giovedì 3 gennaio 2019

Resistenti e ribelli

Il sindaco di Palermo Leoluca Orlando ha lanciato il guanto della sfida non tanto contro Salvini, quanto in difesa della civiltà. E altri sindaci l’hanno imitato, sospendendo l’applicazione del sedicente “Decreto sicurezza” che, in realtà, è soltanto il primo passo verso un mondo in cui la solidarietà non ha diritto d’asilo, in cui il “prima noi” ha in sé le esplicite radici di un “dopo gli altri” in cui la parola “altri” può gonfiare razzismi già esistenti che, se lasciati indisturbati, non si sa dove potrebbero portare e dove, in parte, hanno già portato.

Salvini ha risposto subito sibilando minacce di denunce e processi contro i sindaci perché «è una legge dello Stato che mette ordine e regole». Peccato che queste regole – visto che violano diritti individuali che diritti restano, anche se sono diritti di stranieri – siano nettamente in contrasto con i dettami Costituzionali, ma anche e soprattutto con le coscienze individuali. È vero: Orlando e colleghi, che il male e la malvagità continuano a non considerarli banali, ora rischiano denunce, processi e forse anche la revoca del mandato; ma tutto questo inevitabilmente porterà questa legge schifosa davanti alla Corte costituzionale.

Al di là, comunque, degli aspetti legali e procedurali, merita soffermarsi a pensare cosa sarebbe potuto succedere se ai tempi delle leggi razziste di Mussolini molti si fossero opposti clamorosamente, se fossero stati più di otto i docenti universitari che avessero rifiutato di obbedire agli ordini del regime. Sicuramente all’inizio ci sarebbero stati più carcerati e disoccupati, ma anche molti di più avrebbero avuto lo stimolo a pensare a cosa stava succedendo e a mettere sulla bilancia non soltanto la convenienza, ma, sull’altro piatto, anche la propria umanità. Forse la Resistenza sarebbe cominciata molto prima e avrebbe risparmiato molti più lutti futuri.

Vorrei ricordare che la Resistenza non è stata una rivolta, perché la sua repentina fiammata iniziale non si è rapidamente esaurita, e nemmeno una rivoluzione perché è scaturita quasi spontaneamente, senza lunghe preparazioni filosofiche e politiche. È stata, però – raro esempio nel mondo e nella storia – la sommatoria di queste due cose perché ha chiamato subito in campo tantissima gente chiedendo anche sacrifici estremi, e poi ha saputo allungare i suoi benefici influssi per sempre, mi piacerebbe poter dire; anche se in realtà questo è durato solo alcuni decenni, lasciando comunque in buona parte della popolazione la voglia di resistere ancora per difendere la propria dignità, libertà e indipendenza.

C’è una netta linea di demarcazione tra rivolte e rivoluzioni: sono diverse in termini di dimensioni, ma anche di respiro e progettualità. Se la rivolta, infatti, è localizzata, quasi istintiva e limitata al raggiungimento di alcuni risultati pratici, la rivoluzione non ha necessariamente bisogno della violenza perché porta con sé grandi obbiettivi ideali e punta a cambiare profondamente la società in cui si sviluppa, soprattutto dal punto di vista sociale e, quindi, etico.

Esiste, quindi, una differenza anche tra rivoltosi e rivoluzionari. Ma i resistenti, in realtà hanno ancora qualcosa di più della somma delle caratteristiche di queste due categorie. In realtà sono “ribelli”, e non soltanto perché l’azione del resistere ha in sé una connotazione quasi passiva, di attesa, mentre il ribellarsi fa trasparire ben chiara la decisione di fare qualcosa, di impegnarsi in prima persona.

Ma un’altra diversità risiede nel fatto che, mentre la rivoluzione ha una natura necessariamente collettiva, quella del ribelle è sempre una condizione individuale, tanto che il ribelle tende a restare tale anche quando la spinta propulsiva della rivoluzione di cui è stato parte attiva si esaurisce. Perché è inevitabile che, visto che anche le rivoluzioni sono momenti dialettici della storia, nessuna rivoluzione potrà mai riuscire, da sola, a rispondere ai problemi di un tempo che non è più il suo; magari anche in uno spazio che non è più il suo.

Ma, anche se la rivoluzione finisce, il ribelle resta tale e si distingue dal rivoluzionario. Quest’ultimo, infatti, può essere tanto indissolubilmente legato all’ideologia della sua rivoluzione da diventarne quasi prigioniero e da estremizzarla oltre ogni limite. A tale proposito, basterebbe ricordare il terrore giacobino che, in pratica, oltre a decine di migliaia di francesi, ha ucciso anche la stessa Rivoluzione francese. Ma anche guardare ai tanti che hanno votato sentendosi rivoluzionari perché pensavano a un mondo nuovo e migliore e che ora, davanti a tante promesse tradite, a tanta incapacità, a tanti ideali trascinati nel fango, si ostinano a ritenere più importante il non ammettere di aver sbagliato, che proclamare la propria lontananza dai razzismi, o dalle complicità con i razzismi.
Il ribelle, invece, è colui che sceglie la strada della resistenza ogniqualvolta si trova di fronte a un potere che sente iniquo; anche se è lo stesso potere prodotto dalla rivoluzione per la quale ha lottato. Il vero resistente, infatti, ha un’inesauribile esigenza di sincerità e, quindi, di libertà.

D’altro canto, appare anche evidente che un uomo deve essere già libero, per poter desiderare di diventarlo. Questo enunciato a prima vista può apparire paradossale, ma, in realtà, è soltanto la constatazione che, visto che di aneliti alla libertà non c’è traccia biochimica nel DNA di ognuno di noi, è evidente che per lottare per la libertà ci vogliono istruzione, memoria, conoscenza ed educazione, quasi sempre assimilate già in gioventù. In una parola, cultura; che è cosa ben diversa dall’erudizione.

In tutto questo non è possibile sottrarsi dall’obbligo di chiederci: quando è lecito ribellarsi? Quando si può essere davvero certi che la propria percezione di iniquità nei confronti del potere che ci si trova di fronte sia tale da consentirci di resistere, da concretizzare il diritto di resistenza? Un diritto che è addirittura statuito in alcune Costituzioni come, per esempio, in quella tedesca che all’articolo 20 recita: «Tutti i tedeschi hanno diritto di resistenza contro chiunque si appresti a sopprimere l’ordinamento vigente, se non sia possibile alcun altro rimedio». Comunque sul quando sia lecito resistere è obbligatorio riflettere, anche se appare facile dare una risposta nel momento in cui ci si trova di fronte a un’invasione di diritti. Nostri o altrui che siano, perché tutti i diritti, compreso quello di resistenza, devono toccare ogni cittadino, senza eccezioni. Altrimenti diventano privilegi per chi li ha.

E non si può dimenticare che il frutto della Resistenza si estrinseca nella nostra Costituzione, voluta da chi ha saputo trasformare quel drammatico modo quotidiano di vivere e combattere di oltre settant’anni fa in pacifica pratica giornaliera difendendo libertà, democrazia, lavoro, uguaglianza, dignità, giustizia, solidarietà, equità sociale e pari opportunità, nel rispetto delle diversità e del pluralismo; battendosi per i diritti umani di tutti e non soltanto di determinati, pur vasti, gruppi razziali, religiosi, linguistici culturali, o economici. Come ha magnificamente ricordato poche sere fa il Presidente Mattarella.

E a tale proposito non si può non sottolineare che la Resistenza che festeggiamo il 25 aprile non è di tutti. Non è e non sarà mai di chi a questi valori – anche a uno soltanto di questi valori – si oppone. I partigiani nella loro lotta hanno compreso l’enorme valore del “diritto di resistenza” e ne hanno fatto tesoro tanto da elaborarlo in “dovere di resistenza” in ogni giornata della loro vita. Perché per un uomo ogni diritto, se è davvero tale, una volta conquistato non può non diventare un dovere nei confronti propri e di tutti gli altri.

Sono antiche lezioni di umanità di cui ormai non si parla quasi più e che invece dovrebbero essere ripetute ogni giorno, fino alla nausea mettendole in pratica e difendendo, con forza e senza nascondersi, chi le mette in pratica, chi fa Resistenza civile, cioè Ribellione. Con la certezza che, rubando le parole a Roberto Vecchioni, «questa maledetta notte dovrà pur finire; perché la riempiremo noi, da qui, di musica e parole»


Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

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