La democrazia è una forma di governo che ha senso soltanto se è frutto di scelte consapevoli; magari non condivisibili da tutti, ma consapevoli. Altrimenti potrebbe andare bene lo stesso l’estrazione a sorte. La dittatura no, sia perché per difendere se stessa inevitabilmente diventa crudele, sia in quanto non prevede mai alcuna alternanza.
E se le scelte devono essere consapevoli, allora appare evidente l’importanza del peso delle parole, sia in fase attiva, quando le si sceglie per dire qualcosa, sia in quella passiva, quando si ascolta e l’importante è capire. Tutti sappiamo che la politica, nella fase della propaganda, è un po’ come la pubblicità, visto che entrambe cercano consensi e non raccontano la realtà, ma illustrano il desiderio. Quindi, soprattutto in un’epoca in cui la tecnologia ha reso sempre più facile che chiunque possa rivolgersi a grandi masse di persone, è importante potenziare sia la capacità di filtro in fase di ricezione, sia la determinazione a mettere sotto i riflettori le furbizie e le bugie; almeno quelle più evidenti.
Questa determinazione, poi, deve diventare ancora più importante in un periodo di grave pericolo per tutti, come quello della pandemia da Covid-19 in cui, al di là delle criminali sciocchezze dei negazionisti e dei no vax, sono condannabili anche dichiarazioni a sensazione, o tentativi di addolcire la pillola. Perché ogni comunicazione non adeguata, o addirittura falsa, non solo modifica la relazione comunicativa fra le persone, ma finisce per modificare addirittura la realtà stessa. Soprattutto quando si comunica in modo asimmetrico, tra professionisti e non esperti.
Tutti ricordano che don Milani diceva: «Un operaio conosce 100 parole, il padrone ne conosce 1.000. Per questo è lui il padrone». Sono passati più di sei decenni da quando è stata pronunciata questa frase e la situazione, pur restando valida nelle sue conclusioni, si è complicata perché, man mano che il livello di istruzione minima è cresciuto, le parole dell’operaio possono essere diventate 300, come si diceva nel titolo di uno spettacolo di Dario Fo e Franca Rame, ma chi detiene il potere ha pensato bene che, per mantenerlo, si doveva ristabilire la forza di questo disequilibrio e che per riuscirci erano possibili svariati sistemi.
Al di là del continuo depotenziamento e impoverimento della scuola in quasi tutti i suoi livelli pubblici, il primo sistema messo in pratica è stato quello di addolcire certe parole. L’esempio tipico è quello dello spazzino diventato “operatore ecologico”: lo scopo non era di certo quello di far star meglio quel lavoratore, ma di fargli credere di stare meglio e, quindi, di disinnescare la sua voglia di protestare e di tentare di cambiare certe situazioni inaccettabili. E, per inciso, comunque oggi le strade sono decisamente meno curate di una volta.
Poi si è giocato sull’etimologia per ingenerare emozioni diverse. “Confine”, per esempio, etimologicamente indica due realtà che hanno in comune la linea che le separa, ma anche che le tiene vicine, in contatto, attraverso una realtà comune, mentre “frontiera” richiama immediatamente il fronteggiarsi, l’avversarsi. E queste due parole non sono mai state usate in maniera indifferente, ma sempre per spingere il sentire verso determinati obbiettivi.
C’è poi il metodo di dare un significato unico a due parole profondamente diverse. Anche qui un esempio: religione e fede. La prima è la somma di una serie di liturgie, di obblighi, di premi e di punizioni che non presuppongono assolutamente la necessità di una fede che, invece, è la fiducia in qualcosa che non può essere toccata con mano, né dimostrata con la forza di un teorema, ma accettata intimamente con l’ineluttabilità di un postulato.
E poi, ancora, l’uso strumentale per inchiodare certe parole a un significato soltanto e, quindi, a indirizzare il pensiero che ne deriva verso la direzione più comoda: pensate alla parola “vulnerabilità” usata per far nascere sentimenti di inadeguatezza, paura e rassegnazione, mentre, nella sua comprensione complessiva, diventa la chiave necessaria per decidersi a trovare la strada per il rafforzamento individuale e sociale.
Ma pensate anche alla frase che in questi tempi abbiamo sentito mille volte, riferita alla paura dei vaccini serpeggiata dopo le polemiche sull’AstraZeneca: «I benefici dei vaccini sono superiori al rischi». Il mio pensiero va subito al professor Marcello Riuscetti, geologo e sismologo, che quando parla di terremoti e ricostruzione, fa sempre grande attenzione nell’uso delle parole “rischio”, “pericolosità”, “danno” e “beneficio”. E, infatti, ora punta subito il dito contro questa affermazione. Il rischio, infatti, è la probabilità di un evento dannoso, come la percentuale di morti attesi a causa del Covid, mentre il beneficio sarebbe la diminuzione di questa percentuale che, ovviamente, mai potrebbe diventare maggiore della prima. Corretto, invece, sarebbe dire che i benefici dei vaccini, in termini di contagi e, quindi, di morti evitate, sono sicuramente superiori ai costi, cioè ai contagi reali e ai morti conseguenti.
Perché camuffare le parole? Semplice: perché a parlare di benefici si fa intravvedere qualcosa di desiderabile; a parlare di morti, si rischia di essere sgradevoli. Eppure bisognerebbe chiedersi anche se usare un linguaggio esatto, pur se più crudo, non potrebbe essere la chiave per far prendere davvero sul serio un pericolo terribile, per dare un’esatta dimensione ai rischi che si corrono prendendo un vaccino e a quelli legati al subire il contagio.
Forse un po’ di realtà in più nelle partole di tutto quest’anno sarebbe riuscita a dissuadere più gente dal tenere comportamenti irresponsabili e capaci di allargare il contagio. E forse oggi potrebbe far capire che probabilmente ci saranno persone che moriranno per non aver avuto un vaccino che mai le avrebbe uccise.
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