giovedì 26 aprile 2012

Il senso di quei fischi

Molto probabilmente dalle cronache delle manifestazioni udinesi per il 25 aprile resteranno in evidenza soprattutto i fischi che hanno accompagnato il sindaco di Cividale, Balloch, nelle sue prime parole in piazza Libertà.
Per alcuni si è trattato di fischi giusti in quanto Balloch è quel sindaco che con altri due ha dato il via al tentativo di spaccare anche visivamente il ricordo della Resistenza; perché è esponente di un partito – il Pdl – che ha fatto e fa di tutto per stravolgere la Costituzione che della Resistenza è figlia legittima; perché il suo Comune è quello che ha voluto dare lustro ai gladiatori tutti, dimenticando che se certi erano persone del tutto degne (anche se secondo me sbagliavano), altri non lo erano affatto visto che hanno dato a terroristi ancora per buona parte ignoti l’esplosivo che ha ucciso tre carabinieri a Peteano; perché… potrei andare avanti ancora, ma mi sembra sufficiente.
Per altri si è trattato di fischi sbagliati perché in democrazia, come ha detto immediatamente dopo e in maniera cristallina Luciano Rapotez, tutti hanno diritto di esprimere la loro opinione, pur se personalmente ritengo che Balloch si sia limitato a snocciolare nomi, numeri e ovvietà che prescindevano da ogni opinione possibile; perché… anche qui mi sembra che l’argomento sia già sufficiente.
Io credo che di quei fischi si dovrebbe parlare in maniera diversa perché in realtà la loro sostanza era rivolta proprio a noi che la Resistenza la onoriamo ogni anno e che la rispettiamo per tutto l’anno; o, meglio, che crediamo di rispettarla perché in realtà così non è. Se davvero l’avessimo rispettata ogni giorno, mai si sarebbero potute creare le condizioni perché una persona che appartiene a un partito che non crede nei valori della Resistenza e, anzi, spesso li dileggia potesse parlare il 25 aprile in piazza Libertà. Se davvero avessimo anche noi resistito, senza armi in mano ma con la Costituzione e l’indignazione sempre dentro di noi, non saremmo mai arrivati a questo punto dopo aver visto sfarinarsi e crollare molti dei valori sui quali questa Italia è nata e sui quali avrebbe dovuto reggersi.
È inutile che imprechiamo contro i tanti Balloch e il fortunatamente raro Berlusconi: dovremmo invece imprecare contro noi stessi per la pigrizia o lo stolido ottimismo indotto dalla pigrizia stessa che ha permesso a Berlusconi, ai suoi e agli ex suoi (non pensiamo, per favore, che siano diventati né santi, né paladini della libertà) di arrivare dove sono arrivati.
Avremmo dovuto sempre avere in testa che, come ha detto Honsell, non si può esistere senza resistere. Ce ne siamo dimenticati e buona parte di quei fischi toccano ineluttabilmente a noi. Anche per ricordarci di non ricadere mai più negli stessi errori.

mercoledì 18 aprile 2012

Il significato della parola lobby

Uno dei maggiori problemi italiani consiste nella distrazione con cui si ascoltano le dichiarazioni dei cosiddetti uomini politici: quando Alfano, Bersani e Casini dicono che sarebbe una sciagura cancellare il finanziamento pubblico ai partiti (che loro, per legge, chiamano "rimborso elettorale") perché darebbe spazio alle lobby, soltanto un popolo molto distratto può non rispondere loro almeno con un'assordante serie di pernacchie.
Intanto perché, visto che le spese elettorali sono state circa un quarto dei soldi che poi hanno ricevuto, sarebbe abbastanza logico - e quindi politico - parlare dei "rimborsi elettorali" almeno come si parla degli altri rimborsi spese di questo mondo: esigibili soltanto con pezze giustificative.
Ma è soprattutto quella parola "lobby" che dovrebbe far scattare l'immediata e assordante reazione di un Paese normale perché è proprio grazie alla parola "lobby" che si capisce il vero senso della loro sciagurata crociata. Per lobby, infatti, si intende un gruppo di persone che, sebbene estranee al potere politico, hanno la capacità di influenzarne le scelte, soprattutto in materia economica e finanziaria. Insomma: è naturale che non vogliano dare spazio alle influenze esterne se possono tenere tutto il potere per sé.
Il dramma è che in questa situazione aumentano i consensi coloro che parlano di antipolitica, mentre è proprio di politica, di quella vera, che si avrebbe un disperato bisogno. Di quella politica che può tentare di risolvere i problemi della gente, sia perché questi problemi li conosce, sia perché le interessano.

venerdì 13 aprile 2012

Obbedienza e democrazia

C'è poco da fare: la politica continua a essere una vera maestra nel campo dell'etica sociale. A dire il vero una volta tentava di indicare quali erano i comportamenti socialmente utili, mentre ora è efficacissima nell'insegnare quali sono quelli più deprecabili. Alcuni, però, direbbero che si tratta di un dettaglio.
Prendiamo il caso di Rosy Mauro che in un Paese normale sarebbe già stata espulsa quando dallo scranno presidenziale del Senato (lei è ne ancora vicepresidente e, pur cacciata addirittura dalla Lega, non intende proprio andarsene) ha inscenato un'indegna gazzarra, non soltanto procedurale, pur di cancellare a ritmi da Ridolini decine e decine di emendamenti che andavano contro il volere di Bossi.
Bene: oggi sbaglierebbe chi pensasse che è stata punita perché accusata di essersi resa colpevole di aver usato a fini personali del denaro - tanto denaro - che al partito era arrivato dal cosiddetto finanziamento pubblico: è stata mandata via perché si è macchiata dell'incancellabile colpa di non aver obbedito a Bossi, al capo, quando le aveva chiesto di dimettersi dalla vicepresidenza. Il Trota ha ubbidito ed è ancora lì, pronto a riprendersi posti e prebende che dinasticamente gli spettano.
Non si tratta, insomma, di una decisione etica, ma di una mancanza di obbedienza al volere del capo. Nell'Italia di oggi ci può stare di tutto, ma spero che almeno nessuno osi più dire che la Lega stia insegnando agli altri cosa sono due parole come "onestà" e "democrazia": la prima è offuscata dal numero di possibili coinvolti leghisti di altissimo grado che sta uscendo dalle inchieste delle varie procure, la seconda è cancellata dal fatto che se non si ripete esattamente quello che dice il capo si è fuori dal partito. Mentre la democrazia è proprio l'incarnazione del libero pensiero e l'obbedienza, come diceva impeccabilmente don Lorenzo Milani in tempi non sospetti, «non è più una virtù». E come impeccabilmente è stato ripreso da Vito Mancuso nel suo bellissimo "Obbedienza e libertà".
In un Paese normale queste constatazioni potrebbero già significare la fine di un partito, ma in Italia quello che da altre parti potrebbe essere paragonato a una specie di "cupio dissolvi", si rivela sempre per tutti un'inezia di poco conto. Come in altra maniera si potrebbe infatti giustificare il fatto che anche il PD è unito ai centristi e al PDL nel non accettare tagli al cosiddetto "finanziamento pubblico"?
La realtà è che anche loro dei risultati elettorali vedono soltanto le percentuali e non le cifre assolute e più vere; hanno perduto milioni di voti e altri ancora ne perderanno perché l'astensionismo si avvicina ormai al 50 per 100 per lo schifo che viene purtroppo destato dalla parola "politica" che, invece, dovrebbe essere una delle più belle del nostro vocabolario. Al pari di "democrazia" e al contrario di "obbedienza".

venerdì 6 aprile 2012

Se questa è la governabilità...

In tutta sincerità, il fatto che Bossi si sia dimesso e che se ne vada dalla vita politica italiana (ammesso che se ne vada davvero) mi riempie contemporaneamente di gioia perché è come se si fosse aperta una finestra e un po' di aria fresca fosse entrata a spazzare via alcuni dei tanti miasmi che ci soffocano, ma anche mi rattrista in quanto sono stati motivi legati al denaro, anzi al cattivo uso del denaro altrui, a costringerlo al grande passo; non quei miasmi tra cui il razzismo, l'intolleranza culturale, etnica, linguistica, religiosa, la violenza verbale, l'assenza di rispetto per le istituzioni, la minacciosità verso chi non credeva alle sue invenzioni pseudopolitiche - Padania in testa - e alle sue panzane in tutti i campi.
E ancora più triste mi rende il fatto che sembra che soltanto il denaro sia usato per mettere in crisi i leader dei partiti e che soltanto il denaro sia in grado di riuscirci. Anche per Berlusconi vale lo stesso discorso perché soltanto il crack economico nazionale è riuscito a fare quello che infinite considerazioni etiche e politiche, non soltanto personali, avrebbero dovuto riuscire a provocare ben prima.
Anche questo è un perverso frutto di quel sistema elettorale che molti si ostinano a presentare come un puro aspetto tecnico della politica e che, invece, è davvero sostanziale. Perché è il maggioritario che impone i leader e che, quindi, rende inevitabile che fortune e disgrazie di ogni partito dipendano più dalle qualità e dai difetti dei leader che non dalle idee che portano avanti.
Ogni fragorosa caduta dei leader di partito, ogni loro traballare mi fa tornare la voglia di proporzionale; corretto, sì, ma proporzionale. Perché se è questa la "governabilità" che il maggioritario assicura, allora guardo con sempre maggiore nostalgia a un'Italia in cui i governi magari cadevano un po' troppo spesso, ma nella quale comunque si continuava a cescere economicamente e socialmente e in cui ogni categoria di questo Paese riusciva a farsi ascoltare e, in piccola o grande parte, a influire sulle decisioni finali, senza mai sentirsi rispondere che il popolo non era preparato alle necessità tecniche della situazione.

Se questa è la governabilità...

In tutta sincerità, il fatto che Bossi si sia dimesso e che se ne vada dalla vita politica italiana (ammesso che se ne vada davvero) mi riempie contemporaneamente di gioia perché è come se si fosse aperta una finestra e un po' di aria fresca fosse entrata a spazzare via alcuni dei tanti miasmi che ci soffocano, ma anche mi rattrista in quanto sono stati motivi legati al denaro, anzi al cattivo uso del denaro altrui, a costringerlo al grande passo; non quei miasmi tra cui il razzismo, l'intolleranza culturale, etnica, linguistica, religiosa, la violenza verbale, l'assenza di rispetto per le istituzioni, la minacciosità verso chi non credeva alle sue invenzioni pseudopolitiche - Padania in testa - e alle sue panzane in tutti i campi.
E ancora più triste mi rende il fatto che sembra che soltanto il denaro sia usato per mettere in crisi i leader dei partiti e che soltanto il denaro sia in grado di riuscirci. Anche per Berlusconi vale lo stesso discorso perché soltanto il crack economico nazionale è riuscito a fare quello che infinite considerazioni etiche e politiche, non soltanto personali, avrebbero dovuto riuscire a provocare ben prima.
Anche questo è un perverso frutto di quel sistema elettorale che molti si ostinano a presentare come un puro aspetto tecnico della politica e che, invece, è davvero sostanziale. Perché è il maggioritario che impone i leader e che, quindi, rende inevitabile che fortune e disgrazie di ogni partito dipendano più dalle qualità e dai difetti dei leader che non dalle idee che portano avanti.
Ogni fragorosa caduta dei leader di partito, ogni loro traballare mi fa tornare la voglia di proporzionale; corretto, sì, ma proporzionale. Perché se è questa la "governabilità" che il maggioritario assicura, allora guardo con sempre maggiore nostalgia a un'Italia in cui i governi magari cadevano un po' troppo spesso, ma nella quale comunque si continuava a cescere economicamente e socialmente e in cui ogni categoria di questo Paese riusciva a farsi ascoltare e, in piccola o grande parte, a influire sulle decisioni finali, senza mai sentirsi rispondere che il popolo non era preparato alle necessità tecniche della situazione.