martedì 31 luglio 2018

Se questo è un uomo

La quasi totalità della critica, nell’analizzare il libro d’esordio e più conosciuto di Primo Levi, “Se questo è un uomo”, sottolinea che l’autore l’ha scritto non per muovere accuse ai colpevoli, ma come testimonianza di un avvenimento storico e tragico; e lo stesso Levi disse che l’idea era nata «fin dai giorni del lager per il bisogno irrinunciabile di raccontare agli altri, di fare gli altri partecipi»; senza chiedere compassione, ma consapevolezza e vigilanza morale. In tutto il testo il tono dell’autore si mantiene inflessibilmente mite, senza giudicare e senza odiare, ma anche senza essere disposto a perdonare gli aguzzini. E questa mancanza di livore esplicito, di morbosità ribollente moltiplica l’efficacia con cui viene descritta una realtà indescrivibile: «Per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo».
 
A fare eccezione in questa specie di implacabile bisogno di testimonianza, più che di giudizio – perché c’è la consapevolezza che il giudizio non potrà non uscire, inequivocabile, dai fatti – c’è la poesia che apre il libro e che gli dà il titolo. Tutti concordano sul fatto che il “Se questo è un uomo” vada riferito a colui al quale viene sottratta l’umanità nei Lager come quello di Monowitz, campo satellite del complesso di Auschwitz, in cui Levi è stato imprigionato. Nel corpo centrale, infatti, Levi pone i versi: «Considerate se questo è un uomo / Che lavora nel fango / Che non conosce pace / Che lotta per un pezzo di pane / Che muore per un sì o per un no. / Considerate se questa è una donna, / Senza capelli e senza nome / Senza più forza di ricordare / Vuoti gli occhi e freddo il grembo / Come una rana d’inverno».

A me, invece, è rimasta sempre la certezza che, visto anche che la struttura della poesia è modellata come una preghiera della religione ebraica e che rappresenta un vero e proprio scoppio d’ira biblica con tanto di terribile maledizione finale, il vero dubbio sulla reale umanità riguardi non i vessati, ma alcuni di coloro che sono elencati nei primi versi («Voi che vivete sicuri / Nelle vostre tiepide case, / voi che trovate tornando a sera / Il cibo caldo e visi amici:») e maledetti negli ultimi («Meditate che questo è stato: / Vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore / Stando in casa andando per via, / Coricandovi alzandovi; / Ripetetele ai vostri figli. / O vi si sfaccia la casa, / La malattia vi impedisca, / I vostri nati torcano il viso da voi»). E quel “voi” iniziale non lascia dubbi che a essere chiamati in causa non siano soltanto gli aguzzini, bensì tutti gli esseri umani e la loro coscienza.

Alla luce di questo è ben difficile considerare umani tutti coloro che ancora oggi nutrono sentimenti di razzismo, di xenofobia, di aliofobia. E ancora più difficile è considerare umano chi queste immonde scorie di pensiero depravato esalta, accusando ingiustamente i deboli, incitando inqualificabilmente i violenti, vellicando viscidamente i già predisposti alla prevaricazione, lasciando intendere a fascisti, nazisti, razzisti in genere che forse non hanno diritto per legge di ammazzare e di usare violenza, ma che il modo di guardare a loro non è più così severo com’era una volta.

Il riferimento al ministro degli Interni (piacerebbe poter dire “sedicente”, ma purtroppo è proprio così) Matteo Salvini è esplicito e non potrebbe essere altrimenti, visto che continua nella sua immonda attività contro chi non può difendersi, ottenendo anche che una nave, invece di accettare che le richieste d’asilo che 108 naufraghi recuperati possano essere presentate, obbedisce ai suoi ordini e li riporta in uno dei porti libici che esplicitamente pochi giorni fa l’Unione Europea ha dichiarato «non sicuri». E di scarsa soddisfazione può essere il fatto che quasi sicuramente l’Italia, Salvini e il capitano di quella nave finiranno sotto giudizio in una corte internazionale. Che poi Trump lodi Conte per le politiche antimigratorie dell’Italia, non può che ribadire la ghignante indecenza di Trump e la sorridente pochezza di Conte.

Vorrei fare un’altra citazione di Levi: «A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager».

Pensateci. E pensate anche che la democrazia rappresentativa vive di deleghe da parte degli elettori agli eletti, ma che tra queste deleghe non compare quella di conferire ad altri la nostra coscienza e la nostra dignità. Non per nulla i tedeschi, che della soppressione dell’umanità altrui portano incancellabili marchi a fuoco nella coscienza collettiva, hanno voluto inserire nella Grundgesetz, la Legge Fondamentale della Germania il “diritto di resistenza” esplicitato nell’articolo 20 che recita: «Tutti i tedeschi hanno diritto di resistenza contro chiunque si appresti a sopprimere l’ordinamento vigente, se non sia possibile alcun altro rimedio». E appare evidente che chiunque comprenda l’enorme valore del “diritto di resistenza”, finisce inevitabilmente per farne tesoro tanto da elaborarlo in “dovere di resistenza” in ogni giornata della propria vita.

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sabato 28 luglio 2018

Ma che Italia è?

Ma che Italia è? Anzi, la formulazione esatta della domanda dovrebbe essere: Ma che Italia è diventata? Perché basterebbe tornare indietro con la memoria di alcuni anni, non di alcuni decenni, per rendersi conto che stiamo vivendo in un Paese che fatichiamo a riconoscere.

Oggi, tanto per restare alla cronaca, conviviamo quasi quotidianamente con notizie come quella che racconta che nel Vicentino un italiano ha sparato con una carabina ad aria compressa dal terrazzo di casa sua e ha ferito a sangue con un pallino di piombo un operaio, di pelle scura, originario del Capo Verde, che lavorava su un ponteggio, a circa 7 metri di altezza, per una ditta di impianti elettrici. Come scusa, lo sparatore ha detto che voleva mirare a un piccione, frase che riporta alla memoria altre giustificazioni, come «Avevo appena comprato l’arma e volevo provarla», o il più classico «Stavo pulendo l’arma quando mi è partito un colpo».

Si tratta del settimo episodio simile in un mese e mezzo e il Presidente Sergio Mattarella aveva già capito in anticipo che appare ben difficile parlare di semplici coincidenze; infatti ha detto: «L’Italia non può somigliare a un Far West. Questa è barbarie». E l’indignazione del capo dello Stato ha scosso anche una stampa per buona parte sonnacchiosa e attenta a non urtare la sensibilità dei nuovi governanti e che soltanto ora – sempre in parte – si è resa conto che, dopo l’uccisione del 3 giugno a Vibo Valentia dell’immigrato del Mali che stava recuperando due lamiere di nessuno per costruire un riparo per altri, gli episodi di spari contro immigrati e rom si sono susseguiti a ritmi preoccupanti. L’11 giugno, a Caserta, tre ragazzi bianchi, al grido di «Salvini! Salvini!», hanno sparato in strada contro due giovani del Mali ferendone uno; il 20 giugno, nel centro di Napoli, un cuoco, sempre del Mali, che aveva partecipato a Masterchef, è stato ferito da due uomini che, dopo gli spari, si sono messi a ridere; il 2 e 5 luglio, episodi simili a Forlì dove le vittime sono giovani della Costa d’Avorio; l’11 luglio a Latina tocca a due nigeriani presi di mira da tre ragazzi che si divertivano a fare “il tiro al nero”; il 17 luglio, a Roma, è una bimba rom di 13 mesi a essere colpita da un pallino di piombo che le si conficca nella colonna vertebrale con interessamento del midollo e, quindi, con grossi rischi sulla sua possibilità futura di camminare.

È davvero possibile che l’Italia dell’accoglienza possa essere diventata d’un tratto l’Italia dell’odio? È possibile che tutto questo possa essere una flatulenza etica spontanea di origine inconcepibile? Ovviamente no. Appare evidente che è il frutto della lunga opera di slogan vuoti e gonfiati soltanto dal livore, da parte di quello che possiamo tranquillamente chiamare il “ministro dell’odio”, anche perché estende il suo rancore per gli stranieri, ma soprattutto per coloro che lui ritiene diversi, non soffermandosi soltanto al suo dicastero degli Interni, ma allargandosi anche ad altrui competenze se vede che l’odio in quei campi può trovare ulteriori, lucrose applicazioni.

Un giudizio eccessivamente severo? Non credo proprio se addirittura il Consiglio comunale di Maiorca ha dichiarato Salvini «persona non gradita» nell’isola spagnola. Lo ha reso noto il Diario de Mallorca, spiegando che la mozione, presentata dai partiti Podemos, Mes e Psib, è stata approvata all'unanimità, includendo anche una condanna della proposta del ministro degli Interni di fare un censimento dei rom, sottolineando le sue «terribili e oltraggiose dichiarazioni e le politiche» che «distillano una xenofobia molto grave e preoccupante e un evidente disprezzo per la vita e la dignità umana». E a questa presa di posizione ufficiale Salvini risponde: «Non benvenuto a Maiorca? Chi se ne frega; le mie vacanze le faccio in Italia!». Una risposta del tutto inadeguata nella quale merita sottolineare soltanto quel «Chi se ne frega», che era una frase tipica del regime fascista.

Non bastasse Maiorca, a scendere in campo contro Salvini sono anche due giornali del cattolicesimo italiano. L’Avvenire lo attacca decisamente per gli sgomberi dei campi rom in cui, tra l’altro appare evidente la discriminazione razziale visto che la stragrande maggioranza dei cacciati a forza sono italiani. Famiglia cristiana gli dedica addirittura la copertina con il titolo “Vade retro, Salvini” e il sottotitolo “La CEI, i singoli vescovi, le iniziative di religiosi. La Chiesa reagisce ai toni aggressivi del ministro degli Interni. Niente di personale o ideologico. Si tratta del Vangelo”. E il cappello dell’articolo è ancora più severo e  deciso: «Se prima di giurare sul Vangelo, in campagna elettorale, Matteo Salvini ne avesse letto qualche pagina, forse oggi non si troverebbe così fuori registro rispetto alle parole della Chiesa cattolica». A tutto questo Salvini ha risposto con un miserando «Copertina di cattivo gusto».

E davanti a posizioni così nette, l’opposizione cosa fa? Praticamente nulla: crede che sia sufficiente opporsi a qualche leggina in Parlamento, mentre è l’intero Paese che sta disgregandosi; mentre sarebbe necessario dimenticarsi i giochi di potere o le schermaglie politico-burocratiche per tornare a parlare alla gente, per infiammarla di nuovo con argomenti etici che, anche se i nostri politici credono il contrario, parlando di diritti umani e sociali, possono avere più presa sulla gente anche degli argomenti economici. Il problema è che per infiammare la gente con qualsiasi argomento, prima bisogna crederci. E , quindi, la prima richiesta che va fatta alla sinistra, se vuole davvero rinascere e non rassegnarsi a scomparire, è quella di disfarsi delle donne e degli uomini politici che a questi argomenti non credono, che sono disposti a barattare valori con prezzi, che cercano e accettano compromessi anche su cose sulle quali nessun compromesso può essere accettato perché equivarrebbe indebolire e minare alla base i pilastri su cui si basa la società in cui crediamo, che è totalmente diversa da quella in cui credono Salvini e i suoi dipendenti.

Per quanto riguarda coloro che hanno votato 5stelle, poi, decidano loro se essere complici, oppure credere ancora ai loro sogni anche rassegnandosi ad accettare il fatto che molti sogni sono soltanto illusioni indotte a scopi elettorali.

Ancora una volta, insomma, come la storia ha sempre insegnato, coloro che riescono a concentrare nelle proprie mani tanto potere lo possono fare non soltanto per le loro capacità personali, ma soprattutto per l’ignavia dei cittadini che sopportano le loro alzate d’ingegno e le loro soperchierie e che, per certi periodi, addirittura le esaltano, prima di rendersi conto che talvolta si può finire inconsapevolmente in una delle categorie che di volta in volta finiscono nel mirino del ducetto di turno: neri, rom, omosessuali, e poi, chissà. Basta leggere la storia per non dover sforzare la propria fantasia a trovare categorie legate a pelle, nazionalità, religione, credo politico, modo di vestire, eccetera, eccetera.

E riportare l’Italia a un ruolo più confacente alla sua dignità sarà un compito difficilissimo perché, visto che nella comprensione di un testo scritto gli italiani sono in fondo alla classifica europea, bisognerà soprattutto parlare e metterci la faccia. Lo ripeto: la sinistra dimostri di essere di nuovo sinistra e mandi a casa chi non se la sente di farlo.

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domenica 22 luglio 2018

Le due brecce

Quando George Orwell scrisse il suo “1984”, sicuramente era sotto l’influsso di quel profondo pessimismo che nel 1948 permeava molti ambienti dell’immediato dopoguerra che vedevano distintamente quella crisi di valori che aveva già minato la fiducia della borghesia e degli intellettuali nel positivismo e nelle ideologie da questo derivate. E, conscio di innestarsi nel filone dei romanzi distopici, nati in opposizione ai romanzi utopici, per meglio attrarre l’attenzione del lettore, Orwell aveva deliberatamente calcato la mano con fantasie pessimistiche che odoravano nettamente di fantascienza in un epoca in cui quel genere letterario stava cominciando a vivere la sua epoca d’oro. A rileggerlo a settant’anni di distanza, viene da pensare, però, che non di esagerazioni fantapolitiche si fosse trattato, bensì di tristi, se pur involontarie, profezie.

Pensate soltanto a una delle immagini più ossessive del romanzo: quei grandi manifesti di propaganda che ritraggono il Grande Fratello, con il monito «Il Grande Fratello ti guarda», e con gli slogan del partito: «La guerra è pace», «La libertà è schiavitù», «L’ignoranza è forza».

Ebbene: il Grande Fratello non lo vede mai nessuno dal vivo, un po’ come Grillo, ma pretende di governare su tutto, un po’ come Salvini, o, a suo tempo, Renzi.

Sulla confusione tra pace e guerra basta ricordare quante guerre di conquista, anche se non necessariamente territoriali, sono state fatte con la scusa di portare pace e democrazia in Paesi lontani che, in definitiva, chiedevano soprattutto umanità e, di conseguenza, giustizia.

Sul fatto che la libertà possa diventare uno specchietto per le allodole che dissimula una reale schiavitù non si può trascurare il fatto che tanti mettono a repentaglio la propria vita in cerca di libertà per poi, se sopravvivono al viaggio, trovarsi rinchiusi in carceri alle quali delle carceri manca soltanto il nome, o vedersi rimandare al mittente libico che già li aveva imprigionati, torturati, violentati, angariati. E sul binomio libertà-schiavitù ci sarebbe molto da parlare anche per quanto riguarda il web che viene sbandierato come il regno della libertà, mentre innesta dipendenze e schiavitù dettate anche da un dilagare di false notizie confezionate ad arte, o indotte da risultati comodamente alterabili dei sondaggi, o delle votazioni digitali.

Infine, sul fatto che l’ignoranza è forza, c’è da perdersi nell’imbarazzo della scelta tra gli innumerevoli esempi che ci sono offerti quotidianamente dai nostri governanti che proprio sull’incapacità di andare oltre lo slogan vuoto, ma a effetto, hanno basato le loro fortune e che, quando si trovano a dover misurare la propria incapacità e la propria inesperienza con gli enormi problemi di una comunità, non trovano di meglio da fare che incolpare chi li ha preceduti, o coloro che fanno opposizione e non lasciano loro il campo completamente libero; oppure, ancora, fanno finta di niente e confezionano leggi che sono per una certa parte, comunque non trascurabile, incomprensibili, o inapplicabili e che, comunque, restano per anni senza decreti attuativi.

Edgar Morin, grande vecchio quasi centenario e ancora straordinariamente lucido e produttivo, meritatissimo Premio Nonino di un po’ di anni fa, analizzando quel Sessantotto di cui ricorre il mezzo secolo, appunta la sua attenzione sul fatto che quell’anno cruciale, intrecciando occupazioni di fabbriche e di università, imponenti manifestazioni politiche, studentesche e operaie, scontri e barricate, diede vita a un amalgama che non soltanto rafforzò la protesta, ma, con l’assommarsi di istanze libertarie e velleità rivoluzionarie, di conflitto generazionale e lotta di classe, di movimenti studenteschi e risvegli sindacali, riuscì ad aprire una breccia dentro la quale cominciarono a ribollire con più forza istanze e processi innovativi tra cui, soltanto per citarne qualcuno, la parità uomo-donna, la difesa delle minoranze, la coscienza ecologica, l’esigenza di riappro¬priarsi delle scelte di vita individuali.

Oggi stiamo assistendo, purtroppo ancora attoniti e smarriti, all’apertura da parte della destra (che esiste ancora; eccome, se esiste!) di una nuova breccia al di là della quale non ribolle nulla di nuovo, ma in cui divampano fiamme che sembrano capaci di ridurre in cenere tutti quei progressi che non solo dal Sessantotto, ma fin dall’epoca dei Lumi, erano stati originati dall’ansia di miglioramento della specie umana nel suo complesso e non soltanto delle sue piccole parti più potenti.

E ora siamo qui a chiederci come abbiamo potuto permettere che il nostro mondo cambiasse tanto, e in peggio. Come sia stato possibile barattare l’entusiasmo e l’utopia con la paura e l’odio. Come non ci si sia opposti alla marginalizzazione e alla ridicolizzazione della cultura per fare spazio a tanti che nulla sanno, ma che sono convinti di essere capaci di diventare qualunque cosa: da presidente del Consiglio in giù. Come ancora oggi si guardi ai piccoli problemi personali senza rendersi conto che sono soltanto una minuscola parte dei problemi generali e che sono questi ultimi che devono essere risolti per primi, perché altrimenti impediranno ogni soluzione degli altri.

Morin afferma che forse nel Sessantotto siamo stati convinti di avere vissuto una rivoluzione politica e sociale, mentre invece stavamo vivendo un vero e proprio rinnovamento culturale e antropologico e, conseguentemente, che la crisi che quell’anno ha provocato non è stata una crisi politica, ma una strisciante crisi di civiltà, di quella “civiltà del benessere”, inestricabilmente legata al culto del dio denaro, che poi ha permeato quasi ogni scelta sociale successiva agli anni Settanta.

Quindi, forse oggi sbagliamo a pensare che per opporci alla schifosa marea nera che minaccia di soffocarci dobbiamo agire a livello politico. O, meglio, l’ipotesi non è sbagliata, ma è soltanto parziale, perché prima dovremmo agire in maniera da riuscire a impostare nuovamente un rinnovamento culturale e antropologico. Insomma, probabilmente, ancora una volta l’unico modo per opporsi alla barbarie non è né la forza, né l’astuzia politica di corto respiro, ma la quotidiana, paziente e faticosa opera di imparare e di insegnare: due azioni che una volta erano sempre fuse tra loro e che oggi sembrano condannate a non avere più rapporti; a diventare entrambe sterili, spianando così la strada a coloro che sull’assenza di pensiero cosciente altrui hanno fondato la loro impudente fortuna.
 
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giovedì 12 luglio 2018

Il concetto di rassegnazione

È fin dall’antichità che hanno fatto di tutto per convincerti che se sei povero è colpa tua perché non ti sei dato abbastanza da fare; mentre se sei ricco è perché sei bravo e intelligente. E lo stesso puntiglio ce l’hanno messo, sempre dalla notte dei tempi, per persuaderti che se sei nato in un posto povero, arido, climaticamente disagiato, socialmente terrificante, ebbene, hai avuto sfortuna, o, se credi, che un qualche Dio ce l’ha avuta con te; se, invece, hai visto la luce in un Paese fertile, ricco, dominante, è la sorte, o il destino, o quel qualche Dio ad aver deciso che tu non soltanto abbia diritto alla vita più di altri, ma che, addirittura, quegli altri abbiano il dovere di supplicarti, di chiederti la grazia per avere qualche possibilità di sopravvivenza per sé e per i propri cari. E il corollario, importante come il teorema, è stato che in ogni caso bisognava rassegnarsi, che ribellarsi non era soltanto inutile, ma anche dannoso, perché blasfemo: come un essere umano poteva opporsi, infatti, ai voleri della sorte, del destino, o addirittura di un qualche Dio?

Dei risultati derivanti dal fatto che di queste sciocchezze per secoli siano riusciti a convincere la maggior parte della gente, sono pieni i libri di storia con imperi, regni, satrapie, nobiltà, servitù, schiavitù, guerre, razzismi, genocidi, stragi, rivoluzioni, repressioni, carestie, epidemie, migrazioni.

Poi si è cominciato a non credere più tanto, né alla sorte, né al destino, né al fatto che un qualche Dio, se esiste, possa divertirsi a farsi rappresentare da qualcuno e a permettergli di prevaricare gli altri invocando nobiltà, censo, o colore della pelle e dei capelli. Si è cominciato a pensare che tutti gli esseri umani siano uguali e abbiano il medesimo diritto di vivere e di puntare, se non alla felicità, almeno al miglioramento. Si è cominciato a lottare per estendere i diritti di tutti e a offrire garanzie generali a coloro che sono più deboli. Il tutto, convincendosi che, pur se ormai nulla poteva essere fatto per cambiare la storia, era invece possibile emendare preventivamente la cronaca da tutte le brutture passate.

Ma purtroppo – dobbiamo dircelo – è stato un sogno di breve durata. Forse la nobiltà ormai ha dovuto alzare definitivamente bandiera bianca, ma censo e razza, soldi e potere, nazionalismo e razzismo, hanno rialzato la testa con violenza e con la sete di vendetta di chi, vistosi ormai quasi perduto, riesce ad approfittare della disattenzione, o della sazietà dei carcerieri, per uscire di nuovo allo scoperto e per tornare a convincere gli altri agitando spettri come l’odio e la paura; come se tanti secoli fossero passati invano; come se di nuovo fosse lecito, com’era nell’antichità, condannare uno solo perché aveva pelle, o lingua, o religione, o vestiti, o gusti alimentari, o abitudini sessuali, o altro ancora, diversi dei nostri.

L’unica differenza, apparente e temporanea, da mantenere fin quando la conquista non sarà completata, è l’abitudine a mascherare le parole, a edulcorarle, per evitare di spaventare quella gente che si dice chieda sicurezza, mentre, invece, chiede soprattutto di non dover pensare, di non dover scegliere, di non dover rinunciare a qualcosa che si desidera, anche se non se ne ha un bisogno disperato, in favore di chi questo bisogno disperato, invece, ha.

E così abbiamo visto il parziale adattamento del termine “sovranismo”, di origine francese, per riferirsi, senza citarlo, al “fascismo”. Oppure abbiamo assistito allo stravolgimento del “populismo” che originariamente per i russi indicava una specie di socialismo rurale e che oggi, invece, punta a far credere che si voglia dare spazio alle qualità e capacità delle classi popolari, mentre invece è un’esaltazione demagogica rivolta a chi ascolta puntando a distrarlo e a convincerlo di avere in mano un potere che, invece, è saldamente in pugno di coloro che questo populismo usano. Ma si possono usare anche locuzioni: il «Prima gli italiani», infatti, non riesce a nascondere il razzismo di fondo che anima queste parole, sia perché lo slogan stato registrato come proprio marchio da Casapound il 20 marzo 2017, sia in quanto mostra inevitabilmente la corda quando Salvini si scaglia contro i rom e non perché non italiani, visto che per il 90 per cento lo sono, ma proprio e soltanto perché rom.

E, a questo punto, torna in campo il concetto di rassegnazione, quello che ha permesso che tante ingiustizie continuassero per secoli e che oggi, con lo stesso scopo, si vorrebbe ritirare in ballo un po’ imbrogliando le carte, un po’ approfittando che la sinistra appare impotente, tradita da chi era stato designato a guidarla, ma anche, almeno in parte, dai suoi frequentatori che, ormai troppo spesso feriti da altri, non riescono più a fidarsi di nessuno.
Bisognerebbe, quindi, rassegnarsi ad avere Salvini non solo come ministro degli Interni, ma addirittura come premier reale e debordante su ogni altro ministero, anche grazie all’inesistenza del presidente del Consiglio Conte e al timore di Di Maio, e grillini assortiti, di perdere la fascinosa poltrona da poco conquistata? Bisognerebbe rassegnarsi ad accettare fascismo, demagogia e razzismo?

Ovviamente no. E, per rifiutarsi, intanto non si può restare in silenzio davanti alle mostruosità che Salvini dice. A molti, per esempio, deve essere sfuggito – o hanno preferito far finta di niente – un botta e risposta tra il procuratore capo di Torino, Armando Spataro, e il ministro pro tempore (speriamo non lungo) degli Interni, Salvini. «Se per assurdo un barcone di immigrati arrivasse ai Murazzi del Po, dovrebbe poter attraccare perché la Convenzione di Ginevra prevede il diritto al non respingimento. Quindi un immigrato ha diritto di scendere per chiedere asilo politico e la sua richiesta deve essere vagliata. Se questo non accadesse io dovrei fare degli accertamenti», è la dichiarazione di Spataro. E Salvini risponde: «Mi ha incuriosito che decida lui cosa può fare o non fare un governo eletto da milioni di italiani. Io penso che bloccare i porti a chi aiuta i trafficanti di esseri umani non sia un diritto ma un dovere. Se qualcuno la pensa diversamente può candidarsi alle prossime elezioni».

Questa è una risposta che richiede attenzione su molti punti. Per prima cosa a decidere non è Spataro, ma la Convenzione di Ginevra alla quale l’Italia aderisce e che, quindi, deve rispettare. Poi magari Salvini non se ne ricorda, o non lo sa, ma dai tempi di Montesquieu esiste una cosa chiamata separazione dei poteri e un magistrato deve decidere seguendo la legge e non i piaceri del governo di turno. Poi sul governo eletto da milioni di italiani qualche dubbio c’è, perché molti di quei milioni di italiani hanno votato Centrodestra, o 5stelle non prevedendo minimamente – e forse neppure apprezzando – che i grillini potessero allearsi con una parte, quella più integralista, del Centrodestra.

Curioso, poi, l’ultimo – diciamo così – pensiero: «Se qualcuno la pensa diversamente può candidarsi alle prossime elezioni». La prima cosa che balza agli occhi è che la libertà di pensiero è di parola è assicurata dalla nostra Costituzione – altro testo che forse Salvini non ricorda, o non conosce – a tutti e non soltanto a onorevoli, senatori, ministri e sottosegretari. La seconda è che questa è la prima volta che Salvini è stato eletto in Parlamento, eppure è già da anni che ha ammorbato le nostre orecchie con le sue flatulenze intellettuali senza che mai nessuno – com’è giusto – gli abbia mai ricordato che era soltanto un deputato europeo e che, quindi, secondo le sue teorie, avrebbe avuto diritto a parlare soltanto di Europa e di rapporti tra Ue e Italia.

Sul bloccare i porti, infine, Salvini dovrebbe ricordare che non rientra tra le sue competenze, ma va a invadere quelle del ministero delle Infrastrutture del sognante ministro Toninelli, o quello della Difesa in cui la ministra Trenta almeno tenta di far rispettare le proprie prerogative. Molto ci sarebbe poi da ridire sul fatto che sempre Salvini non vuole autorizzare lo sbarco dei naufraghi recuperati dalla Diciotti, nave della Guardia costiera, nel porto di Trapani, a meno che non scendano tutti in manette, con una misura di costrizione, cioè, imposta non dico senza un giudizio, ma neppure senza un’indagine. E non mi si venga a dire che questo non ci riporta alla memoria quanto accadeva nel ventennio fascista.

In realtà, poi, almeno una cosa del ventennio fascista si è già ricreata: dopo decenni in cui con gli avversari politici, anche i più lontani, ci si affrontava a muso duro, ma si riusciva a discutere perché c’erano in comune un linguaggio politico e degli inamovibili caposaldi istituzionali, oggi tra le varie fazioni politiche (chiamarle partiti sarebbe un immeritato complimento) non si tenta nemmeno più di confrontarsi e ci si disprezza vicendevolmente come si fa con i nemici, in una guerra che, come tutte le guerre avrà uno sconfitto e un vincitore che, però, non sarà mai il popolo che continua a essere angariato da provvedimenti, o da altrettanto drammatiche latitanze, che causano morti, disuguaglianze e disperazioni che sono considerati semplici “danni collaterali”. E questa atmosfera si sta trasferendo anche ai rapporti umani: sempre più, infatti, si assiste a rapporti personali interrotti con decisione proprio per motivazioni politiche.

Rassegnarsi porta anche a questo.

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venerdì 6 luglio 2018

Non ci sono terze vie

Sarebbe il caso di metterselo velocemente e bene in testa: tutto questo non passa da solo. La storia ha dimostrato abbondantemente che se si lascia che un cancro sociale si estenda senza nemmeno tentare di opporvisi, diventa incurabile e può essere estirpato soltanto dopo momenti traumatici e drammatici, come guerre e rivoluzioni. E, allora, è il caso di chiederci – proprio adesso e non domani, perché il tempo forse potrebbe essere già scaduto – se intendiamo opporci a Salvini e soprattutto alle sue idee, o se preferiamo diventarne complici. Con la fastidiosa, ma innegabile coscienza che terze vie non ce ne sono perché, come giustamente ha detto Edmund Burke e altrettanto giustamente ha ricordato Martin Schultz «Per far vincere il male, è sufficiente che i buoni non facciano nulla».

Davanti a questa frase molti domandano se chi la pronuncia non è presupponente nel pensare di rappresentare il bene. E hanno ragione perché il bene è troppo perfetto per poter essere racchiuso in una sola persona, o anche in una sola idea; figuriamoci in un gruppo di persone, o in una nazione.

Ma se il bene non è facilmente definibile, sull’individuazione del male non ci possono essere dubbi. A meno che, ovviamente, non si rinunci a una buona parte della propria umanità.

Vi sembra davvero totalmente umano un ministro degli Interni che pretenda di far chiudere i porti alle navi che salvano i migranti che naufragano nel Mediterraneo? Che pretenderebbe che le navi italiane venissero meno agli obblighi di solidarietà che da sempre sono rispettati in mare? Che tenta di imporre ai prefetti di ridurre, a prescindere da questioni di sostanza, il numero di accoglimenti di domande di asilo politico, di protezione sussidiaria e di protezione umanitaria, specificando che anche madri, bambini e malati non devono sentirsi al riparo? 
Molto più beceramente umano, ma pur sempre umano, appare quando tenta di non ritenersi chiamato in causa dalla sentenza della Corte di Cassazione che impone la restituzione di 49 milioni di euro indebitamente incassati e fatti sparire dalla Lega, con la furbesca motivazione che quella si chiamava “Lega Nord” e quella di oggi si chiama “Lega per Salvini premier”.

E che il cancro si stia diffondendo non lo si evince soltanto dal comportamento di Salvini, coerentemente e progressivamente sempre più eterofobo e razzista, ma soprattutto da come sta cambiando il comportamento di molti, troppi italiani. Ce ne accorgiamo ogni giorno di più, in strada, al bar, guardando i giornali, o, per chi ne ha ancora lo stomaco, leggendo i vomitatoi di odio legati ai social network.

Di esempi ce ne sono a bizzeffe, ma uno accaduto ad Alassio qualche giorno fa mi sembra davvero emblematico. Nella località turistica ligure c’è un cagnolino addestrato a ringhiare solo «quando passano i negri – spiega la sua padrona, comproprietaria di un albergo con bagno annesso – perché li riconosce dall’odore; non contro quelli ricchi, ma solo quelli contro che hanno odore». Il cagnolino abbaia contro un ragazzo di colore, alcuni bagnanti ridono, applaudono e lo incitano, ma una signora li invita a smettere e loro la prendono in giro e una donna la offende pesantemente con riferimenti sessuali alla signora stessa e ai migranti. La proprietaria del cane, lungi dal sentirsi imbarazzata dall’avere un cane “razzista”, si affretta a specificare che «sì, la signora è stata offesa ma da clienti non del nostro hotel. Poi è vero che il mio cane ringhia contro i negri che hanno odore, ma non ha mai azzannato nessuno».

Siete d’accordo che non c’è più tempo se si vuole evitare che la nostra umanità e la nostra Costituzione vengano sgretolate ogni giorno di più? Siete d’accordo che tra l’opporsi e l’essere complici non c’è una terza via?

Indossare una maglietta, o una camicia rossa, come ha chiesto don Ciotti per questo sabato, «per fermare l’emorragia di umanità», può apparire un piccolo gesto, ma resta sempre un gesto di disobbedienza; resta sempre una testimonianza che ancora c’è gente che è capace di dire «NO!» alla barbarie e alla disumanità. La testimonianza non è soltanto importante: quasi sempre è determinante.


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domenica 1 luglio 2018

Il pericolo maggiore

È difficile credere che praticamente nessuno, tranne Salvini, si renda conto che il 2019 potrebbe diventare un momento di forte discontinuità nella storia dell’Europa, un vero spartiacque tra il progresso e il regresso. Tra meno di un anno, infatti, saranno celebrate le nuove elezioni europee e una vittoria dei sovranisti e delle destre xenofobe potrebbe innescare una serie di tensioni e reazioni tali da distruggere il castello della stessa Unione Europea, da far ricostituire le frontiere nazionali e da far cancellare la moneta unica. Sarebbe il pericolo maggiore: più una catastrofe, insomma, che un regresso.

Vi sembra un eccessivo e ingiustificato pessimismo? Non è così: pensate soltanto a quanti leader politici, al di là di Salvini e Orban, stanno vagheggiando la nascita di una specie di “Internazionale del nazionalismo”, idea che potrebbe sembrare uno dei tanti ossimori intrinsecamente senza senso, ma che, invece, possiede una dose di pericolosità di cui temo si sia persa la coscienza di quanto dovrebbe metterci paura, perché quando i nazionalismi e le frontiere rinascono, quando le etnie e le religioni tornano a essere determinanti nelle scelte sociali, ci si avvicina sempre e inevitabilmente a soprusi e a conflitti che, visto che troppi pensano di possedere ogni verità, diventa difficilissimo comporre prima che possano trasformarsi in veri e propri scontri di forza.

E se dal punto di vista politico i pericoli sono consistenti, da quello economico una dissoluzione della moneta unica sarebbe una catastrofe per i cittadini delle nazioni finanziariamente più esposte: il ritorno alle monete nazionali, infatti, preluderebbe a inevitabili – o, meglio, volute – svalutazioni intese a far aumentare l’export, ma destinate a mordere pesantemente e almeno temporaneamente il potere d’acquisto degli stipendi, ma ancor più pesantemente e definitivamente le pensioni, finendo non per riequilibrare situazioni di pesantissima diseguaglianza, ma per renderle ancora più profondamente inique.

Davanti a un Salvini che sta maramaldeggiando e, con l’aiuto dei suoi luogotenenti sui territori, sta cercando di capitalizzare paure reali, ma soprattutto indotte, come dall’assurda scelta di far scortare i medici dagli alpini in congedo, nessuno sembra pensare che i sondaggi di oggi tra meno di un anno potrebbero diventare voti e che, visto il sistema puramente proporzionale, il risultato potrebbe dare alla Lega un buon numero di seggi da portare in dote al gruppo di populisti e nazionalisti antieuropei.

I 5stelle sono troppo impegnati a difendere le loro poltrone per azzardarsi a contraddire il capo degli ex secessionisti del Nord, tanto che Di Maio, molto affezionato al suo ruolo di vicepresidente del Consiglio, rimbrotta senza esitazioni il presidente della Camera, Fico, suo compagno di partito, che condanna l’idea di chiudere i porti ed esalta l’opera delle Ong che si adoperano per salvare la vita dei migranti nel Mediterraneo.

Berlusconi è molto preoccupato soprattutto dal fatto che il suo ex alleato di minoranza, ora che ha davvero il potere in mano, finisca per danneggiare i suoi affari televisivi, e, quindi, sta ben attento a non contraddirlo; cosa che fa anche la Meloni, un po’ perché condivide i trucidi principi salviniani, un po’ perché capisce che, senza quell’alleanza, il suo partito rischierebbe di sparire dalle attribuzioni di seggi.

Intanto la sinistra, tra ambizioni individuali e di gruppetto, continua a non trovare il bandolo di una matassa che dovrebbe portare almeno a un’unità di intenti, se non a un’identità di idee. Si ostina a parlare di unità insistendo «sulle tante cose che ci uniscono» e trascurando completamente di parlare di «quelle poche che ci dividono», che numericamente saranno anche di meno, ma che sono quelle che da sempre finiscono per lacerare rapporti già logori in partenza.

Dal canto suo, il PD non smette di vivere in un suo mondo che sembra non avere più alcun addentellato con quello reale. Mentre Salvini avanza con la decisione di un carro armato, invadendo in continuazione anche campi che non sono suoi, il PD continua a interrogarsi senza la minima fretta su tra quanti mesi fissare il congresso, a discutere di possibili futuri candidati al ruolo di segretario, ma a evitare testardamente di individuare gli errori che hanno causato il disastro e anche a tracciare programmi futuri, a tentar di far vedere agli elettori quali sono le sue proposte sociali per riparare alle tensioni e diseguaglianze che stanno affondando la nostra società e il nostro Paese.

E la responsabilità del PD è di molto superiore a quella degli altri perché è l’unico partito dichiaratamente di centrosinistra che possa sperare di riconquistare in tempi accettabili una massa gravitazionale capace di attrarre i tanti satelliti che una volta gli giravano attorno puntando a influire sulle sue decisioni e che oggi lo hanno abbandonato quasi dappertutto al suo destino. È ovvio che mi sto riferendo al vero PD, non a quell’entità che di quel partito ha mantenuto il nome, ma ha stravolto completamente la sostanza.

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