martedì 19 aprile 2011

Le incompatibilità parziali

L’ultima è davvero bella e riesce a far sorridere, sia pure amaramente, persino all’interno di questa grigia cappa che ci angoscia da anni. L’attuale sindaco di Milano, Letizia Moratti (che, in realtà, di cognome fa Brichetto Arnaboldi) ha detto che lei e Roberto Lassini (quello dei manifesti “Via le Br dalle Procure”) nella stessa lista del Pdl alle amministrative per il Comune di Milano sono «incompatibili».
Anche se questa dichiarazione è arrivata dopo un silenzio durato alcuni giorni dall’apparizione di quei manifesti schifosi, non posso che essere contento della fermissima presa di posizione del sindaco che spera di essere confermata. Adesso, ovviamente, resto in ansiosa attesa che la signora continui logicamente sulla stessa strada e che dica che anche lei e Berlusconi sono «incompatibili». Perché Larini non ha fatto altro che mettere per iscritto quello che Berlusconi aveva già detto a voce e che neppure in questi giorni ha inteso minimamente smontare con quelle smentite che gli riescono così facili anche quando sono oggettivamente incredibili perché è vero che “verba volant e scripta manent”, ma ormai anche le registrazioni audio e video “manent”.
Se questa seconda incompatibilità non sarà dichiarata, la signora avrebbe fatto meglio a mantenere un meno opportunistico silenzio e avrebbe potuto invece destinare un po’ del suo fiato a quello che ha detto il cardinale di Milano, Dionigi Tettamanzi che, in rapida e splendida sintesi, ha messo all’indice coloro che «agiscono con ingiustizia, ma non vogliono che la giustizia giudichi le loro azioni», coloro «che fanno la guerra, ma non vogliono si definiscano come “guerra” le loro decisioni, le scelte e le azioni violente», coloro che «vivono arricchendosi sulle spalle dei Paesi poveri, ma poi si rifiutano di accogliere coloro che fuggono dalla miseria e vengono da noi chiedendo di condividere un benessere costruito proprio sulla loro povertà».
Ma sarebbe stato scomodo farlo. Anzi, impossibile, senza ammettere che l’attuale governo italiano fa proprio parte di “coloro”. Viene quasi il malizioso dubbio che si sia voluto parlare un po’ (non troppo, per carità) contro Lassini, perché era difficile parlare contro Tettamanzi, uno di quei rappresentanti della Chiesa che ancora tengono presente che il Vangelo insegnava che il miglior modo per onorare Dio è quello di onorare il prossimo.

domenica 17 aprile 2011

Discuteremo, ma dopo

Le sensazioni che si provano ascoltando un discorso di Berlusconi ai suoi fedeli (non più fedelissimi perché ormai sono sempre di più quelli che non applaudono e sono in evidente disagio) oscillano tra lo schifo per un bugiardo capace di negare addirittura le cose che lui stesso ha detto ore o giorni prima davanti alle telecamere, all’orrore per un teorico statista che va alla carica contro quelle stessi istituzioni che dovrebbe difendere, alla pena davanti a una persona che evidentemente – come lui stesso ama citare – non è “compos sui” visto che crede esistano ancora i comunisti con tre narici e che ci siano complotti che non sono stati orditi dalla sua P2, al timore per una deriva eversiva che è sempre più evidente e che non riguarda i suoi oppositori, ma lui stesso che pretende per sé prerogative e privilegi ai quali anche i monarchi hanno già dovuto rinunciare da tempi molto lunghi.
Insomma quella dell’ascoltare un discorso di Berlusconi (inutile qualificarlo come propagandistico, perché lo sono tutti), dell’assistere sgomenti ai violenti attacchi contro magistratura, Parlamento, Corte Costituzionale, Presidente della Repubblica, opposizione – qualsiasi tipo di opposizione – è un’esperienza che dà il voltastomaco, ma che bisogna pur fare se ci si vuol rendere conto davvero del pericolo che ci troviamo di fronte e che è sempre meno teorico e sempre più reale.
L’istinto sarebbe quello di avere reazioni scomposte, ma è un istinto che va controllato perché a qualsiasi costo non ci si deve abbassare al suo livello se si crede davvero nelle regole democratiche.
Non possiedo, ovviamente, ricette sicure per allontanare da noi questa calamità, ma su tre cose da fare sono sicuro. La prima è quella che non bisogna rendere ancora più difficile la complicatissima strada di garanzia che il presidente Giorgio Napolitano sta seguendo con una pazienza che per me ha del soprannaturale. La seconda è che non è possibile stare più zitti e che è davvero obbligatorio parlare – non soltanto tra gli amici, ma anche tra gli sconosciuto – di quello che sta succedendo . La terza è quella di intimare alle forze di opposizione – e soprattutto a quelle di sinistra – di finirla di dividersi su argomenti che sono anche importanti, ma lo sono sicuramente meno della democrazia e della libertà degli italiani: i tempi per discutere del resto ci sarà sicuramente, ammesso che si riescano a recuperare, appunto, democrazia, rettitudine e libertà.
Ci sarebbe anche il desiderio di vedere la Chiesa prendere una posizione decisa contro chi dice che è lecito sparare sui migranti e anche contro quei suoi porporati che dicono che per il presidente del Consiglio pro tempore è lecito bestemmiare e anche accostarsi ai sacramenti mentre agli altri divorziati questo non è concesso. Ma questo mi sembra un’utopia più che un sogno.

giovedì 14 aprile 2011

Ma davvero ogni vita è sacra?

Ma qualcuno mi spiega perché si dovrebbe credere ai vertici della Chiesa quando dicono che ogni vita è sacra? Perché questa sacrosanta frase la applicano davanti ai laceranti problemi dell’aborto e del testamento biologico, mentre sembra non valga per i profughi, gli immigrati, coloro che scappano da guerre, persecuzioni, fame? Perché nessuno dei vertici alza la voce contro figuri come Maroni e Speroni che parlano di sparare alle barche dei disperati che affidano le loro speranze di vita alla disperazione che li fa salire su vere e proprie bare camuffate da barche malamente galleggianti sulle onde del mare?
La mia non è una domanda oziosa perché investe non soltanto chi crede, ma anche coloro che non sono toccati dal dono della fede. Perché in Italia la Chiesa non è un elemento esterno o ininfluente: la Chiesa, volente o nolente, fa politica e ogni sua frase ha influenze pesanti su parte dell’elettorato. Ogni frase, ma anche ogni silenzio come quello che sta accompagnando le orrende parole dei due esponenti della Lega.
E, allora, come può permettere la Chiesa che i leghisti continuino ad affermare di essere buoni cristiani e, nel contempo, a sostenere coloro che, dicendo che è giusto sparare ai profughi per evitare gli sbarchi di quei poveri cristi, predicano l’omicidio di massa, l’omicidio per motivi etnici, l’omicidio per egoismo?
Non so dare risposte. Posso chiedere soltanto che, come la Chiesa scomunicava i comunisti nell’immediato dopoguerra, e come potrebbe scomunicare anche me che credo nella bontà delle cellule staminali, delle fecondazioni assistite e del testamento biologico, applichi la stessa severità anche contro chi, per egoismo e razzismo, incita a sopprimere tante di quelle vite che sono sacre.
Se questo avverrà io continuerò a non sapere che credere, o meno, nell’esistenza di Dio, ma almeno potrò credere nella buona fede di alcuni di coloro che pretendono di rappresentarlo.

martedì 12 aprile 2011

Le diverse solitudini

«Noi industriali non ci siamo mai sentiti così soli». Lo dice Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria in uno dei più violenti e potenti attacchi degli imprenditori contro quel Berlusconi che finora avevano sostenuto a spada tratta nell’attesa della realizzazione delle promesse di ancora minor tassazione e ancora maggior deregulation che l’attuale presidente del Consiglio aveva sparso a piene mani in cambio di quantità “industriali”, appunto di voti.
La prima tentazione sarebbe quella di applaudirla calorosamente perché finalmente si è decisa a confessarsi che questo governo sta portando alla rovina l’intero Paese, anche gli industriali. Ma è una tentazione che passa subito perché questo appello a non essere lasciati soli arriva con un bel po’ di cinico ritardo.
Quante famiglie sono state lasciate sole con il miserando sussidio della cassa integrazione? Quanti ragazzi sono stati lasciati soli nella loro errabonda e disperata vita da precari? Quanti si adattano a essere schiavizzati per un paio di euro l’ora, o poco più, dalla tenaglia costituita da imprenditori famelici e agenzie di lavoro interinale che sono divorate dal medesimo appetito? Quante donne sono state lasciate sole quando sono state scaricate per prime nelle riduzioni di personale? Quanti insegnanti sono stati lasciati soli, senza neppure la cassa integrazione, dopo anni di precariato? Quanti sofferenti sono stati lasciati soli con dimissioni ospedaliere frettolose perché i posti letto sono stati ridotti? E potrei continuare a lungo.
Il «Ci avete lasciati soli» della Marcegaglia mi sembra straordinariamente simile al «Non dovete lasciarci soli» detto da Maroni e dai leghisti, alle prese con migliaia di profughi di cui vogliono disfarsi, a quell’Europa che hanno sempre palesemente disprezzato.
Ma noi non siamo né industriali, né leghisti. A Emma Marcegaglia, se ne avessi il potere, vorrei dire che noi non siamo miopi come molti di loro che non hanno mai compreso che, affamando la gente, avrebbero anche tagliato buona perte delle radici che nutrono il loro mercato. Noi sappiamo che per avere uno stipendio e avere dignità bisogna avere un lavoro e che per avere un lavoro c’è la necessità che ci siano aziende che funzionano. Faremo di tutto per aiutare gli imprenditori che, tra l’altro, non sono tutti né ingordi, né socialmente insensibili. Ma, almeno, in cambio, vorremmo che una parte della loro categoria si vergognasse per come ha ridotto i lavoratori di questo Paese ben prima che la crisi globale cominciasse.
Speriamo che lo dicano perché sbagliare è sempre pesante e ammettere i propri errori solleva l'animo. E non si può far passare in secondo piano che sbagliare per un’ideale è sempre meno gravoso che farlo per una cassaforte più piena.

mercoledì 6 aprile 2011

Gli arzigololi dell'accoglienza

Ne muoiono a centinaia nel canale di Sicilia. I corpi di settanta profughi annegati sono stati recuperati pochi giorni fa sulle coste della Libia; oggi circa 150 hanno perso la vita nell’affondamento di un barcone; e chissà quanto sono finiti in fondo al mare senza che nessuno ne abbia saputo nulla.
E davanti a questo orrore, a questo lutto che dovrebbe essere collettivo, a quelle lacrime che dovrebbero sgorgare dai nostri occhi, dagli occhi di tutti, i leghisti del governo non dicono altro che «bisogna chiudere il rubinetto», mentre gli altri tacciono per non compromettere gli equilibri della maggioranza. E in genere si parla soltanto di blocchi e di respingimenti mentre, per limitare al minimo gli aiuti a questi disgraziati, si arzigogola sulle differenze tra immigrati (coloro che arrivano in cerca di un lavoro), profughi (coloro che scappano da una guerra) e richiedenti asilo (quelli che fuggono da persecuzioni e violenze).
Ma una domanda sorge spontanea. L’essere costretti a morire di fame, o essere obbligati a prostituirsi, fisicamente o spiritualmente, per dar da mangiare a sé e ai propri cari, è tanto meno grave dell’essere perseguitati nell’accezione canonica del termine? La fame è davvero tanto meno terribile della tirannide, o del despotismo?
La risposta è indiscutibilmente negativa. Non è possibile che una generalizzata tortura per fame possa essere meno grave di un pur mirato supplizio individuale, o di gruppo, anche se effettuato con raffinati metodi ideati per causare dolore. Si può forse consigliare calma e pazienza a un genitore che vede inscheletrire e morire i propri figli, soltanto perché quelli che sono comunque veri e propri soprusi di regimi di vario tipo non sono particolarmente visibili e appariscenti? Direi proprio di no.
Altrimenti si è obbligati a dover confrontarsi con almeno due discriminanti. Una di tipo quantitativo: quando e perché si potrà dire «Basta. Il posto è esaurito. Tu puoi passare ancora; tu, invece, devi tornartene indietro a morire»? L’altra di tipo qualitativo: davanti a quale diritto conculcato si può dire «Tu puoi passare» e davanti a quale, invece, si chiude la porta e si dice «Tu resti fuori»? Chi è che deve stabilire qual è il limite oltre il quale si è autorizzati a non sopportare più e a cercare di andarsene, se non si ha l’animo di fare rivoluzioni?
Chi può assurgere al ruolo di giudice? Nel Vangelo di Matteo è scritto «Nolite iudicare, ut non iudicamini», “Non giudicate, per non essere giudicati”, ma mi sembra una prescrizione morale più vicina al volere di Dio che alla natura dell’uomo. E allora preferisco ricordare quello che scrive Dante, nel XIX canto del Paradiso, quando fa parlare l’aquila che, pur formata dalle luci splendenti dei beati, sentiamo più vicina alla fallibile e umana natura del poeta che alla grandezza dell’eterno. L’aquila dice: «Or tu chi se’ che vuo’ sedere a scranna, / per giudicar di lungi mille miglia / con la veduta corta d’una spanna?».
Ecco il problema: la superbia dell’uomo, il suo concetto di superiorità individuale, linguistica, nazionalistica, razziale. E soprattutto economica, con la paura che un povero disgraziato, per riuscire a sopravvivere possa diminuire di un’inezia l’opulenza del nostro modo di vivere. Perché di opulenza si tratta, visto che potremmo rinunciare a molte cose superflue senza che nessuno, tranne quelli della pubblicità, se ne accorga neppure.
Il fatto è che spesso siamo portati a indulgere a quella voglia di generalizzazione che è estremamente comoda, che evita di fare la fatica di dover conoscere, di pensare, di ragionare e di scegliere, ma che è anche l’anticamera del razzismo perché finisce per togliere agli “altri” la vita reale, riducendoli ad astrazioni, e finendo per ammassare tutti in grandi, ipotetiche e improbabili, categorie di popoli, di etnie, di religioni, di gruppi linguistici, dimenticando, o facendo finta di non sapere, che anche la categoria in cui ci si vede incasellati è sicuramente vista con disprezzo da qualcun altro e che l’unica specie a cui si deve fare riferimento è sempre soltanto quella umana. È la cultura, insomma, che deve sforzarsi a tenere gli “altri” vivi e a ricordare che l’umanità è così preziosa proprio perché è una sommatoria di individualità. È la cultura che deve ricordare a tutti che la parola “xenofobia” non è meno grave di “razzismo”: ne è soltanto l’orrenda anticamera.
Qualcuno mi spieghi, per favore, come si fa a pensare di ragionare, o addirittura di venire a patti, con chi vive di xenofobia e di razzismo. Sarebbe come farlo con chi giustifica il fascismo.

Non ci è permesso di restare in silenzio, mentre a furia di sentirne parlare come di cose normali queste venefiche teorie ammorbano l’aria della nostra società. Non basta indignarsi: occorre davvero arrabbiarsi.