Polibio, nelle sue “Storie”,
ha scritto: «Coloro che sanno vincere sono molto più numerosi di quelli
che sanno fare buon uso della loro vittoria». Davanti a questa antica
massima ci si rende conto che da quei lontani tempi ben poco è cambiato,
se non, forse, per la percentuale di coloro che pensano di usare
un’eventuale vittoria per il bene comune e non per quello proprio. E –
lo stiamo vedendo costantemente – anche in campo politico davanti allo
scopo primario della vittoria, tutto il resto, ideali e valori compresi,
passa in secondo piano, se non viene visto addirittura come un
fastidioso intralcio.
Io non so se le mie idee siano
vincenti, ma sono sinceramente convinto che siano giuste e sono
sicuramente pronto a impegnarmi per tentare di far prevalere le mie idee
e i miei valori, mentre non sono assolutamente disponibile a darmi da
fare per aiutare a vincere qualcuno che poi non si sa cosa farà
dell’eventuale vittoria, anche e soprattutto perché non ha sposato con
decisione, né idee, né valori, ma si è barcamenato alla ricerca di
intercettare, tramite l’analisi dei sondaggi, l’umore e i voti degli
elettori.
Un esempio eclatante – e
paradossalmente benefico per capire in che clima stiamo vivendo – ci è
giunto in questo senso da Lampedusa, l’isola simbolo dell’accoglienza ai
migranti, protagonista del docufilm “Fuocammare”, vincitore dell’Orso d’oro a Berlino, e che era stata proposta con i suoi abitanti a premio Nobel per la pace.
Ebbene, nel passaggio di consegne
tra la prima cittadina Giusi Nicolini e il suo successore Totò Martello,
la tendenza si è totalmente invertita, tanto che l’attuale sindaco
chiede la chiusura del centro di accoglienza e punta il dito contro i
migranti che accusa di «minacce, molestie, furti». A lui risponde la
Nicolini accusandolo di terrorismo psicologico e rilevando che
«basterebbe controllare il numero delle denunce presentate ai
carabinieri: a me risulta solo un furto da un negozio di frutta e
verdura; inoltre l’isola è piena di turisti e non mi pare che ci siano
state molestie da parte di tunisini».
Un botta e risposta non
particolarmente commendevole, ma la cosa potrebbe anche rientrare
nell’inevitabile animosità tra due personaggi che sono stati avversari
nell’ultima campagna elettorale (Giusi Nicolini aveva preso il posto di
Totò Martello dopo due suoi mandati e quest’anno aveva rifiutato di
farsi da parte per lasciargli di nuovo il comune). Quello che più
impressiona, invece, è l’assordante silenzio del PD; perché entrambi
appartengono al partito di cui Matteo Renzi è segretario: Martello,
candidato ufficiale del partito alle comunali, e Nicolini, che oggi fa
parte della segreteria nazionale del Pd.
Un silenzio assordante, ma non
sorprendente, visto che, tra i tanti esempi, già nello stesso partito
convivono nel silenzio, dopo uno scoppiettio iniziale, le posizioni del
ministro Graziano Delrio che ha definito «un atto di paura» il forse
temporaneo ritiro del suo partito davanti alle difficoltà per far
passare al Senato la legge sullo “ius soli” e quelle di Matteo Orfini
che accusa Delrio di strumentalizzare (per cosa, poi?) l’alt imposto da
Alfano e dai suoi alle legge. Come dal professionale silenzio del
partito sono state assorbite le vibrate critiche sempre di Delrio contro
il decreto Minniti sul codice per le Ong.
Difficile pensare a casi di naturale
amnesia. Molto più comprensibile collocare queste ormai silenziate
contraddizioni in un solco di comportamento che punta a raccattare voti
sia a destra, sia a sinistra presentandosi, a seconda delle occasioni,
come paladini di una delle due parti e, a seconda dei casi, presentando a
riprova una delle due posizioni in contrapposizione. Del resto Matteo
Renzi da sempre ha proclamato di fare cose di sinistra, anche se poi si è
alleato con schegge della destra riuscendo anche a far passare
provvedimenti che la destra, da sola, non era mai riuscita a far
approvare.
Forse, per non restare vittime di
queste volute ambiguità, che non esistono soltanto nel PD renziano, ma
dominano anche nel movimento di Grillo, oltre che nel centrodestra
berlusconiano, sarebbe il caso di invertire quello che è diventato un
automatico iter democratico in cui l’importante è l’offerta dei partiti
alla quale aderire, o meno. Oggi sarebbe più giusto dare importanza alla
domanda esplicita di gruppi di elettori; non chiedendo poi ai partiti
di aderirvi indiscriminatamente come già stanno facendo di fronte ai
sondaggi, a prescindere da cosa questi indichino, ma pretendendo che, di
fronte a prese di posizione non solo contraddittorie, ma spesso
diametralmente opposte, ne sia scelta una sola e in maniera chiara.
Altrimenti non di democrazia si tratta, ma di puro e semplice mercato al
ribasso.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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