venerdì 5 marzo 2021

Il ritorno a quel bivio

 ZingarettiNon ci sono dubbi: le dimissioni di Zingaretti da segretario del PD sorprendono. Ma non perché le abbia date, ma in quanto è riuscito a resistere così a lungo sotto il fuoco incrociato dei cosiddetti “compagni” di partito e anche per l’inconsueta chiarezza con cui ha motivato la sua decisione: «Mi vergogno che nel PD da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid. C’è il problema – ha detto – del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni». C’è anche il problema – aggiungo io – di coloro che si sentono di sinistra e che vedono sempre più lontana la possibilità di votare per un simbolo che davvero li rappresenti e che contemporaneamente abbia la forza, o almeno la possibilità, di tentare di trasformare i sogni in realtà.

Ma del PD parlerò tra qualche riga perché il primo messaggio che deriva da questa vicenda riguarda il sistema di voto e l’assurdità che in un Paese come l’Italia si possa parlare di sistema maggioritario da adottare al posto del proporzionale cercando quel bipolarismo nel nome del quale, nel discorso del 2007 al Lingotto di Torino, Veltroni sventolò l’esca della “vocazione maggioritaria” del partito. Il fatto è che il sistema maggioritario funziona se ad affrontarsi ci sono soltanto due anime sociali e, comunque, tende a impedire la nascita di altre posizioni. Se le anime sono di più il maggioritario diventa una iattura.

La storia del PD è esemplare: nato per mettere insieme quelle che una volta erano orgogliosamente le anime comuniste e democristiane, è diventato soltanto il posto in cui si è abbassato di livello il confronto, per molti versi difficilmente conciliabile, tra queste due anime. Una volta lo scontro si consumava nelle aule del Parlamento, mentre adesso si infiamma già nelle stanze del partito e i risultati si vedono: al di là della reciproca e insanabile diffidenza tra i due filoni politici principali, gli ex democristiani hanno continuato a tenere in vita la loro tradizionale competizione tra correnti, ma hanno finito per contagiare anche gli ex comunisti che, come una volta, vivono ancora le loro divisioni interne, ma non sanno più, alla fine delle discussioni, accettare che vinca la linea scelta dalla maggioranza.

Così finisce che, mentre il compromesso raggiunto a livello di discussione governativa e parlamentare, può diventare per tutti “un passo in avanti”, a livello inferiore – di vita di partito – si trasforma in un’insopportabile sconfitta da parte di coloro che con i vincenti devono ancora convivere e la conseguenza è che la maggior parte delle forze è impiegata per rovesciare questa situazione. Il proporzionale, insomma, non sparisce mai perché in una democrazia le opinioni personali non possono sparire, ma semplicemente lo si abbassa di livello e lo si colloca dove riesce a fare la quantità maggiore di danni, a meno che non ci si trovi a destra dove il capo ha sempre ragione, o in formazioni come quella dei 5stelle nelle quali chi dissente dal capo del momento viene semplicemente espulso.

Con il proporzionale i governi cadevano troppo spesso? Vero. Ma si guardi a come è cresciuta l’Italia, in ogni senso, con governi che cadevano e a come si è sgretolata con i governi, da Berlusconi in poi, teoricamente capaci di durare.

E veniamo al PD che innegabilmente si porta ancora dietro i nefasti esiti dell’infezione renziana. Negli attacchi a Zingaretti, infatti, a distinguersi sono stati soprattutto gli ex compagni di strada del pagatissimo amico dei sauditi. Ma non è questo il punto importante perché ogni virus riesce a fare molto più male se il corpo in cui si attacca è già debole di suo. E il PD è debolissimo in quanto praticamente sprovvisto di quegli anticorpi che si chiamano ideali e che sono talmente forti e totalizzanti da accendere quel fuoco che non soltanto è capace di illuminare speranze lontanissime, ma può anche incenerire ogni tentazione di trasformare il significato della parola “politica” dall’arte di cercare il bene della polis, al mestiere di rincorrere i vantaggi per se stessi a danno dei “polli” che si rassegnano e, magari, non votano nemmeno più.

Detto così potrebbe sembrare che il problema sia soltanto quello di riuscire a recuperare gli astenuti e gli indecisi che ormai sono molto più della metà degli aventi diritto al voto, ma intanto molti di coloro che non votano più a sinistra non lo potranno più fare perché purtroppo non ci sono proprio più per ragioni anagrafiche. Ma soprattutto manca la ragione per votare a sinistra perché manca proprio il fuoco degli ideali che in ogni epoca della storia umana sono stati gli unici motori del progresso sociale che è il progresso di tutti e non soltanto di pochi.

Perché indecisi o astenuti dovrebbero votare per un partito incapace di prendere posizioni ferme e decise su temi come il lavoro, il diritto alla salute, quelli alla dignità, all’istruzione e alla cultura, la parità di genere, la difesa delle minoranze, dei migranti, delle conquiste laiche di uno Stato non confessionale? Tutte cose, tra l’altro, ben esplicitate nella nostra Costituzione. Di tutto questo ogni tanto si sente parlare con un momentaneo calore che, però, serve solo a procurare un po’ di visibilità perché subito dopo l’argomento torna in archivio.

Il fatto è che quando si sbaglia strada e si finisce in un vicolo cieco, l’unico modo per uscirne è tornare al bivio in cui la scelta è stata sbagliata e cambiarla; a quel bivio in cui, in nome di una teorica unità si è deciso di rinunciare a molti dei propri ideali.

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