sabato 24 gennaio 2015

Una notizia non piccola

C’è una sola cosa in cui Pierpaolo Suber – una vita attiva all’interno della sinistra e coordinatore del Forum cittadino Territorio e Ambiente di Udine – sbaglia, nell’annunciare la sua decisione di lasciare il Partito Democratico: quella di definirla una “notizia piccola”. Piccola può sembrare soltanto a chi ha interesse a sminuirla per poi tentare di nasconderla come la polvere sotto il tappeto, ma è invece molto grande perché riguarda tantissima gente che non si sente più bene all’interno del PD e anche moltissimi di coloro che non escono dal PD soltanto perché prima non ci sono mai entrati, ma che hanno votato quasi sempre per quel simbolo e che ora non si sentono più di farlo.
Ed è molto grande anche perché va a mettere, con grande limpidezza e lucidità, il dito sulle piaghe maggiori che stanno consumando il corpo del partito che era quello di riferimento per la maggior parte della sinistra italiana e che ora, viaggiando strettamente a braccetto con un pregiudicato iscritto alla P2, non soltanto si è spostato sensibilmente a destra, ma ha fatto stomacare quei tantissimi che continuano a ritenere che la questione morale sia fondamentale, anche perché è proprio la crisi dell’etica che è alla base, grazie a corruzione, malavita più o meno organizzata, evasione fiscale, insensibilità o connivenza di parte delle istituzioni e della politica, della crisi economica nella quale siamo immersi.

Suber, infatti, non soltanto punta il dito contro la “inaudita gravità” dei fatti liguri e “l’indecente comportamento” nei confronti di Sergio Cofferati, ma si sofferma, invece, sui rischi di un’uscita dalla democrazia parlamentare che si profila sempre più netta mentre anche l’opposizione interna al partito si aggrappa a emendamenti su aspetti secondari, e non avversa lo stravolgimento della rappresentanza, l’affievolirsi sempre più netto del rapporto tra politica e cittadini, che vengono chiamati in causa soltanto per deporre il voto nelle urne e poi non possono più parlare; né si oppone allo stravolgimento costituzionale che permetterebbe al vincitore di fare il bello e il cattivo tempo per un intero mandato parlamentare, sempre che in quei cinque anni non cambi le cose per prolungare indefinitamente quel periodo.

Suber cita “Qualcuno era comunista” di Giorgio Gaber per far capire perché aveva aderito a quel partito e l’accento struggente di quel testo sembra far indulgere a sentimenti di malinconia, se non di rassegnazione. Ma quei valori di solidarietà e di spinta all’utopia non possono essere scomparsi, non possono essere stati soffocati neppure dal duetto Berlusconi-Renzi. Si tratta non di farli rivivere, perché non sono mai morti, ma di farli tornare a galla e di riprendere a combattere democraticamente ricordando che il peccato più grave di cui un uomo si possa macchiare è quello di omissione, perché è l’unico sicuramente deliberato, perché antepone l’interesse personale a quello generale, perché per piccini desideri di tranquillità può spalancare la strada a enormi disastri.

In questi tempi si è discusso spesso se era più giusto entrare in massa nel PD per cambiarlo dall’interno, o organizzare qualcosa che tentasse di cambiarlo dall’esterno. Pierpaolo Suber, che l’interno di quel partito conosce molto bene, ha scelto la seconda strada. E questa non è davvero una “notizia piccola”.


martedì 20 gennaio 2015

Il peso delle parole

Fulminante la vignetta odierna di Bucchi su Repubblica. Dal solito profilo umano, abbastanza indistinto, si alza un pensiero: «Per cambiare il mondo si aspetta il momento in cui uno solo possiederà tutto». Mi è difficile non pensare che non si riferisca all’odierna situazione italiana nella quale ormai chi ha la responsabilità di governo non si accontenta di operare con la maggioranza di cui dispone, ma che vuole avere la certezza che questa maggioranza sia invulnerabile e, anzi debba essere allargata fino a comprendere proprio tutti, e ubbidienti; che non accetta alcun segno di dissenso, anche se questo dissenso non nasconde un’inimicizia di base, ma soltanto un disaccordo sulle cose che possano far davvero bene al nostro Paese. E, quindi, visto che un punto basilare della natura umana è rappresentato dal fatto che nessuno ha sempre ragione, il disaccordo è sempre e soltanto una forte sollecitazione a discutere sul serio e non a far finta di discutere avvertendo fin dall’inizio: «Dite pure quel che volete, ma tanto poi si fa quello che dico io perché ho i numeri». Salvo, quando questi numeri cominciano a vacillare, subire crisi che portano a pronunciare frasi che non appartengono certamente al repertorio di uno statista propriamente detto. 

Ripercorriamo alcune di quelle dette ieri da Renzi: «La minoranza del Pd punta a votare una legge elettorale contro di me e contro il partito. Mi vogliono accoltellare, questa è la verità». Una legge elettorale contro di me? Ma allora la legge elettorale non deve tendere alla realizzazione di una democrazia compiuta, ma deve favorire una parte per sfavorire un’altra? E, poi, accoltellare? Questo verbo fa presupporre un attacco a tradimento mentre la tanto vituperata “minoranza del PD” sta dicendo quello che pensa da mesi e mesi, senza nascondere nulla, senza comperare voti e senza chiedere aiuti al centrodestra. Altro che attacco a tradimento: è una ricerca di confronto mai accettato davvero.

Altra frase: «Non mi spavento certo di Gotor». E prosegue: «È chiaro che se passano le loro modifiche, io vengo sfregiato. Poi però si va a votare. Anche con il Consultellum». In politica a spaventare non dovrebbero essere le persone, ma, eventualmente, le idee e Renzi alle idee altrui non fa mai riferimento. Il problema è che teme di essere “sfregiato” lui stesso identificandosi, evidentemente, con il partito di cui è segretario, ma che non corrisponde più a quello al quale inizialmente si era iscritto. 

E ancora: «Hanno avuto un sacco di roba: i ballottaggio, il premio alla lista, le preferenze. Se il Pd vince avrà solo il 30 per cento di nominati». A parte il fatto che su queste tre “robe avute” ci sarebbe da discutere, ma “hanno avuto” chi? Nel mondo evocato da Renzi, sembra che sia lui a elargire oboli a questuanti che chiedono cose che servano a loro e non alla comunità. Nella visione delle cose renziana sembra non esistere assolutamente il concetto democratico secondo il quale idee diverse si confrontano alla ricerca del compromesso più vicino possibile al bene comune e poi, se proprio non si riesce a trovare un accordo, si va a votare, ma per le proprie idee e non per quello che dice il “capo”.

Però la storia insegna che, anche se alla lunga, il peso della sostanza delle parole è sempre superiore a quello delle minacce.

domenica 18 gennaio 2015

Se l'elastico si spezza

Spesso in politica le reazioni possono essere più illuminanti delle azioni. E così avviene anche per quanto è stato detto sull’uscita di Cofferati dal PD (che, non dimenticando Prodi, sembra amare la cannibalizzazione dei suoi padri) dopo il “pasticciaccio brutto” di Genova perché, per prima cosa, va specificato che l’ex segretario della CGIL è uscito dal partito di cui era tra i fondatori non perché ha perso, ma per come le regole sono state cancellate; e in democrazia, se le regole vengono cancellate, la prima a perdere, e quindi a morire, è proprio la democrazia.
La Costituzione dice che «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» e, come sottolinea Crisafulli combinando il dettato dell'articolo 18 con quello dell'articolo 49, i partiti sono citati al plurale perché sono «portatori di altrettante diverse concezioni dell'interesse generale». In Liguria – ma non soltanto lì – tutto questo è stato stravolto perché con la richiesta da parte della Paita e dei suoi patrocinatori di un sostegno dell’elettorato di centrodestra alle primarie, e con la ventilata possibilità di creare una giunta che tenesse conto anche delle esigenze del medesimo centrodestra, si è cancellato il concetto stesso di partito e, quindi, di diversità di programma politico, impedendo una scelta democratica agli elettori e presentando, quindi, una specie di minestrone in cui i vari ingredienti perdono caratteristiche visive, olfattive e gustative. Se, poi, le cosiddette “larghe intese” possono essere uno strumento politico temporaneo per superare momenti difficili, questo espediente non può diventare un sistema, più o meno dissimulato, per mantenere un potere sulle decisioni da prendere a nome della comunità; decisioni che non avrebbero più un indirizzo democratico, appunto, ma sarebbero dipendenti soltanto dalla volontà degli eletti a prescindere da quella degli elettori.

Si potrebbe dire che l’inquinamento del centrodestra nelle primarie del centrosinistra era già evidente in quelle che hanno visto Renzi diventare segretario del PD. È vero, ma il problema si è aggravato sia qualitativamente, sia quantitativamente. Qualitativamente in quanto l’invito agli elettori di destra a dire la loro sulle decisioni del centrosinistra questa volta è stato esplicito, a dimostrazione che non serve più nemmeno far finta che delle regole democratiche, anche se non scritte, ci siano. Quantitativamente perché lo stesso invito è stato ribadito anche dai maggiorenti del centrodestra e, quindi, presumibilmente, i votanti berlusconiani, alfaniani, o anche altro, sono stati decisamente di più dell’altra volta.

Claudio Burlando, presidente uscente della Liguria e patrocinatore della Paita dice che «Se il Pd non si ricompatta, c'è il serio rischio di perdere le elezioni regionali liguri». A lui si può rispondere che bisognerebbe discutere sul significato di “vincere” e di “perdere”: a “vincere” o a “perdere” sarebbe un’idea politica con i suoi valori e le sue convinzioni, come continuiamo a pensare in molti ingenui tradizionalisti affezionati alla democrazia e alla Costituzione, oppure sarebbe una specie di comitato allargato che non esprime più un indirizzo politico, ma soltanto una presunta necessità di stabilità governativa? Il democraticamente assurdo «Lasciatelo lavorare» dedicato per vent’anni dai suoi sostenitori a Berlusconi, ora viene ripetuto per Renzi e viene anche clonato per i suoi fedelissimi. E, in quest’ottica, non appare strano che Berlusconi renda pubblica una teorica sfuriata contro Brunetta reo di apostrofare in modo troppo rude lo stesso Renzi.

Ma non è soltanto dal punto di vista squisitamente politico che l’attuale PD sembra inadeguato perché non offre agli elettori una possibile scelta chiara. La stessa miopia sembra danneggiarlo anche dal punto di vista puramente pragmatico perché se la disaffezione dimostrata dai suoi elettori nella roccaforte dell’Emilia Romagna non ha insegnato nulla, allora i risultati delle prossime elezioni potrebbero anche causare una frammentazione del partito che andava tronfio del suo 40,8 per cento e che potrebbe perdere per strada una consistente fetta di elettorato che non lo riconoscerebbe più come partito che prede le sue parti.

Ogni elastico dà l’idea di poter essere tirato indefinitamente, ma se si spezza non è più possibile rimetterlo insieme.

Sulla vicenda ligure e le sue conseguenze è già stato pubblicato un blog che potete trovare all’indirizzo http://carbonetto-udine.blogautore.repubblica.it/2015/01/17/casa-propria-o-casa-altrui/

Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

sabato 17 gennaio 2015

Casa propria o casa altrui?

La decisione di Sergio Cofferati di uscire dal PD, partito di cui è tra i fondatori, non è cosa che possa lasciare indifferenti e può anche costituire un punto di snodo fondamentale nelle vicende politiche italiane perché è una spinta decisa, se non decisiva, verso una chiarificazione della reale collocazione politica del partito che era erede di parte della sinistra italiana e che si è spostato sempre di più verso il centrodestra.
Della squallida vicenda delle primarie liguri è praticamente inutile parlare: tutti noi abbiamo visto personalmente, nelle primarie alle quali abbiamo partecipato, quante persone di indubbia fede di centrodestra siano andate a inquinare le elezioni interne del centrosinistra. E inquinare è la parola esatta in quanto il centrodestra ha decisamente spostato verso se stessa la barra di un timone politico che non è più diretto nel verso in cui – pur faticosamente e con reciproci sacrifici – era stato fissato da donne e uomini dei DS e della Margherita.

È importante parlare, invece, di come questa vicenda sia stata vissuta nel PD. Lasciamo pur perdere la grande arroganza e la scarsissima profondità politica dimostrate dalla “vincitrice” Paita, sempre e comunque sorridente, come renzismo comanda, anche davanti alle accuse più nefande. E, in definitiva, non stupisce neppure che la vicenda sia finita – e con non eccessivo rilievo – nelle pagine interne dei quotidiani: intanto perché giustamente i fatti avvenuti in Francia meritavano lo spazio maggiore e più importante, ma un po’ anche in quanto ormai le polemiche sulle primarie del PD sono diventate una costante e, quindi, non fanno più tanta notizia.

Quello su cui è invece doveroso soffermarsi è il silenzio all’interno del PD: da parte della maggioranza perché certe nefandezze, quando si vince in quel modo, è meglio lasciarle sfumare con il passare del tempo; dall’altra parte perché nella minoranza del partito di Renzi c’è una sorta di rassegnazione con cui vengono accolti e accettati imbrogli e soprusi.
 

Credo che oggi, mentre Cofferati decide di andarsene sbattendo la porta, sia fondamentale analizzare meglio la frase di Pierluigi Bersani: «Io non me ne vado perché questa è casa mia». Chi è nel giusto? O, forse, entrambi sono nel giusto, ma seguono strategie diverse? Insomma, quando un Paese viene invaso da truppe straniere continua a essere la propria casa, come dice Bersani, oppure diventa – si spera temporaneamente – una casa altrui, come fa capire Cofferati?

Credo che l’importante non sia dare una risposta a questo quesito, ma, come più volte ha insegnato la storia, che sia necessario mettersi di fronte al problema di come riconquistare la propria casa: se facendo resistenza all’interno, oppure conducendo una battaglia di liberazione dall’esterno. Entrambe le soluzioni possono essere percorribili, ma richiedono determinazione, sacrificio e pazienza.

Per il successo di entrambe, però sono necessari almeno due presupposti: il primo consiste nell’essere convinti che la sinistra abbia diritto a un proprio spazio (a prescindere se vincente, o perdente) nel quale cercare di sviluppare i propri valori; il secondo è far capire a tutti che quello che viene definito, soprattutto da interessati esponenti di destra, come un partito di sinistra, non è più nemmeno lontanamente tale, anche a prescindere dai reiterati tentativi di regali da fare a Berlusconi.

Insomma, la resistenza, che sia dall’interno, o dall’esterno, ha bisogno di basarsi su una questione morale che, oltre che guardare ai tanti problemi irrisolti dal punto di vista delle illecite commistioni tra politica ed economia, metta in primo piano anche l’uso onesto del vocabolario, la trasparenza nelle proprie intenzioni davanti all’elettorato e la necessità di cancellare quei modelli pessimi di comportano che sono diventati ormai frequenti nelle consultazioni elettorali e sui quali, in alto loco, si preferisce fare silenzio.

Tutti dovrebbero ricordare che è importante far vincere un partito che porti i propri ideali, e non far vincere un partito che continui a usare il medesimo nome, ma che porti ideali opposti.

lunedì 5 gennaio 2015

Sempre meno “demo”, sempre più “crazìa”

Sarebbe facile continuare a sottolineare le infinite incompatibilità tra le scelte fatte da Renzi e una politica davvero di sinistra, o, almeno, di centrosinistra. Oppure ci si potrebbe anche soffermare su quanto lucida sia l’analisi di Thomas Piketty, il francese definito “l’economista più autorevole del 2014” dal Financial Times, quando dice che il vero rischio per l’Europa non è costituito dalla voglia di equità sociale di Tsipras, ma dall’immobilismo egoistico della Merkel e dall’ipocrisia rapace di Junker; cosa quasi immediatamente confermata dalla stessa Merkel e dal suo ministro Schäuble quando hanno fatto trapelare che, tutto sommato, nulla succede se la Grecia decide di uscire dall’euro.
 
Però, se non ci si vuole limitare a lamentarsi e a recriminare, ma si punta a reagire in qualche modo per cambiare l’andazzo con cui – in Italia e in Europa – i problemi degli altri non vanno risolti, bensì soltanto eliminati dalle tavole di discussione, allora occorre cominciare a pensare a come fare davvero opposizione, con la speranza di riuscire a cambiare sul serio le cose. Perché, se continueremo a ragionare con i vecchi canoni non riusciremo mai a cavare un ragno dal buco visto che intanto la democrazia ci è già cambiata sotto gli occhi, e con lei sono cambiate le regole con le quali ci si deve battere per realizzare i sogni o le utopie legati ai propri valori. Questo, insomma, non vuole essere un commento a un fatto già verificatosi, ma piuttosto un invito a ragionare insieme, a cercare una strada per riuscire a trovare la possibilità di governare avvenimenti che ancora devono accadere.

Credo che la prima cosa di cui si debba tener conto è che non viviamo più in un sistema proporzionale, ma in uno maggioritario e questo comporta il fatto, o almeno la convinzione, che chi è in maggioranza può fare ciò che vuole senza curarsi troppo delle opposizioni; non soltanto sulle cose fondamentali (e questo può essere comprensibile perché sui principi fondamentali è difficile trovare compromessi, a meno di non rinunciare proprio a quei principi), ma anche su determinati particolari che potrebbero essere oggettivamente migliorativi. Chi è in maggioranza, insomma, dice di no – a prescindere – a qualsiasi proposta di cambiamento, rispetto alle proprie decisioni, anche se arriva dal proprio stesso partito, in nome di quella cosiddetta “governabilità” che, checché ne dicano i sostenitori, è il maggiore pericolo per la democrazia perché presuppone velocità di decisione e assenza di discussione, mentre la democrazia proprio sulla discussione – e sui tempi da essa richiesti – si basa.

In questo quadro va valutata negativamente, secondo me, anche la volontà di abolire il Senato nella forma voluta dai padri costituenti che, secondo l'ormai quasi ex presidente Napolitano, in questo hanno commesso un errore perché ha rallentato insopportabilmente l’attività legislativa. Però, contemporaneamente, l’esistenza di quel Senato ha consentito un controllo molto più attento dell’attività del potere esecutivo. Controllo anche a livello molto basso e l’ultima prova è data dal pasticcio che stava per passare, a favore di Berlusconi, sulla riforma del fisco: se non c’è dolo, c’è un colpevole pressapochismo almeno pari a quello che ha causato il crollo del viadotto inaugurato da appena dieci giorni in Sicilia.

E non vorrei anche che si dimenticasse in alcun modo che, proprio con una teorica scarsa governabilità, l’Italia è riuscita a riemergere dalle macerie della guerra e a costruire e consolidare il boom economico, mentre proprio nel periodo delle smanie di “governabilità” ha eroso tanto il terrazzamento su cui si era assestata da rischiare seriamente di cadere nel baratro. Difficile credere alle coincidenze.

È proprio nel passaggio dal proporzionale al maggioritario, dalla ricerca delle convergenze possibili alla “governabilità” senza rallentamenti e senza approfondimenti, che la democrazia italiana rischia di diventare sempre meno “demo” e sempre più “crazìa”. Pensateci: una volta tutti i gruppi che avevano da dire qualcosa che metteva d’accordo una quantità consistente di persone avevano la possibilità di avere l’attenzione di chi aveva il potere di decidere. Manifestazioni, scioperi, ma anche interventi e interviste a nome di gruppi e organizzazioni, inducevano i partiti a non trascurare di valutare le varie richieste perché uno 0,2 / 0,3 per cento in più o in meno alle elezioni poteva fare la differenza tra l’entrare nella coalizione di governo, o nel restarne esclusi. E, quindi, la ricerca di soluzioni non soltanto di parte era quasi obbligata. Ora questo non avviene più perché chi possiede una maggioranza blindata dai premi elettorali può benissimo infischiarsene delle opinioni altrui e procedere sordo e determinato come un bulldozer. Ma anche perché i partiti non sono più tali e si sono trasformati sempre di più in comitati elettorali di un leader diventato tale in mille modi diversi tra i quali la visione politica molto spesso sembra essere il meno importante

Ovviamente nel tempo del proporzionale c’erano anche abusi e prepotenze, errori e contraddizioni, sacche di privilegi e di delinquenza. Aspetto ancora, però, che qualcuno mi dimostri che abusi e prepotenze, errori e contraddizioni, sacche di privilegi e di delinquenza non ci siano stati e non ci siano anche nell’epoca del maggioritario. Anzi, sono stati e sono, pur in meno anni, molti di più.

Ora, se non ci si vuole rassegnare a un mondo in cui i forti comandano e gli altri obbediscono, i ricchi vivono negli agi e i poveri muoiono di fame, di freddo, di malattie e (perché no?) di sete visto lo scandaloso aumento delle tariffe dell’acqua che rende anche il liquido fondamentale per la vita sempre meno raggiungibile per chi non ha soldi, bisogna chiedersi come si può realizzare un’efficace opposizione a quello che sta accadendo nel nostro Paese e, poi, anche in Europa. Come si può allestire un’efficace nuova Resistenza che non si basi assolutamente sulle armi, ma sulla forza della ragione e del convincimento e che dia nuovamente alla popolazione il piacere della democrazia vera, la gioia di partecipare non soltanto al voto, ma anche alla costruzione di soluzioni che comunque vengono cercate, anche se comportano tempo e fatica.

La risposta è difficilissima ed è alla sua ricerca, per prima, che tutti devono partecipare. E, a proposito di Resistenza, proprio dalla pagina più luminosa dell’ultimo secolo di storia italiana deve arrivare il primo comandamento: quello di restare tutti uniti almeno sull’obbiettivo primario di riconquistare la nostra democrazia. Quella volta rischiavano la vita insieme comunisti e monarchici, cattolici e azionisti, socialisti e liberali, anarchici e radicali. Questa volta la vita non la rischia nessuno e se a questo obbiettivo ci si tiene davvero la perdita di un po’ di tempo per lavorare seriamente insieme, almeno a sinistra, non dovrebbe spaventare. O, almeno, dovrebbe spaventare molto meno di quello che si sta profilando all’orizzonte.

Io, almeno, la penso così. E voi?