Ne muoiono a centinaia nel canale di Sicilia. I corpi di settanta profughi annegati sono stati recuperati pochi giorni fa sulle coste della Libia; oggi circa 150 hanno perso la vita nell’affondamento di un barcone; e chissà quanto sono finiti in fondo al mare senza che nessuno ne abbia saputo nulla.
E davanti a questo orrore, a questo lutto che dovrebbe essere collettivo, a quelle lacrime che dovrebbero sgorgare dai nostri occhi, dagli occhi di tutti, i leghisti del governo non dicono altro che «bisogna chiudere il rubinetto», mentre gli altri tacciono per non compromettere gli equilibri della maggioranza. E in genere si parla soltanto di blocchi e di respingimenti mentre, per limitare al minimo gli aiuti a questi disgraziati, si arzigogola sulle differenze tra immigrati (coloro che arrivano in cerca di un lavoro), profughi (coloro che scappano da una guerra) e richiedenti asilo (quelli che fuggono da persecuzioni e violenze).
Ma una domanda sorge spontanea. L’essere costretti a morire di fame, o essere obbligati a prostituirsi, fisicamente o spiritualmente, per dar da mangiare a sé e ai propri cari, è tanto meno grave dell’essere perseguitati nell’accezione canonica del termine? La fame è davvero tanto meno terribile della tirannide, o del despotismo?
La risposta è indiscutibilmente negativa. Non è possibile che una generalizzata tortura per fame possa essere meno grave di un pur mirato supplizio individuale, o di gruppo, anche se effettuato con raffinati metodi ideati per causare dolore. Si può forse consigliare calma e pazienza a un genitore che vede inscheletrire e morire i propri figli, soltanto perché quelli che sono comunque veri e propri soprusi di regimi di vario tipo non sono particolarmente visibili e appariscenti? Direi proprio di no.
Altrimenti si è obbligati a dover confrontarsi con almeno due discriminanti. Una di tipo quantitativo: quando e perché si potrà dire «Basta. Il posto è esaurito. Tu puoi passare ancora; tu, invece, devi tornartene indietro a morire»? L’altra di tipo qualitativo: davanti a quale diritto conculcato si può dire «Tu puoi passare» e davanti a quale, invece, si chiude la porta e si dice «Tu resti fuori»? Chi è che deve stabilire qual è il limite oltre il quale si è autorizzati a non sopportare più e a cercare di andarsene, se non si ha l’animo di fare rivoluzioni?
Chi può assurgere al ruolo di giudice? Nel Vangelo di Matteo è scritto «Nolite iudicare, ut non iudicamini», “Non giudicate, per non essere giudicati”, ma mi sembra una prescrizione morale più vicina al volere di Dio che alla natura dell’uomo. E allora preferisco ricordare quello che scrive Dante, nel XIX canto del Paradiso, quando fa parlare l’aquila che, pur formata dalle luci splendenti dei beati, sentiamo più vicina alla fallibile e umana natura del poeta che alla grandezza dell’eterno. L’aquila dice: «Or tu chi se’ che vuo’ sedere a scranna, / per giudicar di lungi mille miglia / con la veduta corta d’una spanna?».
Ecco il problema: la superbia dell’uomo, il suo concetto di superiorità individuale, linguistica, nazionalistica, razziale. E soprattutto economica, con la paura che un povero disgraziato, per riuscire a sopravvivere possa diminuire di un’inezia l’opulenza del nostro modo di vivere. Perché di opulenza si tratta, visto che potremmo rinunciare a molte cose superflue senza che nessuno, tranne quelli della pubblicità, se ne accorga neppure.
Il fatto è che spesso siamo portati a indulgere a quella voglia di generalizzazione che è estremamente comoda, che evita di fare la fatica di dover conoscere, di pensare, di ragionare e di scegliere, ma che è anche l’anticamera del razzismo perché finisce per togliere agli “altri” la vita reale, riducendoli ad astrazioni, e finendo per ammassare tutti in grandi, ipotetiche e improbabili, categorie di popoli, di etnie, di religioni, di gruppi linguistici, dimenticando, o facendo finta di non sapere, che anche la categoria in cui ci si vede incasellati è sicuramente vista con disprezzo da qualcun altro e che l’unica specie a cui si deve fare riferimento è sempre soltanto quella umana. È la cultura, insomma, che deve sforzarsi a tenere gli “altri” vivi e a ricordare che l’umanità è così preziosa proprio perché è una sommatoria di individualità. È la cultura che deve ricordare a tutti che la parola “xenofobia” non è meno grave di “razzismo”: ne è soltanto l’orrenda anticamera.
Qualcuno mi spieghi, per favore, come si fa a pensare di ragionare, o addirittura di venire a patti, con chi vive di xenofobia e di razzismo. Sarebbe come farlo con chi giustifica il fascismo.
Non ci è permesso di restare in silenzio, mentre a furia di sentirne parlare come di cose normali queste venefiche teorie ammorbano l’aria della nostra società. Non basta indignarsi: occorre davvero arrabbiarsi.
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