giovedì 5 giugno 2025

Sicurezza, ma per chi?

Che sia un “decreto sicurezza” non c’è alcun dubbio, ma bisogna capire questa sicurezza a chi sarebbe garantita. Perché per il governo in carica problemi e rischi dovrebbero diminuire in quanto, in teoria, le nuove norme dovrebbero ridurre drasticamente il dissenso e le relative manifestazioni. Per i cittadini, invece, i problemi cresceranno visto che alcuni diritti previsti dalla Costituzione sono ostacolati con la minaccia di arresti e detenzioni.

In teoria nessuno potrebbe più protestare, se non a tavola tra amici, al telefono, o via internet, visto che il governo si scatena contro le manifestazioni pubbliche, anche se già alcune procure hanno affermato che, per esempio, non si può procedere contro le occupazioni delle scuole perché il fatto non costituisce reato in quanto gli studenti che prendono temporaneo possesso degli edifici scolastici protestando e manifestando starebbero soltanto esercitando un diritto garantito dalla Costituzione nell’articolo 17, quello di “riunione” e “manifestazione”. In più le occupazioni studentesche non costituiscono reato di interruzione di pubblico servizio poiché «gli studenti devono essere considerati soggetti attivi della comunità scolastica e partecipi alla sua gestione».

Ma il cosiddetto “decreto sicurezza”, in realtà, è una specie di “decreto manette” non soltanto perché restringe alcune libertà che la Costituzione ha affermato esplicitamente e che il fascismo esplicitamente aveva negato: è soltanto una nuova tappa in un percorso di progressivo autoritarismo che diventa sempre più evidente e che comincia a urtare la sensibilità anche di tante persone non particolarmente impegnate.

In questo quadro tra poco sarà chiaro, perché diventerà effettivo, anche il peso delle scelte del ministro Piantedosi sulla scuola. Non saranno promossi, né ammessi agli esami, infatti, coloro che in condotta non avranno ottenuto almeno il 6. Giusto, si potrebbe dire; ma, a ben guardare, non è proprio così. E, se non si avrà almeno un 9, non si potrà ottenere il massimo dei voti.

È evidente che, rispetto al passato, Valditara ha voluto rendere il voto in condotta numericamente un po’ più aderente a quelli delle altre materie, ma la sostanza del concetto di condotta non cambia. Se guardiamo a un passato non tanto remoto, era evidente il valore simbolico del 7 in condotta, fissato dall'allora ministro Giovanni Gentile e dal governo Mussolini nel 1923: era un voto più alto rispetto agli altri di molte pagelle, ma nella condotta si pretendeva la perfezione del 10, o quasi. Il 9 era accettato, ma con malcelato disappunto, l’8 ti faceva guardare come un potenziale piccolo delinquente e comunque un rompiscatole che voleva discutere, il 7 era tanto basso da condannarti agli esami di riparazione in tutte le materie.

E questo perché? Forse perché il comportarsi bene è più importante del conoscere l’italiano, il latino, la matematica, una lingua straniera? Assolutamente no. E, infatti, non si potrebbe capire il perché di una simile severità se si pensasse alla buona condotta come sinonimo di buona educazione. 

Tutto diventa, invece, platealmente comprensibile se buona condotta diventa sinonimo di disciplina. E la differenza tra disciplina ed educazione è enorme. La disciplina è il rigoroso rispetto delle regole. L’educazione, invece, è il rispetto delle persone.

 La differenza è fondamentale perché l’educazione è un modo di porsi davanti agli altri, mentre la disciplina è il rispetto di dettami che possono essere fissati da chiunque, magari nella legalità, ma non necessariamente con giustizia. E il rispetto resta doveroso anche se le regole cambiano soltanto perché più comode per chi detiene – pro tempore, si spera – il potere e le applica soltanto a coloro che non sono ossequienti. La severità tanto rivendicata da Meloni, Salvini e complici va, infatti, a corrente alternata. Sullo sgombero “immediato” delle case occupate illegalmente, per esempio, ci piacerebbe capire quale significato danno all’aggettivo “immediato” visto che Casapound occupa un intero palazzo romano da ventidue anni e non mi sembra che lo sgombero sia già in atto.

Domenica e lunedì si voterà per un referendum che ha il compito di cancellare cinque leggi sul lavoro e sulla cittadinanza che considero ingiuste, ma che può anche lanciare, raggiungendo il quorum, un potente messaggio contro chi crede di poter fare sempre quello che vuole tramutando una democrazia rappresentativa in una democrazia delegata. Quindi andate a votare e fate di tutto per convincere più gente possibile ad andare alle urne perché la democrazia, per salvarsi, ha un assoluto bisogno di gente che creda che sia possibile una democrazia reale e non quel simulacro che ci ostiniamo a chiamare così.

martedì 3 giugno 2025

Gli acrobati delle norme e delle parole

L’articolo 48 della Costituzione dice: «Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico». È un testo chiarissimo, ma è già da un bel po’ di anni sul diritto-dovere di voto si esercitano i nostri migliori acrobati delle norme e delle parole.

Sui primi quattro aggettivi da abbinare al sostantivo “voto” c’è poco da dire: coloro che tentano di aggirare i concetti di personale, eguale, libero e segreto, vengono denunciati penalmente. Quello su cui i tanti furbi del nostro panorama politico effettuano le giravolte più pericolose, non per loro ma per la democrazia, è il concetto di “dovere civico”. Ne parlano come se l’aggettivo civico togliesse valore al concetto di “dovere”, mentre, invece, lo rende ancora più cogente perché sottolinea che questo dovere riguarda l’intera comunità, e cioè tutti i cittadini, perché senza senso civico nessuna comunità può restare viva, compresa una repubblica e, a maggior ragione, una democrazia che è struttura mirabile, ma delicatissima.

Va detto che in questo caso il non adempiere a un dovere, pur riguardando tutti, può essere privo di gravi conseguenze per un normale cittadino in quanto potrebbe addurre svariatissime scusanti che finirebbero per impedire ogni sanzione in quanto sarebbe impossibile accompagnarle con un giudizio: per esempio l’assenza al voto di un malato sarebbe giustificata, ma da provare.

Questo, però, non può non valere per i rappresentanti delle istituzioni che, come dice l’articolo 54 della Costituzione, oltre ad avere gli stessi doveri degli altri cittadini, visto che a loro «sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore». E non c’è alcuna disciplina, né alcun onore nel suggerire che il voto non è un “dovere civico”.

A suo tempo avevo scritto contro il comportamento dell’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che, da senatore a vita, nel 2016, prima del voto sulle estrazioni di idrocarburi, aveva detto che sperare che il referendum fosse non valido per il mancato raggiungimento del quorum non è antidemocratico o anticostituzionale.

Oggi, però Meloni e complici fanno ancora peggio non soltanto invitando esplicitamente a non andare al voto, ma addirittura non rinunciando nemmeno alla possibilità di una fotografia di propaganda in più: «Vado a votare, ma non ritiro la scheda: è una delle opzioni», ha detto Giorgia Meloni.

La fantasia dei costituenti non arrivava neanche lontanamente a pensare che il diritto di voto, che contemporaneamente definivano “dovere civico”, per ottenere il quale decine di migliaia di italiani avevano sacrificato la propria vita, potesse essere non soltanto trascurato, ma addirittura irriso.

Ma sicuramente non avevano neppure previsto che a guidare il governo della Repubblica Italiana un giorno sarebbero stati dei personaggi che pervicacemente si rifiutano di affermare di essere antifascisti. E che hanno ragione di farlo perché antifascisti non sono.

Andare a votare, soprattutto in questo caso, è doveroso come “dovere civico”, ma “dovere civico” è anche spingere più gente possibile ad andare alle urne, a prendere le schede e a esprimere il proprio voto, qualunque esso sia.

 

domenica 1 giugno 2025

Repubblica non è sinonimo di democrazia

Quando l’uso di determinate parole diventa abituale, il rischio che si corre è quello di non percepire più la complessità della loro natura e, quindi, la realtà del loro significato.

Il 2 giugno, per esempio, in Italia si festeggia la nascita della Repubblica e la data si riferisce al referendum in cui il popolo italiano ha deciso di non volerne più sapere del re, e così, per molti la parola “repubblica” è diventata semplicemente il contrario di “monarchia” e contemporaneamente, vista la situazione del momento, ha assunto anche il ruolo di sinonimo di “democrazia”.

Eppure etimologicamente la non obbligata corrispondenza tra i due termini è più che evidente: repubblica significa cosa pubblica, mentre democrazia vuol dire potere del popolo e non sempre nella realtà le cose sono coincise. Molte sedicenti repubbliche, soprattutto quelle che nella dizione ufficiale sono accompagnate da aggettivi specificativi, non sono state assolutamente democratiche, ma ostaggi di tiranni, dittatori, capi religiosi. Ma anche molte altre hanno visto separare sempre di più la realtà repubblicana da quella democratica.

Se ci fermiamo al nostro Paese, la cosa poteva aver senso nel 1946 e nei primi decenni successivi, ma con il passare degli anni la situazione è drasticamente cambiata e repubblica e democrazia sono diventate sempre meno coincidenti.

Provate a pensarci. Quella volta la percentuale del popolo che decideva, cioè quello che andava a esprimere il proprio voto nelle elezioni di ogni tipo, raramente scendeva sotto il 90 per cento. Oggi ci si considera soddisfatti se si riesce a superare il 50 per cento e così nelle ultime elezioni, quelle del 2022 la coalizione che ha vinto e che ancora oggi governa ha ottenuto il 43,7 per cento dei suffragi dei votanti che sono stati il 63,9 per cento degli aventi diritto di voto. Questo vuol dire che, a fronte di un 30,2 per cento di voti sul totale del corpo elettorale, con il premio di maggioranza previsto dalla legge, governa con il 59,25 per cento dei seggi alla Camera e il 57,5 per cento al Senato.

Questo con il proporzionale puro non accadeva: le maggioranze si costituivano per strada e magari cambiavano all’interno della stessa legislatura, ma avevano davvero il diritto di chiamarsi maggioranza nei riguardi della popolazione italiana e non soltanto dei due rami del Parlamento.

A peggiorare la situazione, riducendo lo spazio della discussione, e quindi del possibile dissenso, si è aggiunta la drastica riduzione dei parlamentari motivata da risibili ragioni di risparmio, mentre si gettano via miliardi a puro scopo di propaganda elettorale.

Democrazia, poi, vuol dire scelta e la scelta può essere tale soltanto nel caso la si possa effettuare con sufficienti informazioni a disposizione. Sempre negli anni Quaranta e immediatamente successivi, le voci da cui la popolazione poteva apprendere quello che stava succedendo erano moltissime e presentavano punti di vista diversi che potevano aiutare nel comprendere a quale forza politica si era più vicini. Oggi le voci della carta stampata si sono ridotte di molto e alcune sono veri e propri bollettini di propaganda; le televisioni, soprattutto quelle controllate dai governi di turno si fanno notare più per le cose che tacciono che per quelle che dicono; il web è preda di chiunque voglia fare propaganda, o, ancor peggio, voglia far passare per vere realtà inesistenti, o situazioni diametralmente opposte a quello che realmente succede.

Potremmo andare avanti a lungo nel parlare di come il concetto di democrazia sia andato in crisi nel nostro Paese, e non soltanto con l’attuale governo, ma già da alcuni decenni, soprattutto nel nome di quella “governabilità” che ha come vero significato quello che appariva su un cartello dei tram di una volta: “Non parlare al manovratore”. E – non può in alcun modo consolarci – ma in altri Paesi sta già andando decisamente peggio, tanto che in una Nazione democratica, in cui il governo è davvero l’espressione del popolo al potere, alcune alleanze internazionali oggi sarebbero fortemente messe in dubbio.

Il fatto è che se si vuole davvero festeggiare la Repubblica, lo si può fare soltanto riconquistando la democrazia. E una prima occasione può essere colta già tra una settimana andando a votare ai referendum. Io voterò cinque Sì, ma l’importante in questo momento è smentire coloro che non vogliono che si vada a votare: a loro la democrazia non solo dà fastidio, ma fa addirittura spavento.