Le borse di
mezzo mondo vanno in crisi; in America si risente parlare con forza di
impeachment per il presidente Donald Trump e gli stessi repubblicani
pensano a tutti i sistemi legali possibili per farlo uscire a forza
dalla Casa Bianca e fare spazio a un presidente meno imbarazzante. E
“imbarazzante” è addirittura un termine inadeguato per descrivere ciò
che ha fatto soltanto in questi ultimi dieci giorni.
Riassumendo brevemente: sull’onda
del Russiagate che lo insidia fin da prima dell’insediamento, il 9
maggio Trump decide di licenziare in tronco il direttore dell’FBI James
Comey, sgradito perché non segue il suo consiglio di lasciar cadere le
indagini sui rapporti con la Russia, in genere, e soprattutto quelle su
Michael Flynn, consigliere del presidente. Il giorno dopo vuole farsi
bello con un ministro di Putin in visita alla Casa Bianca e, per
dimostrare il suo potere, gli rivela alcune cose che possono mettere in
crisi servizi segreti alleati e alcuni agenti infiltrati che rischiano
la vita. I suoi collaboratori si affrettano a smentire la notizia
diffusa dal Washington Post, ma lui smentisce le smentite e rivendica
non solo di averlo fatto, ma di avere il diritto di fare quello che
vuole. Le conseguenze sono pesantissime a livello internazionale perché
non si sa quali servizi segreti avranno ancora voglia di collaborare con
quelli statunitensi, se i loro segreti vengono messi in piazza, ma
anche a livello interno in quanto sempre più spesso viene ventilata la
possibilità di sottoporre a impeachment il presidente per “ostruzione
della giustizia”, la medesima accusa che portò Nixon alle dimissioni
prima che l'impeachment fosse deciso.
Tutti stanno analizzando e
stigmatizzando il comportamento di Trump ritenendolo indegno di lavorare
nello studio ovale, ma il vero problema non è Trump: il vero problema è
il fatto che quest’uomo è stato eletto democraticamente da un popolo
che è tra quelli che maggiormente possono accedere alle informazioni
necessarie per decidere. Ed è in questo senso che quello che sta
accadendo a Washington deve interessare tutto il mondo perché rischia di
mettere terribilmente in crisi il concetto stesso di democrazia
rappresentativa per far tornare in primo piano assurdi sogni di una
democrazia diretta che spera di risolvere con domande e risposte
semplici e spesso irriflesse problemi di complessità estrema; oppure per
far vagheggiare incubi di aristocrazie, oligarchie, dittature.
A noi italiani già la cosa dovrebbe
interessare più che ad altri perché qui siamo riusciti a far diventare
presidente del Consiglio un signore come Berlusconi che, quanto a
pasticci, gaffe, incriminazioni e decisioni personalissime e
cervellotiche, può essere considerato l’apripista di questi nuovi
pseudo–protagonisti della politica internazionale. Ma ancor più deve
interessarci perché proprio in questo periodo stiamo correndo un grosso
rischio di affossare la nostra democrazia.
Sarebbe assurdo pensare di averla
salvata con il pur importantissimo voto del 4 dicembre: è stata
conservata la lettera della Costituzione, ma servirebbe ancor di più
recuperarne lo spirito. E poi colui che ha tentato di distruggere la
nostra Carta fondamentale è ancora in circolazione e sta tentando di
riprendersi tutto il potere che in realtà non si è mai sognato di
abbandonare.
In questo quadro, francamente sconfortante, sono almeno due le cose che è urgente fare.
La prima, la più immediata, è quella
di impegnarsi a vigilare e a lavorare perché sia realizzata una legge
elettorale degna di questo nome, che magari non sia chiamata con un
termine in latino maccheronico che dimostra, tra l’altro, la mancanza di
fantasia dei nostri parlamentari e la rassegnazione a seguire quelle
che si ritengono essere le mode, ma che, soprattutto, oltre a non essere
soggetta a venir ancora una volta cancellata dalla Corte
Costituzionale, rispetti il principio di rappresentatività e permetta ai
cittadini di scegliere davvero i propri delegati al Parlamento. E,
invece, appare chiaro che Renzi e i capi di tutti gli altri schieramenti
hanno in testa soltanto tre obbiettivi: fare la legge che sul momento
sembri maggiormente favorire il proprio partito, curare molto di più la
cosiddetta governabilità che la rappresentanza, e, comunque, assicurare
l’elezione ai più fedeli, togliendo gran parte delle possibilità di
scelta ai cittadini.
In più sembra evidente che si stanno
sforzando di far rientrare dalla finestra ciò che è stato calciato a
calci dalla porta, cioè l’abolizione del Senato. In questo caso non
sparirebbe, ma, grazie al fatto che stanno tentando di fare leggi
uguali, e non soltanto armoniche, per i due rami del Parlamento,
diventerebbe praticamente inutile in quanto ricalcherebbe perfettamente
la stessa composizione della Camera e i due rami del Parlamento non
avrebbero più quelle funzioni di reciproco controllo che sono state fin
qui molto utili in tantissime circostanze. Dicono che in altri Paesi
tutto questo non esiste. Ma pensare alla Camera dei Lord che blocca
almeno temporaneamente la Camera dei Comuni sulla Brexit; pensate agli
Stati Uniti dove spessissimo uno dei due rami del Parlamento ha bloccato
le iniziative dell’altro se non, addirittura, quelle del presidente,
anche se era incommensurabilmente più serio di Trump.
La seconda questione, più lunga e
più difficile, consiste nella ricostruzione dei partiti politici che si
sono trasformati – praticamente tutti – in semplici comitati elettorali
al servizio di un leader che non guida, ma comanda; comitati nei quali è
richiesta obbedienza cieca, faccia di bronzo nelle dichiarazioni
pubbliche per non spiegare cosa in realtà stia succedendo, e totale
rinuncia a qualsiasi velleità di discussione reale perché tutto deve
essere veloce ed efficiente, mentre la coscienza – lo sappiamo tutti – è
qualcosa che richiede dubbi, tempo, macerazioni e scontri. Ma è anche
quel patrimonio che permette di capire quanto di quello che è proposto
da qualcun altro è accettabile, se non addirittura buono, e, quindi, è
l’unico sistema per arrivare a quelle mediazioni che non devono essere
vituperabili inciuci, bensì traguardi nei quali ognuno accetta le buone
idee dell’altro con il comune obbiettivo del bene generale.
Utopie? Non credo. Ma, se non si
comincia a lavorare, quegli obbiettivi si allontaneranno sempre di più. E
non dobbiamo mai dimenticare che spessissimo la storia umana ha
dimostrato che l’utopia non è un luogo che non esiste, ma soltanto un
luogo che non è stato ancora raggiunto.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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