sabato 27 maggio 2017

Rotte, correnti, venti e maree

Il verbo governare è molto antico visto che risale, nella sua forma originaria latina “gubernare”, al IV secolo avanti Cristo e ha un significato chiaramente marinaro: significa reggere il timone. In italiano viene accolto da Dante già alla fine del XIII secolo nel suo “Convivio” e poi nella “Commedia” quando ne estende il significato alla politica e fa capire bene che reggere il timone non basta, altrimenti l’Italia diventa come una «nave sanza nocchiero in gran tempesta» e si finisce per affondare.

Oggi appare sempre più evidente che le coincidenze tra il significato marinaro e quello politico sono più d’una. Un comandante di nave, infatti, soprattutto quando si trattava di andare a vela, dirigendo galeoni, poderosi velieri da guerra che arrivavano anche a 5 mila tonnellate di stazza, doveva sì percorrere la rotta che si era prefisso, ma era obbligato anche a stare ben attento a quello che gli imponevano le correnti, i venti e le maree. Altrimenti andava ad arenarsi nelle secche, a infrangersi sulle scogliere, o ad affondare durante fortunali che non sapeva come affrontare.

Ancora oggi, in politica, un leader governativo ha il diritto di seguire la rotta che ha tracciato, ma non può non confrontarsi con le correnti, che possono essere il simbolo delle opposizioni, abbastanza costanti nel loro indirizzo; con i venti, simili all’opinione pubblica, volubile e variabile, ma capace, di tanto in tanto, di tramutarsi da piacevole brezza in terrificante fortunale; e con le maree, decisamente prevedibili pur se possenti, e paragonabili a quella specie di movimento pendolare che sposta periodicamente il peso del sentire generale della maggioranza da destra a sinistra, o viceversa, quasi come inevitabile reazione al precedente spostarsi dell'opinione pubblica dall'altra parte.

Se anche in politica, come sul mare, non ci si rende conto della complessità e della difficoltà di “gubernare”, se non si tiene conto di tutto questo, allora non si governa, ma si comanda, e in questo caso gli elementi, naturali o sociali che siano, finiscono sempre per rivelarsi più forti di qualsiasi, pur nerboruto, timoniere e così si rischia di arenarsi, di infrangere il proprio vascello su una scogliera, come quella dei populismi, o, semplicemente, di affondare.
Matteo Renzi ha già provato a comandare più che governare, evitando ogni confronto con chi non la pensa esattamente come lui e forzando i meccanismi parlamentari in maniera tale da tentare di bloccare correnti, venti e maree. Il risultato – drammatico per lui – lo si è visto il 4 dicembre quando è miseramente affondato con il suo progetto di stravolgere la Costituzione. Ma è evidente che non è uomo capace di imparare; né dalla storia, né dai propri errori.

Ora sono altre due le navigazioni che indicano che nulla ha imparato. E non si dica che non è lui a tracciare la rotta e a reggere il timone, bensì Gentiloni, perché è un evidente falso, visto che la sopravvivenza del governo dipende dal Pd e dal suo segretario.

La prima riguarda la vicenda dei voucher che, cacciati dalla porta soltanto per evitare un referendum già fissato dopo una raccolta di oltre tre milioni di firme, ora tenta di far rientrare dalla finestra cambiando loro il nome, ma non la sostanza; anche se la faccia tosta del capogruppo Rosato si sta impegnando al massimo per far credere che di cose diverse si tratta.

La seconda è legata alla legge elettorale con continui tentativi di fissare premi maggioritari assortiti, richiamandosi a quella “governabilità” che, in realtà, è soltanto la sicurezza di poter fare per cinque anni quello che si vuole con il timone, senza preoccuparsi di correnti, venti e maree. Della democrazia, insomma.

Si potrebbe essere tentati di lasciare che la nave di Renzi vada pure a sfasciarsi, ma non dobbiamo mai dimenticare che quella nave è nostra, e non sua, e che il naufragio coinvolgerebbe tutti noi. Occorre riprendere velocemente il comando della nave, in primis per evitare il naufragio. Di aggiustamenti comuni di direzione – tenendo conto che il porto a cui si mira è quello della libertà, dell’uguaglianza, della giustizia e della solidarietà – si potrà parlare più tardi, quando il mare si sarà placato e ci sarà finalmente un vero nocchiero, capace di destreggiarsi tra rotte, correnti, venti e maree.

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giovedì 18 maggio 2017

Il problema non è Trump

Le borse di mezzo mondo vanno in crisi; in America si risente parlare con forza di impeachment per il presidente Donald Trump e gli stessi repubblicani pensano a tutti i sistemi legali possibili per farlo uscire a forza dalla Casa Bianca e fare spazio a un presidente meno imbarazzante. E “imbarazzante” è addirittura un termine inadeguato per descrivere ciò che ha fatto soltanto in questi ultimi dieci giorni.

Riassumendo brevemente: sull’onda del Russiagate che lo insidia fin da prima dell’insediamento, il 9 maggio Trump decide di licenziare in tronco il direttore dell’FBI James Comey, sgradito perché non segue il suo consiglio di lasciar cadere le indagini sui rapporti con la Russia, in genere, e soprattutto quelle su Michael Flynn, consigliere del presidente. Il giorno dopo vuole farsi bello con un ministro di Putin in visita alla Casa Bianca e, per dimostrare il suo potere, gli rivela alcune cose che possono mettere in crisi servizi segreti alleati e alcuni agenti infiltrati che rischiano la vita. I suoi collaboratori si affrettano a smentire la notizia diffusa dal Washington Post, ma lui smentisce le smentite e rivendica non solo di averlo fatto, ma di avere il diritto di fare quello che vuole. Le conseguenze sono pesantissime a livello internazionale perché non si sa quali servizi segreti avranno ancora voglia di collaborare con quelli statunitensi, se i loro segreti vengono messi in piazza, ma anche a livello interno in quanto sempre più spesso viene ventilata la possibilità di sottoporre a impeachment il presidente per “ostruzione della giustizia”, la medesima accusa che portò Nixon alle dimissioni prima che l'impeachment fosse deciso.

Tutti stanno analizzando e stigmatizzando il comportamento di Trump ritenendolo indegno di lavorare nello studio ovale, ma il vero problema non è Trump: il vero problema è il fatto che quest’uomo è stato eletto democraticamente da un popolo che è tra quelli che maggiormente possono accedere alle informazioni necessarie per decidere. Ed è in questo senso che quello che sta accadendo a Washington deve interessare tutto il mondo perché rischia di mettere terribilmente in crisi il concetto stesso di democrazia rappresentativa per far tornare in primo piano assurdi sogni di una democrazia diretta che spera di risolvere con domande e risposte semplici e spesso irriflesse problemi di complessità estrema; oppure per far vagheggiare incubi di aristocrazie, oligarchie, dittature.

A noi italiani già la cosa dovrebbe interessare più che ad altri perché qui siamo riusciti a far diventare presidente del Consiglio un signore come Berlusconi che, quanto a pasticci, gaffe, incriminazioni e decisioni personalissime e cervellotiche, può essere considerato l’apripista di questi nuovi pseudo–protagonisti della politica internazionale. Ma ancor più deve interessarci perché proprio in questo periodo stiamo correndo un grosso rischio di affossare la nostra democrazia.

Sarebbe assurdo pensare di averla salvata con il pur importantissimo voto del 4 dicembre: è stata conservata la lettera della Costituzione, ma servirebbe ancor di più recuperarne lo spirito. E poi colui che ha tentato di distruggere la nostra Carta fondamentale è ancora in circolazione e sta tentando di riprendersi tutto il potere che in realtà non si è mai sognato di abbandonare.
 

In questo quadro, francamente sconfortante, sono almeno due le cose che è urgente fare.
La prima, la più immediata, è quella di impegnarsi a vigilare e a lavorare perché sia realizzata una legge elettorale degna di questo nome, che magari non sia chiamata con un termine in latino maccheronico che dimostra, tra l’altro, la mancanza di fantasia dei nostri parlamentari e la rassegnazione a seguire quelle che si ritengono essere le mode, ma che, soprattutto, oltre a non essere soggetta a venir ancora una volta cancellata dalla Corte Costituzionale, rispetti il principio di rappresentatività e permetta ai cittadini di scegliere davvero i propri delegati al Parlamento. E, invece, appare chiaro che Renzi e i capi di tutti gli altri schieramenti hanno in testa soltanto tre obbiettivi: fare la legge che sul momento sembri maggiormente favorire il proprio partito, curare molto di più la cosiddetta governabilità che la rappresentanza, e, comunque, assicurare l’elezione ai più fedeli, togliendo gran parte delle possibilità di scelta ai cittadini.

In più sembra evidente che si stanno sforzando di far rientrare dalla finestra ciò che è stato calciato a calci dalla porta, cioè l’abolizione del Senato. In questo caso non sparirebbe, ma, grazie al fatto che stanno tentando di fare leggi uguali, e non soltanto armoniche, per i due rami del Parlamento, diventerebbe praticamente inutile in quanto ricalcherebbe perfettamente la stessa composizione della Camera e i due rami del Parlamento non avrebbero più quelle funzioni di reciproco controllo che sono state fin qui molto utili in tantissime circostanze. Dicono che in altri Paesi tutto questo non esiste. Ma pensare alla Camera dei Lord che blocca almeno temporaneamente la Camera dei Comuni sulla Brexit; pensate agli Stati Uniti dove spessissimo uno dei due rami del Parlamento ha bloccato le iniziative dell’altro se non, addirittura, quelle del presidente, anche se era incommensurabilmente più serio di Trump.

La seconda questione, più lunga e più difficile, consiste nella ricostruzione dei partiti politici che si sono trasformati – praticamente tutti – in semplici comitati elettorali al servizio di un leader che non guida, ma comanda; comitati nei quali è richiesta obbedienza cieca, faccia di bronzo nelle dichiarazioni pubbliche per non spiegare cosa in realtà stia succedendo, e totale rinuncia a qualsiasi velleità di discussione reale perché tutto deve essere veloce ed efficiente, mentre la coscienza – lo sappiamo tutti – è qualcosa che richiede dubbi, tempo, macerazioni e scontri. Ma è anche quel patrimonio che permette di capire quanto di quello che è proposto da qualcun altro è accettabile, se non addirittura buono, e, quindi, è l’unico sistema per arrivare a quelle mediazioni che non devono essere vituperabili inciuci, bensì traguardi nei quali ognuno accetta le buone idee dell’altro con il comune obbiettivo del bene generale.

Utopie? Non credo. Ma, se non si comincia a lavorare, quegli obbiettivi si allontaneranno sempre di più. E non dobbiamo mai dimenticare che spessissimo la storia umana ha dimostrato che l’utopia non è un luogo che non esiste, ma soltanto un luogo che non è stato ancora raggiunto.

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giovedì 4 maggio 2017

Compromessi e confini

Devo ammettere che non mi è facile commentare la tappa udinese di Giuliano Pisapia, perché l’unità del centrosinistra è cosa che personalmente sogno ormai da decenni, ma mi sembrerebbe sbagliato esimermi dal palesare le mie sensazioni. E lo faccio proprio raccogliendo una delle tante sollecitazioni lanciate dall’ex sindaco di Milano; forse la più condivisibile, ma probabilmente anche la più pericolosa: «Una delle chiavi fondamentali per unirci – ha detto – è quella di parlare chiaro. Poi ci potremo scontrare, ma è anche l’unico modo per individuare i punti di contatto e per smussare gli spigoli che rischiano di lacerarci».

Allora, se bisogna parlare chiaro, la prima cosa da sottolineare è che, tentando di non spezzare ulteriormente prima di tentar di incollare, è rimasta assolutamente nebulosa la sostanza del progetto: il con chi, il come, il con quali regole. Perché non basta pensare a un'alleanza aperta, chiamata Campo Progressista, per essere sicuri di fare cose di sinistra. Intanto perché un’alleanza., se è aperta, lo è sia in entrata, sia in uscita (e, in questo senso, abbiamo già abbondantemente dato). Poi perché, prima, è necessario rispondere a una domanda fondamentale: cosa intendiamo per sinistra, se davvero intendiamo tentare di unirla?

Tento di spiegarmi. Sono perfettamente d’accordo con Pisapia sul fatto che bisogna unire e non dividere e dico anche che non ho il minimo dubbio sul fatto che nella politica siano necessari dei compromessi in quanto la politica è un ininterrotto susseguirsi di avvicinamenti reciproci per trovare mediazioni accettabili dalle varie parti in causa al fine di raggiungere soluzioni che facciano il bene dell’intera società. Però, uno dei punti fondamentali nella ricerca di compromessi che mantengano la sostanza nobile del termine e non quella deteriore, consiste nel fatto che bisogna aver ben chiari quelli che potremmo definire i propri confini etici: fin dove si può arrivare senza tradire i propri valori? Cos’è lecito e cosa non lo è? Senza risposte precise a questi interrogativi i compromessi sono destinati a diventare sconfitte, o – peggio – compravendite, se non cessioni.

Ed è importante anche annotare il fatto che normalmente i confini individuali racchiudono territori molto più stretti di quelli delimitati dai confini collettivi di un gruppo, come può essere un partito politico. Ma è evidente che, se un cittadino può decidere di appaltare alcune sue scelte ad altri (si chiama democrazia rappresentativa) se i patti sono ben chiari, è altrettanto palese che questa delega non può funzionare e viene immediatamente ritirata se quei confini di cui parliamo diventano steccati etici vaganti più che vaghi. È semplicemente questa la storia dei milioni di voti perduti dal centrosinistra anche e soprattutto in quelle regioni che erano considerate “rosse” e che, quindi, erano quelle in cui più radicati erano i valori di uguaglianza, libertà e solidarietà.

Allora, possiamo anche – faticosamente, lo ammetto, ma sinceramente – soprassedere al fatto che sia uno che si è schierato con il sì al referendum del 4 dicembre a parlare di valori di quella democrazia che la riforma costituzionale voleva scambiare, almeno in parte, con quella che chiamavano “maggiore governabilità”, ma non è possibile dimenticare – tanto per fare un solo esempio – che il Jobs Act e la cancellazione dell’articolo 18 hanno sconfinato ampiamente dai compromessi non soltanto possibili, ma addirittura immaginabili. E non basta che oggi una giovane rappresentante di uno dei sindacati che ha appoggiato quel massacro faccia finta di dimenticarsene e parli di errore.

Come pure non appare possibile che si parli dell’importanza del più grosso partito di centrosinistra senza chiedersi se davvero è rimasto di centrosinistra, visto che una sua enorme parte – di dirigenti, ma anche di semplici elettori – lo ha abbandonato perché non lo ritiene più tale. E questa sensazione non è certamente cambiata dopo la plebiscitaria conferma di Renzi alla segreteria. E, ancora, appare inutile far finta di non sapere che lo stesso Renzi ritiene di aver diritto, avendo vinto le primarie del suo partito, di essere il candidato di tutto il centrosinistra.

È vero che il popolo di sinistra non aspetta altro che sentir parlare concretamente di unità e che, per rendere possibile ciò, è disposto ad ascoltare per un po’ anche persone che chiaramente, più che parlare del centrosinistra, sono già entrati in una loro anticipatissima campagna elettorale. Ma, se davvero si vuole, come ha detto Pisapia, «riuscire a parlare ai tanti disillusi che non sono più andati a votare, o hanno votato turandosi il naso e restituire l’entusiasmo di fare politica agli italiani di sinistra che l’hanno perso», quegli steccati etici invalicabili devono essere ben chiari per tutti.

E deve anche essere molto chiaro il fatto che importanti sono gli ideali e non le persone, ma che se una persona ha fatto di tutto per calpestare e distruggere quegli ideali, allora quella persona deve starsene da un’altra parte. Altrimenti saranno sempre di più quelli che si allontaneranno.

So che appare difficile crederlo, ma sinceramente questo vuole essere un contributo costruttivo, e non distruttivo, a chi vuole ricostruire il centrosinistra. In quanto la speranza è comune e perché senza quella chiarezza che lui stesso invoca, anche lo sforzo di Pisapia sarebbe già arrivato al capolinea.


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