domenica 7 marzo 2021

Scarponi rossi

Otto marzo. La prima cosa da dire è che la locuzione “Festa della donna” è quantomeno impropria, se non sbagliata: forse si potrà parlare di festa quando il numero dei femminicidi si sarà ridotto tanto da far addirittura dimenticare il senso di questo terribile neologismo. Insomma, oggi da festeggiare non si vede proprio nulla e molto più corretto è parlare di Giornata internazionale dei diritti della donna. Poi, se ci si fermasse a guardare il fermo immagine della realtà odierna anche questa seconda definizione basata sul concetto di "diritti" potrebbe sembrare una presa in giro, ma se lo si guarda in divenire, come il fotogramma di un film che è cominciato più di un secolo fa e che ha ancora davanti molto tempo prima di veder comparire la parola “Fine”, allora se ne capisce bene il significato.

Forse mi sbaglio, ma credo che anche in questo campo il procedere tentando di agire su aspetti molto appariscenti, ma tutto sommato di contorno, sia una soluzione che probabilmente darà i suoi frutti, ma impiegandoci una quantità di tempo molto superiore a quella necessaria che comunque non sarà certamente poco.

È sicuramente utile e talvolta anche necessario parlare di un vocabolario che fa fatica ad allargare anche al femminile molti dei suoi appellativi, soprattutto quelli di prestigio, ed è giusto criticare modi di dire, frasi fatte, luoghi comuni e altre particolarità, ma sono convinto che per aggredire davvero lo stillicidio dei femminicidi, la sostanziale mancata parità di genere in termini di opportunità, di merito, di compenso, sia obbligatorio andare alla radice del problema che, a mio modo di vedere, è purtroppo null’altro che una particolare forma di razzismo.

Se ci pensate, infatti, la base da cui nasce il razzismo è di tipo fisico. Questa volta non si tratta di differenze nel colore della pelle, della conformazione degli zigomi, del taglio degli occhi, nella forma del naso, o nel tipo di capelli, ma di altre diversità, alcune molto evidenti. E quando si è trovata di fronte a differenze evidenti l’umanità ha sempre elaborato la convinzione che fossero “gli altri”, in questo caso “le altre”, a essere inferiori e, quindi a dover essere sottoposti, o sottoposte, in una visione di un mondo che da sempre vede il vivere e il progredire fondato sulla base di scontri, di vittorie e di sconfitte. La dizione “sesso debole”, infatti, vuole sicuramente significare qualcosa che va ben oltre l’eventuale minore potenza muscolare.

Ed è proprio con il concetto di razzismo che meglio si possono spiegare le pretese di proprietà, di diritto di vita e di morte, di schiavitù, di subordinazione, di umiliazione che da sempre infettano una consistente parte dei rapporti tra uomini e donne in questo mondo.

Che la parola razza non abbia significato neppure a livello scientifico è un dato ormai assodato, ma non per questo sono finiti i razzismi. E che questo sia vero anche nei rapporti tra i sessi non ha minimamente significato la fine del sessismo. Mi sembra quindi fondamentale che si cominci ad aggredire il problema mirando direttamente al suo cuore e non soltanto limitandosi a eliminare certe pur importanti storture superficiali. Del resto, come scrisse James Baldwin nel suo “Nessuno sa il mio nome”, «Esiste un unico miglioramento possibile per un ghetto: eliminarlo». Per capirci, nell’America di Lincoln, ma anche in molti altri luoghi più vicini a noi nel tempo e nello spazio, il problema non era certamente quello di rendere più accoglienti i dormitori degli schiavi, ma quello di eliminare la schiavitù alla radice.

È stata in quest’ottica che era nata un’iniziativa che poi purtroppo è stata cancellata per i problemi legati al Covid e rinviata a data da destinarsi: avrebbe voluto mettere in evidenza il fatto che la lotta per l’emancipazione femminile non può e non deve riguardare soltanto le donne, ma tutta l’unica razza esistente, quella umana, e, quindi, in prima persona anche i maschi. “Uomini in scarpe rosse” era il motto sotto il quale era stata pensata la manifestazione per significare che i responsabili di questa situazione sono proprio i maschi e che le scarpe rosse con cui si vogliono mettere in evidenza, per non farle dimenticare, le vittime dei femminicidi, almeno idealmente dovrebbero essere calzate anche dagli uomini. Partito dalle piazze di Torino e di Biella il movimento avrebbe dovuto manifestarsi anche da noi, ma se il Covid può bloccare una manifestazione non potrà certo impedire che l’idea si faccia strada nelle menti non ottenebrate dal razzismo sessista.

Forse per gli uomini sarebbe il caso di usare lo slogan “Scarponi rossi” perché troppo spesso l’incedere maschile ha assunto quel tono cupo e cadenzato proprio delle marce militari. E quegli scarponi metaforici sarebbe proprio il caso di lasciarli marcire in qualche piazza sotto le intemperie.

Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

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