chi dovrebbe rappresentarli in Parlamento, permette la sopravvivenza di una delle pochissime agorà democratiche ancora esistenti nella sostanza.
Ed è una cosa talmente importante che – per dare un segno tangibile dell’utilità che le attribuisco – ho intenzione di chiedere un secondo tesseramento sindacale: oltre all’iscrizione alla Federazione nazionale della stampa, se mi sarà concesso, vorrei essere iscritto anche alla Cgil.

sabato 4 aprile 2009

"La politica e il sindacato"

Tra le tante cose strane che si sono sentite sulla manifestazione romana della Cgil, una mi ha colpito particolarmente: che – hanno accusato i politici del centrodestra e il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni – la manifestazione non è stata sindacale, bensì politica.
Una volta, con una politica che si reggeva su un sistema elettorale proporzionale, questa accusa poteva anche reggere perché tante erano le sfumature di pensiero che una presa di posizione netta faceva impressione. Oggi, con il maggioritario, tutto è cambiato: o sei di qua, o sei di là. Non esiste più una posizione mediana. E, allora: perché si parla di manifestazione sindacale politica? E perché non si parla di inerzia sindacale politica? Di acquiescenza sindacale politica? Di pace sindacale politica? Perché deve essere interpretata politicamente soltanto la lotta e non il silenzio?
Il fatto è che accettare questa logica di identificare tutto e il contrario di tutto con un atteggiamento politico, nel senso di schieramento partitico, vorrebbe dire realizzare un ingabbiamento che immobilizzerebbe e ucciderebbe il sindacato impedendogli qualsiasi presa di posizione.
Invece da questa logica devono assolutamente sfuggire i concetti di solidarietà e di libertà che sono sempre stati alla base del sindacalismo e che, nei decenni, hanno permesso di migliorare di molto le condizioni di vita dei lavoratori.
E spuntata mi appare anche l’accusa rivolta alla Cgil di appiattirsi sulle posizioni del centrosinistra e di osteggiare le idee del centrodestra. Accade esattamente il contrario: è il sindacato ad avere una propria concezione sulla difesa e la progressiva emancipazione – perché in tanti casi ancora di emancipazione si tratta – e sono i partiti politici ad accettare o a rifiutare questa posizione. Se al centrosinistra sembra più logico essere vicino all’idea della Cgil di preoccuparsi per chi sta peggio e non arriva a fine mese, mentre per il centrodestra questo è secondario rispetto alla sofferenza delle aziende, il problema non è della Cgil, bensì dei politici.
Che poi le accuse alla Cgil arrivino non soltanto da ministri, sottosegretari, senatori e deputati del centrodestra, ma anche da Bonnani, questo è un fatto che lascia l’amaro in bocca e che ci fa chiedere come mai Bonanni ritenga di non essere lui stesso a prendere posizioni politiche.
Inoltre il richiamare i lavoratori a esprimere tutti insieme le proprie posizioni – diciamolo pure, politiche – ha anche un grande valore sociale perché, in un’epoca i cittadini non possono più nemmeno esprimere le preferenze su chi dovrebbe rappresentarli in Parlamento, permette la sopravvivenza di una delle pochissime agorà democratiche ancora esistenti nella sostanza.
Ed è una cosa talmente importante che – per dare un segno tangibile dell’utilità che le attribuisco – ho intenzione di chiedere un secondo tesseramento sindacale: oltre all’iscrizione alla Federazione nazionale della stampa, se mi sarà concesso, vorrei essere iscritto anche alla Cgil.