È morto Tzvetan Todorov, grande filosofo bulgaro naturalizzato francese, che nel 2002 è stato vincitore del premio Nonino “A un maestro del nostro tempo”. Nato
nel 1939 a Sofia, in Bulgaria, si è trasferito nel 1963 a Parigi dove
cinque anni dopo è diventato direttore del centro nazionale francese
della ricerca scientifica. Una delle sue opere più famose è stata “La
paura dei barbari”, in cui ha teorizzato in forte anticipo il rischio
della deriva violenta dell’Europa in cui, a causa del clima di paura e
tensione perenni, il rapporto con l’altro può diventare sempre più
difficile. Con la sua scelta, la giuria del premio Nonino, allora
presieduta da Claudio Magris, aveva confermato che il premio di Percoto
non voleva essere soltanto un pur importante premio letterario, ma
intendeva confermare la sua profonda spinta nel sociale, andando a
cercare personaggi che hanno contribuito con il loro pensiero, ancor
prima che con la loro penna, al progredire della società.
Spesso le opere di Todorov avevano
sollevato polemiche, come quella, fortissima, sviluppatasi attorno a “La
conquista dell’America”, splendido saggio dell’82 rispetto al quale i
più appuntarono la propria attenzione sul titolo, trascurando, invece,
il sottotitolo che esponeva molto più chiaramente il vero argomento del
trattato: “Il problema dell’“altro””. Appunto perché in realtà non di
una storia della scoperta e della conquista dell’America si trattava,
bensì proprio di una «storia della scoperta che l’io fa dell’altro». La
scelta sull’America immediatamente postcolombiana come luogo e periodo
nei quali collocare il lavoro intellettuale per affrontare il vero
nocciolo del problema era stata determinata dal fatto che proprio in
quegli anni e su quegli scenari si verificò, come dice Todorov stesso,
«l’incontro più straordinario della storia occidentale», quello con
«l’altro assoluto», con il diverso per eccellenza, quello che potrebbe
essere superato soltanto dall’ipotetico incontro con una civiltà
extraterrestre perché extraterrestri – cioè completamente lontani dalle
culture dei tre grandi continenti classici nei quali il mondo sembrava
anche geograficamente circoscritto – erano anche antillani, maya,
olmechi, toltechi, aztechi, incas, e tutte le varie civiltà sviluppatesi
autonomamente nelle due Americhe.
E la sua narrazione storica era
stata innervata da commozione, indignazione e ammonimenti con una
partecipazione emozionale fortemente stigmatizzata dagli storici di
professione, ma altamente apprezzata da chi considera il passato non
soltanto come semplice e arido quadro di cose che non ci sono più, ma
soprattutto come insostituibile enciclopedia di esperienze delle quali
fare tesoro per ripetere le cose buone e per evitare gli errori, o i
crimini già fatti. Todorov aveva scritto: «Se in seguito al morbo di
Alzheimer un individuo è privato della memoria, cessa di essere se
stesso. Allo stesso modo un popolo non può esistere senza una memoria
comune». Era un richiamo alla necessità di non dimenticare mai il
proprio passato, di non far finta che le cose più orribili non siano mai
accadute, ma, anzi, di indagarle con spietatezza e di mantenerle vive
per poi aprire, ogni volta in cui serve, l’armadio dei brutti ricordi,
quel posto buio e pauroso dove, però, è obbligatorio guardare ogni tanto
per tenere bene a mente gli orrori e gli errori che non si devono fare
più.
Nella sua fervidissima attività
Todorov ha ripreso poi a lavorare sui temi che avevano contraddistinto
la prima fase del suo impegno dando alle stampe, tra l’altro, “Gli abusi
della memoria”, “Di fronte all’estremo”, “I generi del discorso”,
“Poetica della prosa”, ma il richiamo di una storia che deve essere
intesa come “magistra vitae” è stato irresistibile e Todorov si era
ripresentato sugli scaffali delle librerie con “Memoria del male,
tentazione del bene”, sottotitolato “Inchiesta su un secolo tragico”.
Ancora una volta Todorov aveva scelto di lasciarsi coinvolgere dalla
storia, di permettere agli avvenimenti di indignarlo, di commuoverlo, di
scuoterlo, di spingerlo, soprattutto, a voler far partecipi gli altri
di queste proprie emozioni, perché in lui prevaleva sempre l’aspetto
dell’uomo che vuole avere relazioni con i propri simili rispetto a
quello dello studioso che preferisce isolarsi e poi consegnare agli
altri prodotti finiti e teoricamente asettici.
E questa volta la storia che Todorov
aveva scelto per scavare dentro di sé e dentro l’umanità era stata
quella del nostro secolo, una storia drammatica non soltanto perché
tanto vicina a noi e, quindi, capace di rimandarci immagini più vivide
di immani tragedie, ma anche e soprattutto perché dal ventesimo secolo
sono affiorati gli aspetti peggiori dell’essere umano, facendo emergere e
affermarsi il totalitarismo con le sue infinite varianti naziste,
fasciste, comuniste che, pur dichiarando invariabilmente di perseguire
il bene, hanno umiliato, deportato, torturato, sterminato popoli interi
provocando decine di milioni di morti e scatenando guerre che hanno
messo a ferro e fuoco tutto il mondo. Per fortuna la democrazia è
riuscita a vincere la battaglia, ma neppure la democrazia – sottolineava
Todorov – è immune da quella che egli definisce la «tentazione del
bene» che può spingerla a usare le bombe atomiche contro i propri nemici
o a intraprendere le cosiddette “guerre umanitarie” senza minimamente
curarsi della contraddizione in termini insita in questo concetto. E la
“tentazione del bene” è stata una sua folgorante intuizione che ha
racchiuso, con splendida sintesi filosofica e semantica, in tre parole
che indicano il grande male costituito dalla certezza di possedere il
concetto di bene, di vederlo incarnato in noi, collegata con l’assoluta
determinazione di volerlo imporre agli altri – per il loro supposto bene
– anche con la forza, anche a costo di seminare violenza e morte.
Ma Todorov, inguaribile ottimista
sulle capacità dell’uomo, assieme agli aspetti più bui del nostro
passato prossimo, portava alla luce anche quelli più luminosi in una
contrapposizione che non soltanto esalta le opposte caratteristiche di
entrambi, ma rende evidente come per l’uomo sia sempre possibile una
scelta, pur se non facile.
Vorrei ricordarlo pubblicando qui di
seguito l’intervista che, proprio grazie al fatto che Todorov era
venuto a Udine per andare poi a ricevere il premio Nonino, avevo potuto
fargli all’Astoria. Eccola:
Una stanzetta disadorna, con in
mezzo un tavolo ricoperto con un panno verde. Forse non è l’ambiente
migliore per rompere il ghiaccio e affrontare un’intervista tra due
persone che non si sono mai viste, ma con Tzvetan Todorov, che ha vinto
il premio Nonino 2002, problemi non ce ne sono: un minimo di rigidità
nei consueti convenevoli e poi, quando cominciamo a parlare dei suoi
argomenti preferiti, appare un dolce sorriso che ci accompagna durante
tutto il dialogo.
– Lei definisce il Novecento “secolo
tragico”, altri lo hanno definito “secolo breve”, collocando il suo
inizio nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, e il suo
termine nell’89, al crollo del muro di Berlino. Non ritiene che sia,
invece, un secolo lungo che proietterà la propria tragicità nel futuro?
«Il futuro non lo si può prevedere
e, quindi, non so quale sarà l’impatto di questo secolo importantissimo
in cui l’umanità è cambiata molto più che negli altri secoli. Posso dire
che l’Europa è stata scena della tragica esperienza dei totalitarismi
che oggi sembra finita».
– Nel suo “Memoria del male,
tentazione del bene”, alle analisi generali lei accosta una galleria di
pochi uomini esemplari. Questa scelta rivela forse un certo pessimismo
nei confronti di una specie umana che riesce a riscattarsi e a crescere
soltanto grazie all’eccellenza di pochi?
«È vero che per me lo spirito
dell’umanità si manifesta più nelle azioni del singolo individuo che in
quelle della collettività. Ma non penso che non si possa fare nulla
collettivamente perché è la società che assicura le condizioni
favorevoli senza le quali l’uomo non può progredire. Diciamo che la
società deve favorire il miglioramento dell’individuo, ma non deve
produrlo. Insomma, sono ostile all’idea di un paradiso terrestre».
– Lei dice che la “tentazione del
bene” fa sì che gli uomini lo cerchino con ogni mezzo, anche a costo di
seminare violenza e morte. Si tratta, quindi, di un elemento di forte
negatività che, però, sembra connaturato a ogni fede che può avere in sé
quei germi che portano al fondamentalismo e alla cosiddetta “guerra
santa” condannata unanimemente da tutte le religioni ad Assisi. C’è un
modo per capire, e soprattutto per far capire, di avere raggiunto quel
limite oltre il quale il bene diventa male?
«La tentazione del bene è la
certezza di possedere il concetto di bene, di vederlo incarnato in noi e
di volerlo imporre con la forza agli altri. La religione non è
pericolosa in se stessa, ma lo diventa quando si unisce al potere
temporale. Purtroppo lo si è visto spesso nella storia: ha fatto molto
più male la tentazione del bene che quella del male».
– In questo senso acquista maggiore
significato anche la sua dedica a Germaine Tillon che «ha saputo
attraversare il male senza prendersi per un’incarnazione del bene»...
«Germaine Tillon è una donna che
oggi ha 94 anni ed è per me il più bell’esempio di chi cerca il bene
senza pensare di possederne il segreto e di imporlo. In tutti i campi ha
portato avanti la sua azione pensando solo a quello che era giusto.
Quindi io sono ostile all’integralismo: non voglio fare distinzioni
fisse tra quello che è bene e quello che è male»
– Recentemente Richard Holloway,
vescovo di Edimburgo, ha provato a percorrere la strada di un’etica
svincolata da Dio, quasi razionale e parzialmente positivista. Per fare
ciò si è basato sul concetto di danno. Lei ritiene sia una strada
percorribile?
«Non mi posso pronunciare su quanto
sostiene Holloway perché non l’ho letto, ma per me l’etica non è
razionalista perché la ragione può servire tutte le cause, in quanto
tutti sono capaci di argomentare le proprie decisioni. Sia Bin Laden,
sia Bush appoggiano con la ragione le proprie scelte, ma ci sono anche
degli altri valori da tener presenti; per esempio, quello della pace è
largamente superiore a quello della guerra. Insomma, direi che non si
tratta di ragione, ma di volontà».
– Quindi lei ritiene che la morale possa essere indipendente dal concetto di fede?
«Assolutamente sì».
– Ralph Dahrendorf, analizzando la
tendenza dell’ultima parte del XX secolo si domanda dove finirà la
democrazia che appare scavalcata dalla globalizzazione, sopraffatta dal
marketing politico, impantanata tra apatia elettorale e anarchia di
piazza, paralizzata tra il decisionismo legato al sistema elettorale
maggioritario e l’immobilismo causato da quello proporzionale. Se si
ipotizza la nascita di una nuova democrazia, non è che ci si potrà
arrivare soltanto dopo un periodo di nuovo totalitarismo, magari meno
violento, ma non meno disumanizzante di quelli passati?
«Per me il concetto di totalitarismo
ha un contenuto storico abbastanza preciso e ben definito e quindi
resisto alla tentazione di vederlo apparire dappertutto e in ogni
circostanza, ma sono d’accordo che la democrazia, così come la sogniamo,
è minacciata dalle derive di molteplici nature. Forse non si tratta di
derive totalitaristiche in senso stretto, ma certamente non sono meno
pericolose. Al termine del mio ultimo libro ne faccio un elenco che però
è incompleto. Per esempio, non parlo della scomparsa del pluralismo che
è una minaccia che pesa tantissimo sulla società di oggi. E per
pluralismo non mi riferisco soltanto alla necessità di avere mezzi
d’informazione diversi, ma anche, per esempio, l’imprescindibilità di
avere una separazione netta del potere economico da quello politico e
del potere politico da quello mediatico».
– Ne “La conquista dell’America” lei
si è concentrato soprattutto sul problema del contatto con l’“altro”
che in quel caso era facilmente individuabile e determinabile. È un
problema che durante la storia dell’umanità ha continuato e continua a
ripresentarsi anche se le differenze spesso sono così sfumate da essere
inessenziali e praticamente invisibili. Questo deriva forse da una
voglia di semplificazione che porta a far perdere i valori
dell’individuo per mettere in rilievo soltanto quelli dei gruppi?
«Io credo che bisogna riconoscere
che fino a un certo punto siamo tributari delle nostre appartenenze
collettive, soprattutto nelle società tradizionali. Ma anche che
l’individuo riveste un’importanza fondamentale. Oggi a Parigi, dove io
vivo, il fatto che sia bulgaro di nascita non è importante. Io sono
essenzialmente l’individuo che ho prodotto da me stesso, con la mia
identità e la mia ragione. E per arrivare a ciò c’è stata una
disponibilità della società, ma soprattutto un impegno mio».
– Lei è nato come critico letterario
e studioso di semiotica. Come mai poi ha indirizzato decisamente i suoi
interessi verso l’analisi storica?
«La spiegazione è che io ho vissuto
in Bulgaria i miei primi 24 anni e dunque, quando sono arrivato in
Francia, in me era ancora molto forte la coscienza che si era formata
sotto il regime comunista e l’esigenza che sentivo era di separare il
mio lavoro dall’ideologia, dalla storia e dalla società proprio perché
in Bulgaria tutto ciò era unito, normalizzato. Ma dopo una decina
d’anni, verso la fine degli anni Settanta, ho voluto allargare il mio
interesse anche alla società e alle persone che mi circondavano e mi
sono sentito libero di farlo».
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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