sabato 29 maggio 2021

Come cambiano i limiti

Il forchettone che ha bloccato il freno di sicurezza
Se ci pensate, appare del tutto evidente che i quattordici morti della funivia del Mottarone andrebbero annoverati tra le vittime del lavoro. L’unica differenza, rispetto al solito, è che questa volta a essere ammazzati dall'incuria e dall'egoismo di chi dovrebbe essere responsabile della sicurezza non sono stati gli operai, ma i clienti. E questa non è nemmeno la prima volta: basterebbe pensare al ponte Morandi trotalmente privo di manutenzione e alle 43 persone che vi hanno perso la vita precipitando nel vuoto. O, per andare più indietro nel tempo al disastro del Vajont, causato dalle criminali decisioni della SADE, con oltre duemila vittime; alla colata di fango, provocata da un insensato disboscamento, che ha travolto Sarno e oltre 160 suoi abitanti; alle frane che si abbattono ripetutamente su abitazioni; alle migliaia di vittime provocate da dissesti geologici indotti dall’uomo; e l’elenco potrebbe continuare a lungo.

A Stresa si è addirittura inserito nel freno di sicurezza un aggeggio che lo bloccava. A Genova si è fatto finta di non sapere che la struttura era al collasso. Come nel passato, in entrambi i casi le sciagurate decisioni che hanno portato alla morte di tante persone sono state dettate dalla voglia di far soldi, dalla smania di ottenere un maggiore guadagno operando esasperati risparmi che si realizzano con la mancanza di manutenzione e l'inosservanza delle regole.

In questa nostra Italia stiamo assistendo a un macello quotidiano che mediamente fa contare quasi tre morti al giorno. E in un disinteresse quasi assoluto, interrotto, di tanto in tanto, per la maggior parte della gente, da qualche lacrima per avvenimenti che ci appaiono più commoventi di altri, come quello della giovane mamma Luana, ingoiata e fatta a pezzi a Prato da un orditoio tessile cui era stata tolta una paratia di sicurezza. O quando troppe uccisioni si ammassano in pochi giorni. com'è avvenuto per i due operai morti a Pavia soffocati da un gas fuoriuscito da un tubo rotto mentre loro erano senza maschere di sicurezza.

Lasciamo pur perdere che storicamente non c’è mai stata gratitudine per gli operai, anche se sono stati loro a costruire case, fabbriche e templi, a forare montagne ed erigere ponti, a costruire dighe, macchine e utensili di ogni tipo, ma è assurdo che anche noi giornalisti, che teoricamente dovremmo raccontare la realtà, continuiamo a parlare di “incidenti sul lavoro”. Non sono quasi mai incidenti. Gli incidenti, infatti, sono avvenimenti inattesi. Questi no: sono addirittura tanto abituali da farli apparire come inevitabili, mentre sarebbero evitabilissimi, con norme adeguate, con macchinari non manomessi e non eccessivamente vetusti, con un’adeguata formazione di un personale non turbinosamente cambiato per mantenere la precarietà di chi lavora, con maggiori controlli attualmente impossibili per la carenza di controllori.

Ma soprattutto sarebbero evitabili con un maggiore senso etico che, invece, manca. Pensate ai fatti di Stresa: tre sono finora gli indagati, uno dei quali reo confesso tra lacrime inutili. Ma probabilmente sono di più quelli che, lavorando all’impianto, non potevano non essersi accorti che qualcosa non andava. Eppure sono stati zitti, un po’ come molte volte è accaduto nella storia quando tanti hanno fatto finta di non vedere anche orrori che hanno insanguinato l’umanità.

Sono stati zitti perché il posto di lavoro, soprattutto in periodo di crisi appare troppo importante per poter venir messo a repentaglio dalla vendetta di un datore di lavoro. E, del resto, quando di lavoro ce n’è poco, o, meglio, pochi sono i posti decentemente garantiti, sono sempre di più quelli che si sentono costretti ad accettare condizioni di lavoro inaccettabili, sia materialmente, sia moralmente.

E, dunque, perché non risparmiare sulle misure di sicurezza quando c’è tanta gente disponibile, per fame, ad adattarsi a quasi tutto? E, del resto, come chiedere alle industrie di spendere per la sicurezza in momenti di crisi, se nel contempo si autorizza a licenziare mentre l’esperienza insegna che di questa norma si avvarranno non soltanto le ditte davvero in crisi, ma anche quelle che vorranno diminuire le spese per incrementare i guadagni?

Non basta scrivere leggi severe e non sono sufficienti neppure le condanne e le pene, sempre che poi trovino piena applicazione: il problema è etico e, quindi, culturale. In una società sana, infatti, nessuno dovrebbe essere neppure sfiorato dall’idea di poter mettere a rischio la vita altrui. Anche perché quando le vittime, come a Stresa, come a Genova, possono essere pure i clienti, allora nessuno può sentirsi più al sicuro: nemmeno coloro che a casa loro decidono di scommettere credendo di rischiare soltanto le vite degli altri.

Torniamo al problema dell’etica dei limiti che dovrebbero essere chiari e inviolabili, mentre, invece, sono aleatori e adattati ai propri presunti bisogni. Forse, ammesso che qualcuno ci pensi, questo spostamento di vittime sacrificali dai lavoratori ai clienti potrebbe far sentire coinvolti anche coloro che si ritengono immuni dai rischi che fanno correre agli altri.

Però, invece, occorrerebbe che lo Stato, la scuola, la politica, ognuno di noi cittadini - tutti, insomma - sentissero l’obbligo di insegnare e testimoniare che un comportamento etico è necessario per il bene della società e, quindi, per il bene di tutti.

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giovedì 27 maggio 2021

L'etica del limite

funivia Quattordici morti e un orfano salvato dal disperato abbraccio del papà: un bilancio straziante per non rinunciare nemmeno temporaneamente ai proventi turistici di una funivia. Se avessimo letto questa storia in un libro, o l’avessimo vista in un film, probabilmente avremmo pensato che scrittori e sceneggiatori, nella continua e crescente ricerca di sensazionalismo, finiscono per esagerare tanto da non rendere credibili le loro storie. Ma sul Mottarone era di scena la realtà; incredibile, ma vera. Erano di scena la grettezza, la disumanità di chi considera il proprio denaro più importante della vita altrui, l’egoismo di chi pone il proprio successo, misurabile in risultati economici, davanti a qualsiasi altra cosa.

Alcuni – e non soltanto gli avvocati difensori – diranno che nessuno avrebbe mai potuto prevedere che il cavo traente si sarebbe spezzato e che, quindi, il freno di sicurezza non avrebbe mai dovuto entrare in funzione. Dunque, nessuno avrebbe mai avuto la possibilità di accorgersi che sul freno di sicurezza era stato messo un forchettone per bloccarlo e nascondere, così, un’anomalia non individuata che ogni tanto faceva bloccare le gabine e costringeva a fastidiosi recuperi manuali. Le probabilità che un evento simile potesse succedere – direbbero ancora gli avvocati e i difensori in genere – erano scarsissime e, quindi, la decisione che si potesse rischiare è apparsa molto facile.

Una decisione facile e capace di uccidere quattordici persone, di annientare cinque famiglie. Una decisione spinta anche dalla smania di voler cancellare il Covid e le sue limitazioni per riprendere quella cosiddetta “vita normale” che di normale ha davvero poco e che non vuole nemmeno pensare a quei 125 mila italiani che il Covid ci ha portato via e che sembrano essere diventati – eccezion fatta che per i parenti e per chi ha voluto loro bene – soltanto una delle tante statistiche.

Che il virus avrebbe finito per cambiare la nostra vita anche al di là della durata della pandemia vera e propria era ed è scontato. Quello che forse nessuno avrebbe immaginato con chiarezza è che ci avrebbe inflessibilmente messo di fronte alle nostre contraddizioni mentre ancora l’emergenza sanitaria è ben lontana dal poter essere considerata conclusa. E che ci avrebbe costretto ad affrontare di petto questioni che per anni abbiamo fatto di tutto per procrastinare, sperando magari di trasmettere l'obbligo di risolverle a chi verrà dopo di noi.

Fin dall'inizio siamo stati messi di fronte ai diversi modi di intendere il concetto di libertà e ai problemi che queste interpretazioni, spesso divergenti più che diverse, hanno creato nella nostra vita di ogni giorno: basterebbe pensare al rifiuto di vaccinarsi anche da parte di persone appartenenti a categorie sensibili che, con il loro rifiuto, finiscono per mettere a repentaglio la salute di altri che, invece, avrebbero il diritto – prevalente per la Costituzione, e, non solo per questo, anche per me – di vederla salvaguardata. E i campi in cui queste contraddizioni sono già deflagrate sono tantissimi e diventano sempre di più.

Sempre pensando al bene comune, è evidente il fatto che dobbiamo davvero interrogarci sul concetto di limite; anzi, sull’etica del limite, fin dove è lecito arrivare e quando è doveroso fermarsi. E anche quali sono i limiti accettabili e quali, invece, vanno superati.

Pensateci. Fin dove è lecito allargare le alleanze politiche? Per capirci, non è forse contro natura, e quindi foriera di disgrazie sociali, un’alleanza tra Pd e Lega? Fin dove è lecito semplificare le pratiche degli appalti, andando a minare ulteriormente i non sempre severi controlli sulla sicurezza sul lavoro e le già scarse difese dell’occupazione, dell’ambiente, della società civile sempre più profondamente invasa dalle mafie? Fin dove è lecito pensare soltanto all’oggi, rifiutando di preparare e prefigurare il futuro? E le domande potrebbero proseguire quasi all’infinito.

Tenete presente che sono i limiti, e la loro accettazione o il loro rifiuto, molto più che le consonanze, a definire le differenze politiche. E non per nulla proprio nell’epoca in cui dell’etica dei limiti non si è voluto più parlare, la politica è affogata in quella melma indistinta nella quale anche il parlare di destra e sinistra appariva addirittura provocatorio, in cui l’aggettivo “divisivo” appariva – o, meglio, ancora appare – non un aggettivo capace di descrivere una ovvia realtà, ma una specie di parola offensiva.

Di questa etica del limite dobbiamo riprendere a parlare subito e il più spesso possibile. Perché da quella melma è necessario uscire subito. A ogni livello. Personalmente lo sento come un dovere.

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